Esercizi Spirituali – Figlie di Nostra Signora della Neve 2018

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Esercizi Spirituali – Figlie di Nostra Signora della Neve 2018

Il combattimento spirituale
Savona

INTRODUZIONE AGLI ESERCIZI SPIRITUALI

Iniziamo questi nostri Esercizi ritornando a una frase che San Paolo rivolge ai Romani quando decide di indirizzare loro l’importante lettera che tutti conosciamo. Al capitolo 1,11 Paolo si esprime così: “Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati – o meglio – per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io”.

Mi sembra che in questa parola dell’apostolo possiamo trovare come sintetizzato quanto desideriamo vivere in questi giorni: da parte mia davvero il desiderio di rivedervi, incontrarvi, il desiderio di comunicarvi – per quanto è possibile – qualche dono spirituale, perché ne possiate uscire fortificati nel vostro cammino spirituale, ma ancora di più il desiderio di rinfrancarmi insieme con voi, proprio ritornando a quella sorgente della fede che ci unisce e che è il significato profondo della nostra vita. Vogliamo fortificarci insieme ed essere rinfrancati insieme stando davanti al Signore!

A questo proposito mi piace leggervi un brano che San Bernardo indirizza ad un suo ex discepolo diventato Papa; gli scrive una lunga lettera, che conserviamo sotto il titolo di Le considerazioni, e in modo molto franco si rivolge così al Pontefice suo amico: “Ascolta il mio rimprovero e il mio consiglio: se dai anima e corpo alle cose esterne, trascurando completamente la contemplazione, debbo in questo lodarti? Nemmeno per sogno! Credo che nessuno lo farebbe, almeno tra quelli che hanno letto quelle parole di Salomone ‘quello che si perde in agire si acquista in sapienza’. Vuoi essere interamente a disposizione di tutti? Sta bene, lodo la tua generosità, a patto però che sia completa: se tu te ne escludi, come può essere tale? Non sei un uomo anche tu? se la tua generosità vuole essere perfetta, dal momento che abbraccia tutti, abbracci anche te; altrimenti – come dice il Signore – ‘Cosa ti gioverà guadagnare il mondo intero se perdi poi te stesso?’ Perciò, se tutti ti possiedono, possiediti anche tu: perché solo tu dovresti rimanere privo del dono di te? Fino a quando sarai uno spirito che si effonde senza ritorno? Tu accogli tutti, perché non accogli a tua volta te stesso? Sei debitore dei saggi e degli stolti, solo a te devi nulla? I dotti e gli ignoranti, i liberi e gli schiavi, i ricchi e i poveri, gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, gli ecclesiastici e i laici, i giusti e peccatori, tutti han su di te la loro parte. Il tuo cuore è una fontana pubblica, dove tutti han diritto di bere: tu solo deve rimanere in un angolo assetato? Non restare privo di ciò che ti spetta! Scorrano fin nelle piazze le acque della tua generosità, ci si dissetino pure gli uomini e le greggi; offri da bere anche i cammelli di Abramo, come Rebecca; insieme con gli altri però accosta anche tu le labbra alla sorgente del cuore. “Lo straniero non ci beva” – sta scritto – e saresti proprio tu lo straniero? E per chi non lo sei, se sei straniero per te stesso? E chi è cattivo con sé, con chi sarà buono? Ricordati quindi di rientrare in te; non dico sempre, non dico spesso, ma almeno qualche volta. Tutti si servono di te: insieme con gli altri, o perlomeno dopo gli altri, servitene anche tu!”.

Bernardo scriveva al Papa, che lui conosceva bene e che probabilmente era malato un po’ di attivismo … molto generoso, dimenticava poi di assetarsi alla sorgente del cuore, là dove il Signore ci vuole incontrare. Per noi questo tempo di Esercizi è un tempo importante e prezioso, perché non è sufficiente essere fontane pubbliche, come dice Bernardo, bisogna essere fontane che a loro volta ricevono acqua dalla sorgente viva che è Dio. Noi siamo qui in questi giorni non per evadere della nostra quotidianità; siamo qui per poter tornare alla nostra quotidianità ricchi di quella sorgente, che è Dio, alla quale ci siamo dissetati. Ecco perché dobbiamo vivere con grande serietà questi giorni! Non sono una pausa nel cammino dell’anno, non sono un semplice tempo di ristoro, fisico o spirituale che sia, ma sono un tempo prezioso per ritrovare in pienezza la sorgente che è Dio e per poter ripartire da lì, da Dio! Senza gli Esercizi – dovremmo esserne convinti – noi non possiamo vivere l’avventura della santità, come non possiamo vivere l’avventura della santità senza avere quel tempo prezioso che diamo a Dio e a Dio solo per essere di più suoi e dunque per poter essere di più degli altri e per gli altri.

C’era un giorno un grande insegnante di tiro con l’arco che seguiva alcuni ragazzi e li stava preparando perché diventassero dei grandi arcieri; per questo un giorno desiderò far loro sperimentare un po’ l’ansia e anche la gioia di una vera e propria competizione. Li portò con sé in una grande radura al limitare del bosco e con loro si mise da una parte di questa radura. Dalla parte opposta ad una certa distanza, su un tronco, collocò il bersaglio, un cerchio rosso. Questi giovani avrebbero dovuto uno dopo l’altro tirare con l’arco e centrare il bersaglio. Presenti a questa piccola gara erano anche i genitori e alcuni parenti amici.

L’insegnante chiese “Chi è che si vuole fare avanti?” e uno molto sicuro di sé si fece avanti, prese posizione e si preparò a lanciare la prima freccia. Però, prima che potesse lanciare una freccia, l’insegnante gli chiese “Senti, prima di lanciare la freccia dimmi una cosa: tu lo vedi il tronco su cui è collocato il bersaglio?” e il giovane un po’ stupito si rivolse al docente e gli disse “Sì, certo, lo vedo laggiù!”. Il docente gli rispose: “Guarda, non sei pronto a tirare, torna a posto!”. Si fece avanti un altro ragazzo e questo ragazzo prese ugualmente posizione, pronto per lanciare la freccia, e ugualmente a lui il docente disse “Tu vedi quegli alberi in fondo alla radura?” e anche questo ragazzo un po’ stupito rispose “Sì, certo, li vedo!” e anche a lui però l’insegnante disse “Guarda, torna a posto, perché non sei ancora pronto a tirare!”. Arrivò un terzo giovane e anche questo giovane si preparò e anche a lui l’insegnante chiese “Senti, tu vedi quell’uccello là posato sull’albero?” e il ragazzo rispose “Sì, lo vedo!” e anche a lui il docente disse “Torna a posto, perché non sei pronto!”. I genitori, i parenti e gli amici che osservavano questa scena erano un pochino sorpresi e cominciavano anche a rumoreggiare e a commentare. Finalmente si fece avanti un altro ragazzo, si preparò come gli altri e anche a lui il maestro pose la domanda e gli chiese “Senti, tu mi vedi?” “No, non la vedo” “Ma tu li vedi quegli alberi laggiù?” e il ragazzo gli rispose “No, non li vedo” e poi ancora gli chiese “Ma tu vedi i parenti lì a bordo di questo campo?” e il ragazzo ancora disse “Non li vedo” e allora il maestro gli chiese “Ma scusa, cosa vedi?” e il ragazzo rispose “Io vedo un cerchio rosso!” e allora docente gli disse “Bene, tira!” e fece centro!

Ecco, gli Esercizi sono il tempo nel quale noi ci concentriamo sul cerchio rosso e lasciamo perdere tutto il resto per poter fare centro con la nostra vita: il cerchio rosso è Dio! Ci concentriamo su Lui, perché il cammino quotidiano della nostra vita non sia una perdita di tempo, non sia una sconfitta, ma sia una vittoria, la vittoria della nostra sequela del Signore, la vittoria nel cammino della santità!

Ci introduciamo così e vogliamo ricordare alcuni altri piccoli particolari di questo tempo che vivremo insieme.

  • Certamente tanta parola ci raggiungerà: la Parola stessa di Dio e la parola che cercheremo di spezzare, perché possa essere per noi nutrimento del cuore. Potremmo a volte pensare “ma quanta parola, quale sovrabbondanza …!” Probabilmente faremo l’esperienza di cui Gesù ci parla nella parabola del seminatore, cioè di quel seme così sovrabbondante gettato, parte del quale cade su terra buona, altra su terra cattiva. Noi sappiamo e vogliamo sperimentare in questa sovrabbondanza di parola la sovrabbondanza dell’amore con cui il Signore segue la nostra vita, perché se ce ne dona tanta non è perché per forza noi tutta la tratteniamo, tutta la custodiamo, tutta la facciamo diventare nostra, ma  perché almeno qualcuna di quelle parole la accogliamo nel cuore, la piantiamo nella vita e la facciamo germogliare! Questo, lo sapete, è anche il motivo per cui siamo soliti non dare un titolo ai nostri giorni di Esercizi, perché noi sappiamo che gli Esercizi sono una parola particolare che Dio dice a ciascunoed è questa parola che dobbiamo cercare, di questa parola dobbiamo essere ascoltatori, per questa parola dobbiamo chiedere aiuto al Signore, domandare Grazia perché ce la faccia scoprire e amare come parola della nostra vita, come parola per la mia vita!
    Certo, un tema lo affronteremo insieme, ma non è importante il tema, perché all’interno del tema dobbiamo scoprire il tesoro di grazia che il Signore quest’anno – adesso! – ha riservato per ciascuno, ha riservato per me. Per cui alla fine potremmo dire “gli Esercizi di quest’anno per me sono stati il dono di questa parola del Signore alla mia vita, di questa luce che d’ora in avanti seguirò, di questa ispirazione che da adesso diventerà criterio del mio vivere!”.
  • San Placido, grande benedettino, forse il primo dei discepoli di San Benedetto, lasciò scritto questo, tra le sue riflessioni: “chi solleva se stesso solleva il mondo”. Certo, noi siamo qui per noi, ma in fondo siamo qui anche per gli altrie le due cose non sono in contraddizione, perché soltanto se solleviamo la nostra vita e la portiamo verso Dio noi diventiamo capaci anche di sollevare il mondo verso Dio, ma se non solleviamo noi stessi non solleviamo nulla …  Allora siamo qui per noi e per gli altri, per noi e per la gente che ci è affidata, per noi e per l’apostolato che siamo chiamati a svolgere: sono una cosa sola, perché se Dio è in noi Dio entra anche nel mondo!
  • Noi diamo – in parte anche giustamente – importanza a quello che facciamo, alle opere, a quello che realizziamo … e forse questo è anche il nostro criterio di giudizio sulla vita della Chiesa, sulla vita della Congregazione, sulla vita dei cristiani. Vorrei dirvi una cosa: che se ci fosse uno qui che in questi giorni, in verità, con tutta l’anima dovesse dire al Signore: “Io davvero desidero essere completamente tuo”, se qualcuno di noi dovesse dire questo nella verità profonda del cuore, questo sarebbe il tesoro più prezioso per il mondo intero e l’opera più grande che potremmo aver fatto nella vita per il regno di Dio. Allora chiediamo la grazia di dirlo da oggi: “Io sono totalmente tuo, tutto il resto non mi interessa più, voglio vivere per tee basta!”. Se qualcuno lo dicesse avrebbe dato il contributo più grande alla vicenda nel tempo del regno di Dio.
  • Vivremo nel silenzio, non è mai inutile ricordarci reciprocamente quale tesoro prezioso è il silenzio: la serietà del nostro silenzio e la profondità del nostro silenzio dicono lo spazio che vogliamo fare al Signore, allora il silenzio con cui viviamo queste giornate è la riprova del nostro autentico desiderio di Dio. Dobbiamo dircelo da subito e ricordarcelo durante il cammino degli Esercizi: se non entro dentro questo silenzio – anche soffrendolo, patendolo, macerandomi … – non è vero che desidero Dio, non è vero che voglio incontrarlo e non è vero che sono qui per dare una svolta alla vita!
  • Il grande Romano Guardini scrive così: “Ciò che viene da Dio non è nulla di già fatto né di già pronto, ma sempre un inizio”. Che cosa raccogliamo da questa espressione così profonda e importante? Che Dio ci mette sempre in cammino, che Dio scompiglia la nostra vita, che Dio toglie tutte quelle nostre false sicurezze dietro le quali ci rifugiamo e che ci fanno sentire tanto tranquilli, ci mette in movimento! Una verifica dell’autentico incontro con il Signore che vivremo in questi giorni sarà l’inizio di qualcosa di nuovo, un movimento del cuore, il sentirci in mare aperto, il capire che stiamo per essere condotti altrove rispetto a dove siamo ora. Questa è sempre la verifica del nostro incontro col Signore, lo è a maggior ragione durante un tempo di Esercizi. Non siamo qui per essere confermati nelle nostre piccole vedute, nei nostri piccoli traguardi; siamo qui per essere rimessi in discussione, perché quando si guarda il volto di Dio tutto è rimesso in discussione; capiamo di dover  iniziare di nuovo, ricominciare il cammino della sequela di Lui e dell’amore.

Il combattimento spirituale
Ecco ciò che costituirà il filo conduttore del nostro riflettere, pregare, progettare: quest’anno vivremo in compagnia di San Paolo, tornando al capitolo 6,10 della lettera agli Efesini là dove San Paolo introduce il tema del combattimento spirituale. San Paolo mette questo brano alla conclusione della lettera agli Efesini, che in verità sarebbe la lettera più contemplativa del suo epistolario, e questo già è interessante … perché? Proprio in quella lettera, nella quale Paolo si dilunga a parlare del mistero di Gesù e aiuta a contemplare il volto di Gesù, nello stesso tempo introduce il tema del combattimento spirituale, come a dire che più noi contempliamo il volto del Signore e più capiamo che dobbiamo combattere e dobbiamo lottare contro tutto ciò che contraddice la presenza e l’opera di Dio nella nostra vita, più siamo contemplativi e più siamo dei combattenti, più fissiamo lo sguardo e gli occhi nel volto del Signore e più ci accorgiamo di tutto quello che nella vita – ancora adesso – contraddice la presenza e l’opera di Dio in noi e ci mettiamo a lottare per sradicare da noi tutto questo! Ecco perché Paolo unisce contemplazione di Dio e combattimento spirituale.

Il combattimento di cui parleremo è un combattimento che ci trova protagonisti in una lotta con forze del male che sono fuori di noi: non c’è dubbio – lo sappiamo – viviamo in un mondo che ci è ostile, però sarà anche un combattimento che ci porta a considerare la lotta con le forze del male che sono dentro di noi, perché c’è un mondo ostile nel cuore, un mondo ostile a Dio. Non dobbiamo, credo, aver timore di dire che come il mondo è un campo di battaglia tra le forze del bene e le forze del male, così il nostro cuore è un campo di battaglia tra le forze del bene e le forze del male. Chi non vede la presenza di questo campo di battaglia vuol dire che non sta contemplando il volto del Signore e che non sta parlando col Signore, non lo sta ascoltando, non sta fissando lo sguardo sul mistero del regno di Dio, sta pensando ad altro, sta guardando altro, sta considerando altro …

Paolo contempla il mistero del Signore, scopre che è necessario un combattimento, aiuta a capire che c’è un armatura di cui abbiamo bisogno e della quale dobbiamo servirci.

In fondo saranno proprio questi tre i passaggi del nostro tempo vissuto insieme: contemplazione del volto del Signore, combattimento, armatura con cui affrontare il combattimento.

Se noi consideriamo molto brevemente, con uno sguardo di insieme, questo sesto capitolo all’interno del quale troviamo il tema del combattimento spirituale, possiamo avere alcuni piccoli aiuti, per poter poi entrare meglio nel merito, rispondendo a tre domande.

  • Quali esortazioni e inviti contiene questo capitolo?Quali esortazioni e inviti Paolo intende fare agli Efesini e attraverso gli Efesini a noi? Fondamentalmente due, che ritroviamo in queste parole: “Attingete forza nel Signore e armatevi!”.  Dobbiamo tenere ben presenti queste due parole, perché qui sta tutta l’intenzione dell’apostolo. Che cosa vuole comunicare a questi cristiani di Efeso – che gli stanno tanto a cuore, perché Paolo ama la chiesa di Efeso, ama i cristiani di Efeso, sono i suoi, li ha generati – e che cosa vuol dire loro? Attingete forza nel Signore e armatevi! Perché? Perché c’è una lotta che non è contro le potenze di questo mondo, ma è contro i principati, le potestà, gli spiriti del male, insomma è contro Satana e tutto ciò che deriva dalla sua opera nel mondo e nel cuore degli uomini. Per affrontare questa lotta, armatevi! Il verbo che Paolo qui usa fortificatevi, rendetevi forti, attingete forza, è un verbo che ritroviamo nella scrittura nel libro del Pentateuco e in particolare quando Mosè prepara Giosuè al compito che lo attende prima di entrare nella Terra promessa. Lì più volte Mosè si rivolge a Giosuè e gli dice: “Renditi forte, fortificati, attingi forza dal Signore, perché dovrai affrontare una serie lunga di combattimenti, di battaglie per poter entrare nella Terra promessa” e Paolo prende a prestito questo verbo per dire agli Efesini: fortificatevi, armatevi, fatevi forza nel Signore, perché dovrete affrontare questo combattimento contro lo spirito del male.
    Ecco dunque l’intenzione che dobbiamo attingere, perché Paolo lo dice a noi oggi: dovete armarvi dell’armatura di Dio, perché c’è una lotta quotidiana da affrontare con le potenze del male che operano nel mondo e operano nella vostra vita, nel vostro cuore.
  • A chi Paolo si rivolge?Alla chiesa di Efeso abbiamo detto. Ma chi erano questi Efesini? Erano pagani convertiti alla fede e si erano convertiti con grande fervore alla fede. Dunque erano cristiani fervorosi, però nel loro fervore, di tanto in tanto, correvano un pericolo grave, il pericolo di smarrire la vera fede. Allora Paolo si rivolge a loro tenendo conto di questa situazione, quella di uomini che hanno incontrato la fede, ma poi piano piano la stanno perdendo o la stanno vivendo male.
    La questione centrale nella chiesa di Efeso, che Paolo affronta parlando del combattimento spirituale, è la fede: è importante che ci ricordiamo questo, perché per noi, adesso, oggi, la questione centrale è la fede e il fatto che la nostra fede è povera e il fatto che non viviamo la nostra fede, la fede non scende nelle pieghe della vita, ci manca la fede per vivere davvero alla presenza di Dio! Certo, abbiamo tanti altri problemi, ci sono tante altre questioni, tante altre fatiche, ma c’è un problema centrale del nostro cammino ed è la fede. San Paolo ci aiuta a ricordare questo per non andare di qua e di là cercando motivazioni alle nostre problematiche laddove non è la radice vera delle nostre problematiche, perché la radice vera è la fede, la poca fede, la mancanza di fede nella nostra vita personale, nella vita delle nostre comunità!
  • In che cosa consiste questo combattimento spirituale?Quello che noi ritroviamo e che Paolo ci ricorda nel libro dell’Apocalisse quando Giovanni descrive così: Scoppiò quindi una guerra nel cielo. Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago, il drago combatteva insieme con i suoi angeli. Il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.
    Ci sono due possibilità nella nostra vita: o riconoscere Dio e metterlo al di sopra di tutto e vivere nella luce di questo primato o non riconoscere Dio e non vivere alla luce del primato di Dio. La nostra vita di consacrati è fatta sempre di questo bivio: o Dio è tutto e viviamo tutto in Dio o Dio non è più tutto e allora viviamo per altro, per altri, ma non più per Lui; forse per noi, ma non più per Lui. Allora c’è un combattimento, c’è un armatura da avere, dobbiamo lottare perché Dio sia il primo e tutto il resto verrà dopo! E’ una lotta difficile, Paolo lo sa e ci aiuterà ad affrontarla.
    Concludendo questa introduzione alle giornate che ci attendono vogliamo semplicemente ricordare una parola, la parola che l’Angelo rivolge a Maria dopo che le ha svelato la sua vocazione unica e in fondo dopo che le ha svelato la bellezza ma anche il dramma e la lotta che dovrà affrontare nella vita.
    “Nulla è impossibile a Dio!”. Vogliamo sentire questa parola per noi subito cominciando queste giornate; la vogliamo sentire, perché spesso proviamo la fatica del cammino; la vogliamo sentire, perché spesso abbiamo provato a lottare e abbiamo perso; la vogliamo sentire, perché pensando a ciò a cui siamo chiamati ci sentiamo piccoli e poveri; la vogliamo sentire per vivere questi giorni con slancio, con entusiasmo e con speranza. La vogliamo sentire perché essere convinti che nulla è impossibile a Dio significa già mettersi dalla parte di Dio, mettere Dio al primo posto e vivere di fede … ed è proprio quello che vogliamo fare.

 

PRIMA MEDITAZIONE
Il cammino degli Esercizi Spirituali
Riprendendo quanto accennavo ieri sera, diciamo alcuni pensieri un po’ in ordine sparso prima di introdurci nel testo sul quale ci soffermeremo per meditare questa mattina. Ciò che in questi giorni ci spinge non è la curiosità di sapere cose nuove, ciò da cui siamo attratti non è la capacità o meno di chi propone le meditazioni: ciò che importa non è la bellezza o l’interesse che suscita un argomento trattato, ma è il nostro desiderio di cambiare vita e la nostra volontà di usare questi giorni per deciderci ad essere totalmente di Dio. In questo senso gli Esercizi  Spirituali sono qualcosa di molto personale e tutto ciò che si vive durante gli Esercizi – la Parola che ascoltiamo, la preghiera che viviamo insieme e personalmente, il tempo del silenzio – tutto, proprio tutto, deve essere un vero e proprio Esercizi o in vista di questa trasformazione della vita, di questa conversione profonda del cuore. Questo dobbiamo desiderare, nulla e nessuno può sostituirsi a noi nell’essere in questo senso veri protagonisti di questo cambiamento così importante per la nostra vita.

In un corso di Esercizi, un mese ignaziano, il padre predicatore teneva ogni giorno, come è consuetudine, quattro meditazioni per la presentazione di quattro punti che accompagnassero gli esercitanti durante ogni giornata; all’inizio di ogni meditazione, presentando ciascun punto della giornata, il padre predicatore esortava così: cercate di pacificare il cuore davanti a Dio. Nel corso di un mese lo ripetè per 120 volte, 4 volte al giorno: é importante questo pacificare il cuore davanti a Dio, perché veniamo agli Esercizi con il cuore pieno, con il cuore distratto, con il cuore in tumulto, veniamo agli Esercizi con la presenza di tante gioie ma anche il peso di tante fatiche, veniamo agli Esercizi con dei problemi aperti che dobbiamo risolvere. Eppure qui dobbiamo pacificare il cuore davanti a Dio, perché dobbiamo fare in modo che questo cuore sia aperto davvero all’ascolto, disponibile a lasciarsi raggiungere da questa parola unica, come dicevamo ieri sera, che il Signore vuole dire alla nostra vita. Allora pacifichiamo il cuore, sgomberiamolo, facciamo in modo che non sia appesantito, non sia distratto, non sia portato via dai pensieri, pacifichiamo il cuore perché possa diventare come una spugna capace di ricevere, di ricevere quanto Dio ha da donarci. Questi giorni fa un po’ caldo anche qui a Savona e ogni tanto gira qualche zanzara, però anche questi due elementi che accompagnano le nostre giornate sono un richiamo di ciò che stiamo vivendo, sono un richiamo al combattimento: Viviamo allora anche questi elementi così semplici che accompagnano la nostra giornata come un richiamo del Signore, perché tutto è Grazia : se dobbiamo combattere un po’ contro il caldo, se dobbiamo combattere un po’ ogni tanto contro questi fastidiosi volatili tutto questo diventa segno del nostro combattimento spirituale, di ciò che vogliamo approfondire in queste giornate.

Oggi avremo l’opportunità – occasione anche questa di Grazia – di vivere il funerale di una nostra sorella, e questo non ci distoglie dagli Esercizi; potremmo essere tentati di pensare “ecco una circostanza che ci distoglie da ciò che volevamo vivere in questi giorni” … no, non è così, è una Grazia anche questa ed entra a far parte pienamente delle nostre giornate, perché vivere il funerale, quello di una sorella in modo particolare, è un modo per ricordare qualcosa che oggi cercheremo di dire, di meditare: la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e ogni volta che noi ci incontriamo con l’esperienza della morte ci ricordiamo che cosa è il peccato nella nostra vita, il peccato è sempre morte, là dove non c’è Dio c’è morte, là dove ci allontaniamo dal Signore sperimentiamo la tristezza della morte. Ecco, l’incontro con la morte ci porta a ricordare questa grande verità ed è importante che ce la ricordiamo; nello stesso tempo l’incontro con la morte di una sorella è anche il ricordo di che cos’è la vita consacrata: diceva San Cipriano “Voi siete ciò che noi saremo”, la vita consacrata è questo richiamo di Paradiso in terra e dunque noi oggi pregheremo per una sorella che è stata richiamo di Paradiso in terra e ci aiuta a fare memoria di questo richiamo di Paradiso che dobbiamo essere anche noi. Viviamo allora il funerale di oggi come un momento degli Esercizi Spirituali: é dunque anche questa, oltre che una preghiera importante per la nostra sorella, un’occasione di Grazia per il nostro cammino.

C’è un’opera famosa di un autore fiammingo nella quale Gesù Bambino viene raffigurato con in mano un libro e questo libro è un po’ particolare: non è la Scrittura, è un libro qualunque, le pagine di questo libro sono stropicciate e il bambino le gira stropicciandole e quindi rovinando il libro che ha in mano. In tal modo l’autore ha voluto raffigurare come Gesù sia la Parola nuova, la Parola vera che stropiccia ogni altra parola, che mette fine a tutte le parole inutili, vane, menzognere di cui spesso è piena la vita dell’uomo. In questi giorni nutrendoci della Parola del Signore vogliamo tenere presente questa immagine e pensare come nella nostra vita ogni altra parola sia da stropicciare, da eliminare, da sradicare dal cuore perché soltanto questa, la parola di Gesù, abiti e vinca nella nostra vita. Veniamo agli Esercizi con tante parole, con tante parole umane, con tante parole del mondo che abitano la nostra vita. Stiamo davanti a questa immagine e chiediamo la Grazia che la Parola vera ci abiti e spazzi via ogni altra parola non vera, umana, del mondo, nostra, degli altri, stropicciamo il libro delle parole mondane e buttiamolo via, perché l’unica Parola vera abiti nel nostro cuore.

Romano Guardini, che abbiamo già citato ieri sera, in un suo testo (si intitola “Parabole”) nel quale affronta il tema delle parabole illustrandone anche alcune, ad un certo punto scrive così: “Questo è il mistero della vita personale: quanto più limpidamente ho nello sguardo il Tu di Dio, tanto più pienamente faccio di me stesso l’io”. Vale a dire: troviamo noi stessi, il significato della vita, ciò che siamo, ciò che siamo chiamati ad essere, nella misura in cui lo sguardo limpidamente si ferma sul Tu di Dio. Ascoltando la Parola del Signore noi vogliamo fare questo, posare lo sguardo sul Tu di Dio perché da questo sguardo limpido su Dio possa scaturire uno sguardo nuovo su noi stessi, sulla nostra vita, per capire che cosa il Signore vuole da noi, per trovare la strada che dobbiamo percorrere, per assaporare la bellezza della nostra chiamata di ciò che siamo: ci scopriamo quando fissiamo lo sguardo d’amore sul volto di Dio, non in altro modo e non altrove. E’ un altro motivo per cui non possiamo vivere senza questi tempi forti dello Spirito in cui stiamo davanti al Signore, è un altro motivo per cui non possiamo vivere senza il primato di Dio.

E veniamo al testo, cui già accennavo ieri: siamo al capitolo sesto della lettera agli Efesini dal versetto dieci. E’ un testo che vogliamo ascoltare questa mattina ricordando che l’ascolto della Parola proclamata è già una Grazia e dunque quando ci mettiamo ad ascoltare, a leggere un brano della Scrittura dovremmo sempre farlo con questa attenzione d’amore pensando: “Questa è la lettera che il Signore oggi ha indirizzato a me e dunque la voglio ascoltare, assaporare, approfondire, entrarvi nel dettaglio, con questa attenzione d’amore, di chi vuole scoprire che cosa il Signore vuole donarmi, vuole dirmi con questa sua lettera”. In questi giorni, ogni giorno riascolteremo questo brano della lettera agli Efesini, proprio come fa l’innamorato che quando ha ricevuto una lettera dall’ innamorata la legge, la rilegge e la rilegge perché non si stanca mai di posarvi gli occhi sopra e ogni volta che la  rilegge scopre qualche dettaglio nuovo che gli riempie il cuore, che gli muove l’anima: noi vogliamo fare questa esperienza di leggere, rileggere e ancora rileggere da innamorati che desiderano scoprire i dettagli dell’amore e dell’amato disseminati in questa lettera di amore che è la Parola di Dio e che per noi in questi giorni è la lettera agli Efesini.

Questa mattina ci soffermiamo a riflettere sui primi due versetti, il versetto 10 e il versetto 11. Cerchiamo anzitutto di inquadrare questi due versetti all’interno di tutta quanta l’esortazione che Paolo fa nella lettera, poi vediamo di considerare alcuni elementi di questa prima esortazione partendo da un termine particolare ma importante, le insidie del maligno, le insidie del diavolo; poi consideriamo la nostra fragilità a cui Paolo fa riferimento, e infine che cosa Paolo intende per forza attinta dal Signore.

  • Il contesto dell’esortazione di Paolo
    Dicevamo già ieri sera come la lettera agli Efesini è una lettera un po’ particolare perché unisce una dimensione mistica molto grande – cioè una prolungata e splendida contemplazione del mistero di Gesù – insieme a questo tema del combattimento spirituale. Paolo prima fa un quadro splendido della Storia della Salvezza: è della lettera agli Efesini l’inno “Benedetto sia Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo …” e quindi questa illustrazione bellissima, commossa, ammirata che l’apostolo fa di ciò che Dio ha operato in tutta quanta la storia. Poi illustra la bellezza e la ricchezza della vita nuova in Cristo e ad un certo punto cambia registro e parla del combattimento spirituale: le prove, la lotta, le insidie … è come se, dopo aver illustrato la bellezza del Mistero di Cristo e ciò che questo comporta per la vita cristiana, si sentisse rispondere: “questo è bello, però quanto è difficile!” e allora qui Paolo comincia a parlare di come poter realizzare la bellezza di questa vita, la meraviglia di questo progetto di Dio, con quali armi poterlo fare e quali insidie è necessario allontanare. Questo dunque è il contesto, l’illustrazione commossa e meravigliata del piano di Dio, la risposta all’interrogativo di coloro che ascoltano: “ma come fare per vivere tutto questo?” e dunque: “dovete combattere con la forza di Dio e con l’armatura che egli vi dà”. Quante volte anche noi abbiamo ripetuto “Come è bello, ma com’è difficile!”, o altre volte “come sarebbe bello, ma tanto io non ci riesco … Come è grande la chiamata di Dio, ma io sono tanto povera, mi sembra che non sia per me …”. Quante volte allora ciò che Paolo vive con la chiesa di Efeso e con gli Efesini è qualcosa che noi viviamo ogni giorno, cioè la contemplazione della bellezza del disegno di Dio, la contemplazione della chiamata splendida che Dio ci ha riservato, il gusto che anche proviamo per ciò che il Signore ci fa vedere e poi … “quanto è difficile, non ce la faccio, ho provato e riprovato ma non riesco…”. Come fare? È la grande domanda del cuore e vogliamo chiedere la Grazia di portare dentro questa domanda: “come faccio, come posso fare, che strada prendere?” Perché potrebbe essere che noi veniamo qui agli Esercizi non soltanto avendo detto “che bello”, non soltanto avendo detto “però non ce la faccio”, ma anche avendo ormai consapevolmente o inconsapevolmente abbandonato la battaglia dicendo: “tanto non è per me”. Chiediamo la Grazia invece di sentire nel cuore di nuovo con entusiasmo e con passione l’interrogativo: “Signore, che strada devo prendere? perché io voglio, voglio entrare dentro questo tuo disegno di amore, voglio vivere, voglio compiere la chiamata che ho ricevuto, voglio arrivare alla meta, non voglio fermarmi a metà, non voglio rimanere impantanato delle mie mediocrità … quale strada prendere?”. Ed è con questo interrogativo che rimaniamo in ascolto di quanto Paolo avrà da dirci, non dunque col disincanto di chi non cerca, ma con il desiderio di chi cerca e di chi vuole e che quindi con curiosità entra dentro le pieghe di questa Parola per scoprire ancora una volta le modalità, la via, la strada per finalmente arrivare alla meta, per finalmente rispondere in pienezza alla chiamata alla santità di Dio. Vogliamo ancora una volta, come tante volte abbiamo fatto, dire no alle nostre tristi mezze misure, lo vogliamo fare adesso e lo vogliamo fare subito perché i giorni degli Esercizi non siano il proporsi di giorni mediocri ma siano invece il proporsi di giorni grandi, di giorni in cui la radicalità della sequela di Gesù ritorna ad essere l’orizzonte del nostro cammino. Quindi ora diciamo no a questa mediocrità che ci deve essere insopportabile, no a questo spirito decadente che ci fa perdere di vista la meta grande alla quale siamo chiamati, lo vogliamo dire adesso in questo momento grazie a ciò che Paolo ci fa vivere con la sua lettera.
  • Le insidie del diavolo
    La parola insidia, che ricorrerà un’altra volta nella lettera agli Efesini, in greco ha un significato un po’ particolare perché sta ad indicare soprattutto una via traversa, un cammino contorto, un raggiro. Che cosa significa? Che il diavolo vuole arrivare a un certo risultato percorrendo una via che non è diritta, una via che è tortuosa, cioè attraverso un inganno. In effetti nell’altro brano della lettera agli Efesini – precisamente al capitolo quarto versetto 14 – in cui ritorna la parola insidia  si capisce come la parola insidia abbia il significato di astuzia, cioè il modo attraverso il quale il diavolo intende ingannarci. È importante subito che sottolineiamo questa dimensione dell’agire del nemico, perché il nemico non ci affronta quasi mai frontalmente e a carte scoperte, ma ci affronta sempre per vie traverse, mediante raggiri, attraverso cammini contorti, presentando il male come fosse bene, facendo in modo che noi assaporiamo qualcosa come buono quando invece è cattivo, illudendoci dunque di donarci qualcosa di bello ma in verità donandoci semplicemente veleno. Quante volte abbiamo fatto questa esperienza e poi la Grazia di Dio ci ha illuminato, ma forse in un secondo momento: questa esperienza l’abbiamo fatta attraverso raggiri che erano fuori di noi, ma anche attraverso raggiri che sono stati dentro di noi, perché quante volte ad esempio abbiamo dato ragione a noi stessi in modo caparbio quando non l’avevamo, e questo era un inganno; quante volte abbiamo affermato una via come buona per noi quando non lo era, e questo era un raggiro; quante volte insomma siamo stati astutamente ingannati da realtà esterne a noi ma anche da tutto quel mondo interno a noi. Il nostro confronto è il confronto con le insidie, per questo dobbiamo essere sempre particolarmente attenti e vigilanti. Non è un caso che Gesù usi tante volte la parola vigilanza, perché sa che il nostro combattimento e la nostra lotta è con le insidie e con le astuzie, quindi con qualcosa che non è chiaro e immediatamente percepibile e comprensibile.

Quali sono queste insidie, quali sono queste astuzie? Proviamo a richiamare tre brani della Scrittura che ci possano aiutare a entrare di più nella realtà di queste insidie e di queste astuzie.

  1. Genesi, il primo peccato, la tentazione nella quale cade il primo uomo e nella quale cade la prima donna, il serpente inganna, inganna la donna, in che modo? Mette nel cuore di quell’uomo e di quella donna un sospetto su Dio, un sospetto mediante il quale l’uomo e la donna arrivano a dire “non so se possiamo fidarci di Dio, forse Dio non è davvero buono come dice, forse Dio non mi ama davvero come ha voluto farmi intendere”. Ecco l’inganno, ecco l’astuzia, ecco l’insidia, il dubbio su Dio: non è una diretta rivolta contro il Dio amore, è la rivolta che viene ispirata contro un Dio che non appare più essere un Dio di amore ma un Dio geloso, un Dio che contraddice il desiderio di amore dell’uomo.
  2. Nei Vangeli Gesù è tentato nel deserto e anche qui il demonio si presenta a Gesù come colui che è amico e che propone però un’altra strada rispetto a quella che il Signore ha davanti, una strada apparentemente migliore, una strada diversa da quello che il Padre prospettava ma che si presenta molto più allettante. Anche qui l’astuzia di una falsa amicizia, proprio come nel peccato del primo uomo l’insidia che arriva dal presentarsi sotto le sembianze di un’amicizia in realtà falsa e menzognera.
  3. Gesù parla di passione, morte, croce, di ciò che lo attende a Gerusalemme, e Pietro dice “ma no, questo non ti capiterà mai” e Gesù lo chiama Satana … perché? Perché qui Pietro si propone come falso amico che vuole far prendere a Gesù un’altra strada diversa rispetto a quella che fa parte del disegno della salvezza, una strada più facile, una strada più semplice: ecco l’amicizia falsa.

In questi tre racconti di tentazione e a volte di peccato noi troviamo l’insidia del nemico il cui volto è un’amicizia falsa, è questa la tentazione sempre per noi, il presentarsi di un volto amico che non è amico, il presentarsi di un’amicizia che è falsa e menzognera e dunque il proporre una parola che è attraente ma che è velenosa. Questa è la realtà dell’insidia, questa è la realtà dell’astuzia del nemico. In fondo in questa amicizia falsa e menzognera qual è il risultato che si vuole raggiungere? è il nostro staccarci da Dio, il nostro separarci da Dio. In ogni modo – dicevano ieri – le strade sono due: o mettere Dio al di sopra di tutto e vivere tutto nell’amore di Dio oppure non mettere Dio al di sopra di tutto e quindi vivere tutto alla fine senza Dio. Non c’è una via di mezzo e le insidie del nemico tendono proprio a farci imboccare la seconda strada, staccarsi da Dio così che poi la nostra vita non sia nell’amore di Dio e tutto nella nostra vita sia distante da Dio. Potrebbe sembrarci anche troppo forte questo e potremmo anche essere di nuovo tentati qui di dire “ma è proprio il nostro caso?” Eppure al di là di ciò che noi siamo per costituzione cioè consacrati, appartenenti al Signore, possiamo proprio dire che queste insidie non si siano insinuate dentro di noi, non ci abbiano distolto dal primato di Dio, non ci abbiano un po’ staccato da Dio e dunque non ci abbiano indotto a vivere la nostra quotidianità un po’ senza Dio? Capiamo come realmente Paolo, parlando delle insidie del diavolo, ci porti al cuore, al centro della nostra vita e dei nostri problemi, è importante fare luce su queste insidie, su come al momento presente sono presenti in noi, su come si insinuano in noi, perché lì è il cuore del nostro cammino, soltanto se le scopriamo possiamo riportare Dio al primo posto e riproporci una vita tutta in Dio e tutta di Dio.

  • La nostra fragilità
    In tutto questo c’è la nostra fragilità. Siamo fragili ed è già una grande saggezza il riconoscerlo perché alcune volte non riconosciamo la nostra povertà, la nostra fragilità, presumiamo delle nostre povere forze e questa è la condizione migliore per rimanere irretiti nelle insidie e nelle astuzie del nemico; siamo invece fragili, la carne è debole, direbbe Paolo, e siamo fragili perché? Perché se vivere il primato di Dio è la realtà più bella della nostra vita in fondo è anche la realtà più difficile: vivere ogni giorno a contatto col Signore tutto nell’amore per lui è anche la realtà più difficile perché la nostra fragilità ci porta a dimenticare la presenza di Dio, ci porta a dimenticare l’amore che Dio ha per noi, ci porta a dimenticare che Dio è Provvidenza, ci porta a dimenticare che tutto è Grazia, ci porta a dimenticare che Dio è il grande alleato della nostra vita … Siamo in questa fragilità, questa è la nostra fragilità e dobbiamo riconoscerla e ammetterla. Paolo vuole aiutarci affinché stiamo davanti a Dio dicendo: “Signore, io sono fragile e sono debole, la mia carne è debole, aiutami, aiutami tu, io voglio essere aiutato”.
    Una volta c’era un bambino, un bambino piccolo che con tutte le sue forze stava cercando di spostare un grosso vaso e ce la metteva proprio tutta e nonostante il tempo passasse questo vaso non riusciva a spostarsi e il bambino sudava, faceva fatica senza vedere nessun risultato. Il papà che era lì vicino e che lo osservava con tenerezza a un certo punto gli disse: “non ce la fai proprio?” Il bambino un po’ sconsolato rispose: “no, non ce la faccio, non ce la faccio” e il papà gli disse: “ma ce l’hai messa proprio tutta?” “Sì, ce la sto mettendo tutta, tutte le mie forze”. Il papà gli rispose: “Sei proprio sicuro di avercela messa tutta?” “Sì, sono sicuro che ce la metto tutta!”. Il papà concluse: “non è proprio vero, perché non mi hai chiesto aiuto!”. A volte noi non chiediamo aiuto perché non entriamo dentro la nostra povertà, non la riconosciamo e non riconosciamo la nostra fragilità impotente e forse è proprio per questo che poi ci areniamo e il nostro cammino si ferma ed è mediocre … Entriamo dentro la nostra povertà in questi giorni, riconosciamola senza paura, diciamo: “Signore, sono un povero, non ce la faccio, senza di te non vado da nessuna parte!” e abbracciamoci a Lui …
  • La forza attinta da Dio
    Come dice l’apostolo, attingiamo alla forza di Dio: questa parola riguardante la forza di Dio è una parola che – come dicevamo ieri sera -troviamo altre volte nella Scrittura e una di queste è quella che riguarda il rapporto tra Mosè e Giosuè, quando Mosè nel Deuteronomio poco prima di morire lascia alcune indicazioni al suo successore tra le quali vi è questa esortazione ripetuta più volte: Mosè sembra non stancarsi mai di dire a Giosuè “sii forte, fatti animo, sii coraggioso, forza, attingi la tua forza” … perché? Perché Giosuè doveva entrare nella Terra Promessa e l’ingresso in questa terra era umanamente un’impresa disperata. Di fronte a questa fragilità Mosè esorta Giosuè a farsi coraggio e ad attingere forza dal Signore: Paolo, che certamente ha in mente questa scena dell’Antico Testamento, ripropone poi questo attingere forza molte volte nella sua stessa vita personale. Pensiamo ad esempio quando Paolo ha da poco annunciato il Vangelo a Damasco, fugge a Gerusalemme e lì incomincia di nuovo a predicare ed è un momento molto difficile per lui: dicono gli Atti che Saulo si rinfranca sempre più, cioè sempre più prendeva forza. Nella Lettera ai Romani si parla di Abramo e lì Paolo a proposito di Abramo dice che per la promessa di Dio non esitò ma si rafforzò, di nuovo torna questo termine prendere forza e rafforzarsi. E ancora nella lettera ai Filippesi Paolo parla di sé e dice “Tutto posso in colui che mi dà forza”. Dunque Paolo molte volte usa questo rafforzarsi e attingere forza o nelle lettere o nella sua vita personale; così ancora una volta nella lettera a Timoteo, quando parlando della sua difesa in tribunale dice che tutti lo hanno abbandonato e poi conclude “il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza”. In tutti questi richiami alla forza, al coraggio che noi troviamo nella Scrittura, qual è il cuore, il centro? E’ che questa forza è nel Signore, cioè una forza che viene da Dio, dunque una forza che va ricercata nello stare accanto al Signore, nell’abbracciare lui. Molto bello a riguardo ricordare l’esperienza di Sansone, che era uomo forte per antonomasia a motivo di che cosa? Del suo nazireato e cioè della sua consacrazione a Dio, il cui segno era la capigliatura folta e lunga: una volta che questa capigliatura è tagliata, cioè nel momento in cui Sansone si distacca da Dio perché tradisce la sua consacrazione a Dio, ecco che perde ogni forza. Paolo sembra proprio attingere da questa immagine: la forza è nel Signore, cioè nella misura in cui Dio è il centro della nostra vita, allora nella nostra fragilità attingiamo forza nel Signore, stiamo accanto a lui. In questi giorni abbiamo ascoltato una pagina del profeta Geremia: il Signore indica al profeta di prendere una cintura e poi di andarla a nascondere nel letto di un torrente; quando poi la va a riprendere la cintura è marcita e quindi Dio ne dà la spiegazione e dice una cosa molto bella: “io avevo voluto mettere il mio popolo come cintura attorno a me, ma voi non avete voluto stare così accanto a me e dunque siete marciti”. Ecco, la forza da Dio la attingiamo quando stiamo lì come una cintura attorno a lui, stretti alla sua presenza.
    Si racconta un episodio, uno dei tanti probabilmente tra di loro simili, avvenuto in occasione di una delle guerre, quando vennero chiamati soprattutto all’inizio della Prima Guerra Mondiale tanti giovani perché andassero al fronte, giovani diciottenni che partivano abbandonando le famiglie e recandosi sul luogo dove c’era la battaglia e la guerra. In uno di questi frangenti una scena riprese un figlio appunto di 18 anni con il padre che lo aveva accompagnato: tanta commozione, pianto, le raccomandazioni … il papà che poco prima di lasciare il figlio gli disse: “Mi raccomando, non farti uccidere, non farti uccidere, torna, non farti uccidere!” e così si lasciarono in lacrime … Poi, mentre il ragazzo era sul treno e il treno stava avviandosi, il padre andando fino a quando poté seguendo il treno ancora gli disse un’ultima parola: “Mi raccomando, stai sempre vicino al tuo generale!”. In battaglia stare vicini al generale significa in qualche modo essere protetti. Ecco, noi dobbiamo stare sempre vicini al generale, cioè dobbiamo sempre stare vicini a Dio, sempre, sempre e questa nostra vicinanza a Dio è la nostra forza, quella forza che ci fa vincere contro le insidie e le astuzie del nemico, è quella forza che ci fa vincere il combattimento, è quella forza con la quale possiamo procedere certi e sicuri nel nostro cammino. In questi giorni noi vogliamo proprio attingere a questa forza, che tra l’altro Paolo definisce nel vigore della sua potenza proprio per sottolineare la grandezza di questa forza che noi abbiamo in Dio.
    Dunque rimaniamo su questa Parola e rimanendo su questa Parola ricordiamoci:
  • c’è un no che vogliamo dire, ed è il no alla nostra mediocrità e al nostro vivere senza speranza di raggiungere la meta della santità
  • ci sono delle insidie di fronte alle quali dobbiamo aprire gli occhi per capire quali e come sono presenti nella nostra vita
  • c’è una fragilità che dobbiamo riconoscere con umiltà e a partire dalla quale dobbiamo stringerci al Signore che è la nostra vera e unica forza per vincere il combattimento della vita.

 

LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Celebrazione delle Esequie di Sr M. Florinda
Tanti secoli fa a Roma c’era un grande Papa che si chiamava Gregorio, talmente grande che alla storia è passato come Gregorio Magno. In quell’epoca – siamo nei primi secoli della vita della Chiesa – Gregorio portava nel cuore una grande preoccupazione perché nel Nord dell’Europa, in quella che oggi conosciamo come Inghilterra, vi erano alcune popolazioni che ancora non avevano ricevuto l’annuncio del Vangelo: erano popolazioni pagane. Ad un certo momento durante il suo pontificato decise di inviare presso quelle terre un monaco molto amico,  questo Monaco si chiamava Agostino. Gli disse: “Agostino, io porto questa preoccupazione nel cuore: là al Nord ci sono popolazioni ancora pagane, che non hanno neppure ascoltato il nome di Gesù, per favore vai! Vai e là porta il Vangelo!”

Agostino con fiducia rispetto alle parole che Gregorio gli aveva rivolto si mise in cammino, si recò in questi paesi del Nord e arrivando incominciò a mettersi in contatto con le popolazioni che abitavano quei territori. Mettendosi in contatto con queste popolazioni iniziò anche a parlare di Gesù, a parlare del Vangelo, a parlare della storia della salvezza, ma dopo un po’ la gente che lo ascoltava gli disse: “Guarda, noi siamo anche interessati a quello che tu ci stai dicendo, però è necessario che tu torni e che abbia un incontro con i nostri capi”. Così avvenne: qualche giorno dopo si ritrovarono in una sala molto grande, era sera ed Agostino sedeva al tavolo e attorno a lui c’erano i capi delle tribù di questi popoli pagani. Agostino cominciò a parlare e disse: “Vedete, voi volete sapere il motivo per cui io sono venuto fin qui da Roma. Il motivo ve lo dico subito. Noi siamo in questa grande sala e fuori è notte; adesso voi immaginatevi che improvvisamente da una di queste fessure che collegano la sala a ciò che sta fuori entri un piccolo uccellino, velocemente passi attraverso questa sala illuminata e poi ritorni fuori nell’oscurità della notte attraverso l’altra fessura che collega la sala a ciò che sta fuori. Vedete, la vostra vita fino ad ora ha assomigliato al volo di questo piccolo uccello, perché voi venite da un’oscurità a cui non sapete dare nome, vivete per un tempo breve senza sapere il perché e andate verso un’altra oscurità senza speranza perché non sapete neppure a quella dare un nome. Io sono qui per dirvi che quell’oscurità da cui veniamo ha un nome – Dio – e ha un cuore,  perché Dio ci ama, da Lui veniamo. Quell’oscurità a cui siamo diretti ha un nome – Dio – e ha un cuore, perché Dio ci ama e ci attende. E questo breve tratto che percorriamo nella vita ha un perché – Dio – che ci ha voluto amandoci perché Lo amassimo. Ecco io vi annuncio questo: la luce da cui veniamo è Dio, la luce a cui andiamo è Dio, la luce per cui viviamo è Dio!”

E così iniziò l’avventura del Vangelo in quelle terre …

Perché abbiamo ricordato questo episodio storico nella vita della Chiesa? Perché noi oggi siamo qui per rinnovare la nostra fede! Questa bara non è l’ultima parola sulla vita! Lo sarebbe per chi non crede in quella luce che è la nostra origine, in quella luce che è la nostra fine, in quella luce che ci accompagna in questo pellegrinaggio terreno. Ma per noi no! Noi guardiamo questa bara con occhi diversi perché sappiamo che c’è questa luce alle nostre spalle, c’è questa luce davanti a noi e c’è questa luce lungo il cammino: Dio che ci ama! Ascoltando la parola del Signore abbiamo ascoltate alcune immagini molto suggestive e belle. Una per esempio è “abitazione eterna”. E che cosa vuol dire “abitazione eterna”, se non che Dio ci attende? E che cosa vuol dire la parola “esilio”, se non che questa vita è un pellegrinaggio e che non tutto si esaurisce qui? Abbiamo ascoltato la parola “nozze” e cosa vuol dire questo, se non che Dio ci ama e che è la salvezza della nostra vita?

Ecco noi oggi siamo qui anzitutto per rinnovare la nostra fede, altrimenti perché siamo qui  accanto alla salma di Suor Florinda a pregare per lei?!? Siamo qui  e preghiamo per lei perché questa è la nostra fede e alla luce di questa fede viviamo il nostro pellegrinaggio terreno. Siamo qui per dire grazie a Suor Florinda perché questo lo ha vissuto, lo ha vissuto in prima persona anzitutto col suo essere consacrata e poi con ciò che è stato il suo apostolato, la sua missione, il suo portare il Vangelo in mezzo a noi. Perché ciò che ella è stato e ciò che ha vissuto ha parlato sempre di questa fede, cioè di una luce che viene prima, di una luce che viene dopo e di una luce che ci accompagna. Noi siamo grati per questa testimonianza che ha lasciato a ciascuno di noi!

E mentre siamo qui per rinnovare la fede e siamo qui per esprimere questa gratitudine siamo qui anche, lo abbiamo detto fin dall’inizio, per pregare e accompagnare Suor Florinda nel suo cammino verso il Signore e davanti a Lui. Ha vissuto per Lui! Tutto nella sua vita ha avuto questo nome: Dio. E allora noi la accompagniamo, perché questo cammino verso di Lui possa conoscere la pienezza della gioia di chi ha vissuto nell’amore di Dio e adesso ne contempla il volto e ne sperimenta l’abbraccio di amore eterno. Questo è l’atto più bello, più amico, più affettuoso che possiamo fare oggi: pregare perché si realizzi questo abbraccio eterno, pregare perché si realizzi questa contemplazione gioiosa ed eterna del volto di Dio, pregare perché Suor Florinda possa entrare con pienezza in quella gioia che è stata tutta la sua vita e che adesso lo sarà per tutta l’eternità.

SECONDA MEDITAZIONE
La cintura della Verità
In questi giorni iniziando le nostre meditazioni invochiamo lo Spirito Santo. E’ bello che questa invocazione torni tante volte sulle nostre labbra nei giorni degli Esercizi e in generale sempre nella nostra vita. Sicuramente questa invocazione ha a che fare da vicino con il combattimento spirituale di cui stiamo parlando.

Un giorno un parroco si rivolse a un bambino molto piccolo e gli disse: “Vediamo di imparare a fare il segno della croce insieme”. Allora iniziò facendogli vedere il gesto e poi nel gesto unì anche un po’ alla volta le parole che dovevano accompagnarlo. Poi gli disse: “Facciamolo insieme” e cominciò per primo il parroco: “Nel nome del Padre, del Figlio e …”, poi il parroco si fermò e il bambino continuò dicendo “e della mamma!” Disse una cosa molto giusta, perché nella Scrittura lo Spirito Santo è chiamato il Consolatore e l’Avvocato, dunque, tra le altre cose, svolge questo compito così importante, decisivo nella nostra vita, nel nostro cammino: consolarci e difenderci come fa una mamma. Ecco perché il suo compito nella nostra vita ha a che fare da vicino col tema del combattimento, perché quando si combatte si ha bisogno di essere difesi e lo Spirito ci difende; quando si combatte si ha bisogno di essere consolati – anche perché alcune volte si perde … – e lo Spirito Santo ci consola, aiutandoci a riprendere la strada, a rialzarci, a non abbatterci e a ritrovare fiducia.

In questi giorni allora quando invochiamo lo Spirito Santo ricordiamoci di questo suo compito e di questa sua presenza (in fondo materna) di consolazione e di difesa e chiediamo che in questi giorni sia per noi consolazione e difesa e lo sia sempre nella vita, soprattutto quando il combattimento si fa più arduo, si fa più difficile, a volte si fa anche più pericoloso. Dobbiamo credere che lo Spirito Santo ci consola e ci difende e quando lo invochiamo, invochiamolo con questa fede, con questa fiducia, con questa certezza: vieni a difendermi, vieni a consolarmi!

Con l’aiuto dello Spirito Santo quest’oggi, proseguendo nella meditazione del brano di San Paolo, prendiamo in esame la prima delle armi che ci indica, la prima arma che fa parte di questa grande armatura spirituale che Paolo desidera donarci perché ciascuno di noi possa così affrontare bene armato il combattimento della vita spirituale. “Prendete perciò l’armatura di Dio perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità” (versetti 13 e 14). Dietro ciascuna di queste parole che abbiamo ascoltato c’è una grande ricchezza di contenuti, anche perché Paolo arriva a formulare queste sue parole all’interno di una lettera molto ricca e dunque c’è uno sfondo fatto di altre parole, di altri pensieri, di altri suggerimenti, di altre indicazioni. Noi teniamo conto di tutto questo sfondo e ci aiutiamo a capire di più il significato bello di queste parole con altri brani della stessa lettera di Paolo e con altri brani del Vangelo.

I fianchi cinti
C’è anzitutto l’immagine “Cinti i fianchi”: noi sappiamo da alcune parabole di Gesù che conosciamo molto bene che cingere i fianchi significa prontezza, perché nell’antichità anche gli uomini portavano un vestito lungo, ampio e quando si doveva fare qualche lavoro o mettersi in cammino per un lungo viaggio, oppure correre per un’urgenza, si tirava su questo vestito e si cingevano i fianchi con un cingolo. Oggi si direbbe dunque: rimboccarsi le maniche. Allora i fianchi cinti significa proprio questo: la prontezza di chi è pronto a compiere qualcosa; è l’atteggiamento tipico di colui che “si rimbocca le maniche” perché deve intraprendere un lavoro, un compito, un impegno urgente. Certamente ricordiamo le parole che l’angelo rivolge a Pietro mentre si trova prigioniero in carcere (Atti 12,8): “Alzati, mettiti la cintura e legati i sandali”. Cioè “fai presto, perché il Signore vuole liberarti da questa prigione …. non perdere tempo … sii pronto … scappa da qua …”.

C’è anche una parabola di Gesù che tra l’altro abbiamo ascoltato questa mattina nella Messa: nel vangelo di San Luca il Signore dice: “Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese” (Lc. 12,35). Qui il Signore sta parlando della venuta del Figlio dell’Uomo, dunque dell’incontro decisivo, quello della fine dei tempi, ma anche di quello quotidiano. Lì dobbiamo essere pronti con i fianchi cinti. Cingersi dunque è sinonimo di disponibilità. Pensiamo anche alla liturgia quando noi ci poniamo in piedi in alcuni momenti del rito. Ciò indica l’atteggiamento della disponibilità e della prontezza a ciò che il Signore attraverso l’atto liturgico sta compiendo per noi, ad esempio quando ascoltiamo il Vangelo stiamo in piedi; in qualche modo dovremmo stare simbolicamente proprio con i fianchi cinti perché siamo pronti, disponibili ad accogliere quella Parola per renderla vita nella vita e poi incamminarci con il bagaglio di questa Parola che ci ha cambiato il cuore, ci ha illuminato la mente, ci ha indicato il cammino della vita.

San Tommaso d’Aquino ha sintetizzato questa immagine paolina e della Scrittura con una parola: devozione. Questa parola, che forse noi a volte trattiamo con un po’ di superficialità – se non qualche volta con un po’ di antipatia – in verità è una parola molto bella perché è la parola che dice dedizione, cioè indica il fatto di essere dedicati a Dio e al Suo Regno con tutto noi stessi e quindi con la nostra intelligenza, con la nostra volontà, con i nostri sentimenti, con i nostri affetti. La devozione intesa come dedizione, disponibilità, prontezza a donare la vita è il fondamento e il cuore della nostra vita spirituale, perché non c’è vita spirituale, non c’è sequela di Gesù se non c’è devozione, cioè se non c’è dedizione intera di noi stessi al Signore.

Questo atteggiamento di devozione lo troviamo tante volte nel Vangelo e nel Nuovo Testamento, ma forse lo troviamo descritto in un modo del tutto singolare nel dialogo tra Gesù e quel giovane ricco di cui ci parla il Vangelo. (cfr. Mt. 19, 16-22): il Signore pone una sfida a quel personaggio senza nome che gli chiedeva che cosa dovesse fare per entrare nel regno dei cieli e Gesù gli si rivolge dicendo “se vuoi”, cioè “se hai devozione, se sei pronto, se sei davvero disponibile, se non hai più nulla per te e sei totalmente dedicato a me”. Allora prontezza, devozione, dedizione, stanno ultimamente dentro un “voglio” senza il quale non c’è storia spirituale, senza il quale non c’è cammino di santità, senza il quale non si dà la risposta al Signore che ci invita. Il cammino della santità, il cammino della vita spirituale è un cammino di Grazia e pure la Grazia si ferma davanti al nostro “non voglio” o al nostro “voglio” svogliato o al nostro “voglio” povero … non per nulla santa Teresa ci ha detto che Dio non si dà totalmente a chi non gli si dà totalmente. Noi abbiamo questa drammatica capacità: di bloccare l’oceano della Grazia di Dio con la nostra resistenza, con la nostra mancanza di volontà.

Don Divo Barsotti nelle pagine del suo diario molte volte si esprime così: “Dio si dona a te nella misura della tua libertà che dice ”. Ecco la grande responsabilità, ma ecco soprattutto quale importanza ha questo “cinti i fianchi”, questa prontezza, questa devozione, questa dedizione, questo “voglio”, perché se questo non c’è, non c’è la possibilità per il Signore di operare meraviglie nella nostra esistenza.

Un’altra pagina del Nuovo Testamento in cui ritroviamo descritta l’immagine dei fianchi cinti è nella lettera agli Ebrei: quando Gesù entra nel mondo dice: “Eccomi, o Dio, per fare la tua volontà”.(cfr Eb. 10,4-10). La devozione, la dedizione totale del Figlio al Padre, è tutto un “voglio ciò che tu vuoi”, non c’è un’altra parola che esprima meglio questa relazione eterna che si esprime poi nel tempo. Potremmo dire che Gesù è un voglio totale rispetto al voglio del Padre. Questa è la dedizione nella quale dobbiamo entrare e che dobbiamo fare nostra, farla diventare nostra vita. E che cosa afferma Paolo sulla via di Damasco (cfr At. 9, 1-19) quando Gesù gli appare e gli pone il grande interrogativo “perché mi perseguiti”? C’è la contro-domanda: “Chi sei o Signore?” Ma poi c’è l’altra domanda: “Che cosa devo fare?”. Questa domanda è il segno dei fianchi cinti, e il segno della devozione che è entrata nel cuore di Paolo, è il segno della dedizione che si è impossessata della vita dell’Apostolo.

E poi pensiamo ai racconti di vocazione: quante volte li abbiamo letti, ascoltati, meditati … Là dove Gesù passa, l’apostolo come replica? Lascia tutto e lo segue! Ecco la prontezza, ecco la devozione, ecco il “voglio!” detto con le parole, con la vita, senza condizioni, senza rimandi. Siamo chiamati ad entrare dentro questa immagine – i fianchi cinti – e siamo chiamati ad entrare dentro questa parola – devozione – per pensare quanto veramente la nostra vita è fatta di questa devozione, di questa prontezza, di questo “voglio!”

L’accidia
L’atteggiamento contrario alla prontezza e ai fianchi cinti è quella che tradizionalmente noi conosciamo come l’accidia, cioè la stanchezza interiore, il trascinarsi sempre con malavoglia, quella tristezza che ci blocca durante il cammino, la rassegnazione di chi non ha più fiducia e non ha più speranza. L’accidia è questa malattia grave dell’animo che tante volte tocca anche noi, perché quando noi camminiamo stancamente siamo accidiosi, quando camminiamo senza fiducia e senza speranza siamo accidiosi, quando facciamo le cose di malavoglia siamo accidiosi, quando ci manca l’entusiasmo e la passione del cuore nelle cose di Dio siamo accidiosi, quando la preghiera diventa una fatica che sopportiamo e non amiamo siamo accidiosi, quando lo stare davanti al Signore diventa una pesantezza che schiaccia il cuore siamo accidiosi. E non è vero che tante volte questo è il panorama spirituale nel quale ci ritroviamo? Il clima interiore nel quale seguiamo Gesù? Proviamo a immaginare Gesù davanti a noi che ci invita a seguirlo: noi possiamo dire di essere in atteggiamento di devozione o in atteggiamento di accidia? Ora, in questo momento della vita, in quale atteggiamento ci ritroviamo? Con quale cuore, con quale animo stiamo?

Anche qui nell’affrontare questo tema e nell’individuare la posizione spirituale in cui ci stiamo ritrovando ha un peso il discorso della fede: perché siamo accidiosi? Perché non abbiamo fede o perché la nostra fede è povera! Perché seguiamo Gesù stancamente? Perché la nostra fede è povera! Perché preghiamo poco e con fatica? Perché la nostra fede è povera! Perché non ci impegniamo con slancio nella vita spirituale? Perché la nostra fede è povera! Perché non prendiamo ore al sonno per stare davanti al Signore? Perché la nostra fede è povera! Perché non abbiamo la carità verso coloro che stanno vicini a noi? Perché la nostra fede è povera! Perché non abbiamo fiducia e speranza? Perché la nostra fede è povera! Torniamo alla radice vera dei nostri mali: la radice vera dei nostri vizi è la mancanza di fede. E’ per questo che gli apostoli davanti a Gesù che faceva vedere loro la bellezza ma anche la fatica del cammino dicevano: “Signore, aumenta la nostra fede”. Ma noi lo chiediamo questo? Siamo consapevoli che questa invocazione è l’invocazione più necessaria e più decisiva della nostra vita? Gli apostoli avevano capito che tutto si giocava lì: “aumenta la nostra fede”, perché se Tu aumenti la nostra fede allora ti seguiremo con slancio, non avremmo dubbi, la nostra vita sarà tua, ci spenderemo senza riserve, andremo fino ai confini del mondo, avremo la gioia nel cuore, Tu sarai tutto per noi, daremo anche la vita per Te. Aumenta la nostra fede, non riusciamo perché la fede è povera, la fede è poca! Noi ci ritroviamo in questa condizione di uomini e donne che hanno poca fede e allora dobbiamo invocare e supplicare “Signore, aumenta la mia fede, aumenta la nostra fede!”.

In una meditazione molto bella di don Divo Barsotti (mistico di questo nostro tempo di cui è in corso la causa di beatificazione) commentando il brano evangelico in cui Gesù parla in risposta ai segni che gli richiedono, riflette proprio sulla fede: “Gesù dice: se voi sapeste chi avete qui davanti … La Regina di Saba per vedere Salomone affrontò un viaggio interminabile e ora non c’è molto più di Salomone? (cfr Mt. 12, 38-42). Noi abbiamo qui il Signore, abbiamo qui Dio”. La nostra vita per chi è data? Per Lui, per il Signore! E noi siamo pronti a fare un viaggio di migliaia di chilometri per amore del Signore? Quella donna fece un viaggio di chilometri e chilometri per terra e per mare affrontando pericoli per vedere un uomo, per ammirare la saggezza umana”. Noi che cosa siamo disposti a fare per il Signore della nostra vita? Diciamocelo sinceramente. Ci fermiamo di fronte a qualunque difficoltà, a qualunque ostacolo, a qualunque fatica. Ogni minima difficoltà, ogni minima fatica diventa un ostacolo insormontabile a donarci al Signore! Ma questa è fede? Noi crediamo o non crediamo? Dobbiamo domandarci: ma cos’è la nostra fede? Qual è la nostra fede? Tanti potrebbero essere gli esempi perché ciascuno di noi è chiamato a trovarli nella quotidianità del proprio cammino! Pensiamo alla Presenza Eucaristica nelle nostre case: se avessimo la fede come sarebbe il rapporto con l’Eucaristia? Sarebbe proprio quello che noi abbiamo? Non faremmo di tutto per restare lì davanti all’Eucaristia? Non faremmo in modo che ogni occasione diventi occasione per stare lì davanti all’Eucaristia? E le nostre Messe che cosa diventerebbero se la nostra fede fosse autentica e vera? E come usciremmo da quell’incontro se davvero credessimo che abbiamo visto e incontrato il Signore che è venuto a noi? Come cambierebbe la nostra esistenza se credessimo! E’ una questione di fede!!

Se non abbiamo allora i fianchi cinti, se non abbiamo devozione, se non siamo pronti con entusiasmo, diciamo al Signore: “aumenta la mia fede, perché non ho fede, io non credo davvero in Te, in quello che Tu mi dici, in chi io dico essere il Tu della mia vita, non ci credo … Aumenta la mia fede, perché questa è la grande malattia della mia esistenza!

 

La cintura della verità
La cintura con cui dobbiamo avere i fianchi cinti è la cintura della verità. Verità è una parola molto grande e molto ricca, che nella Scrittura viene usata con una molteplicità di significati. Noi certo non possiamo addentrarci troppo in questa molteplicità di significati, vogliamo soltanto pensare che Paolo qui usi la parola verità tenendo conto di quello che poco prima ha scritto e meditato insieme ai cristiani di Efeso: quel Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale … Un inno straordinario attraverso il quale San Paolo introduce gli Efesini nella contemplazione della verità di Dio, cioè nella verità della Storia della Salvezza, nella verità nella quale la vita dei cristiani di Efeso è inserita e immersa in modo mirabile. Quando Paolo parla della verità parla proprio facendo riferimento a questo inno straordinario che poco prima ha scritto per gli abitanti di Efeso (cfr Ef.1, 1-14).

Dio ci ha benedetti e ci ha scelti

Qui troviamo due parole importanti: Paolo dice che “Dio ci ha benedetti”, poi aggiunge “Dio ci ha scelti” e in questa benedizione, in questa scelta sta la descrizione bellissima che Paolo fa della Storia della Salvezza.

  • La benedizioneè una parola molto ricca nella Scrittura e ha come riferimento primitivo quel grande atto di benedizione tipico dei patriarchi. Pensiamo alla disputa tra Esaù e Giacobbe, che avviene attorno alla benedizione del padre Isacco: che cos’era questa benedizione che il patriarca dava al proprio figlio? Non era semplicemente un gesto della mano, ma era un gesto con il quale il padre consegnava al figlio tutto quello che era e tutto quello che aveva, gli metteva in mano in fondo la propria vita, perché il figlio la custodisse, la facesse propria e la portasse avanti nel tempo. Questa è la benedizione patriarcale nell’antichità, una benedizione che ritroviamo nelle stesse parole di Dio ad Abramo: “Ti benedirò”, cioè ti consegnerò me stesso e la mia vita perché tu la faccia fruttificare nel mondo, perché tu la faccia fiorire all’interno della storia per l’umanità (cfr Gen. 12, 1-19). Ecco che cos’è la benedizione così come Paolo la fa propria nel suo scritto. Paolo parla di questa benedizione come propria del gesto con cui Dio si è rivolto a noi fin dall’inizio, perché Dio ci ha benedetti. Allora che cos’è la verità? La verità è che la nostra vita è una benedizione di Dio, perché Dio ci ha consegnato tutto di sé perché lo custodiamo in noi, perché lo facciamo diventare vita della nostra vita, perché lo facciamo fruttificare e germogliare nel mondo, perché questa benedizione, che è Lui, germogli in noi e attraverso di noi divenga il giardino fiorito all’interno della storia e dell’umanità. Questa è la benedizione, e noi siamo benedetti, questa è la verità della nostra vita e della storia: Dio vuole benedirci, Dio vuole benedire il mondo, perché Lui vuole essere in noi e vuole essere la vita del mondo attraverso di noi!
    Ci ha benedetto nei cieli: è un qualcosa di più che Paolo dice e attraverso cui vuole sottolineare una dimensione importante, perché poco prima ha parlato di questa benedizione che è in Cristo, perché è in Cristo che ci è stato dato tutto, perché quel tutto che ci è stato già dato qui è una caparra per ciò che in pienezza potremo avere a disposizione nell’eternità di Dio! E’ dunque una benedizione che accompagna la vita fin dall’inizio per ogni giorno della nostra esistenza e che la accompagna per l’eternità. Ecco l’amore di Dio!
    Una mamma un giorno parlava con il proprio bambino: parlavano di cose importanti, perché il bambino aveva cominciato a frequentare il catechismo e tornando a casa poneva delle domande alla mamma. Un giorno, quasi per mettere probabilmente alla prova la mamma, e forse perché a catechismo avevano parlato dell’esistenza di Dio, il bimbo pose questa domanda alla mamma: “Mamma, Dio esiste davvero?” e la mamma, forse impreparata di fronte a questa domanda diretta, rispose subito: “Ma certo, certo che Dio esiste!”. Però il bambino voleva qualcosa di più, perché era interessato a capire di più, e allora le pose una seconda domanda: “Va bene, Dio esiste, però com’è Dio ?” La mamma non rispose ma, probabilmente ispirata, compì un gesto: avvicinò a sé il bambino e lo abbracciò, stringendolo forte al suo petto. Quando ebbe finito di abbracciarlo lo allontanò un attimo da sé e il bambino con la luce negli occhi, quasi con le lacrime, le disse: “Adesso ho capito com’è Dio!”.
    Dio ci ha benedetti, cioè Dio ci ama! Siamo nel suo abbraccio ogni giorno della nostra vita, da sempre e per sempre! Questa è la verità, e noi dobbiamo cingere i fianchi con questa verità, che diventa un’arma per vincere le insidie del maligno, per affrontare il combattimento della vita: perché noi cadiamo nel combattimento spirituale, perché in realtà spesso non crediamo che Dio ci ama, perché ce lo dimentichiamo, perché non sappiamo riconoscere in tutto l’amore di Dio per noi, perché ne abbiamo paura e abbiamo paura, perché non crediamo che Dio sia amore … e allora perdiamo la lotta e il combattimento … perché non sappiamo vedere che Dio ci ama anche quando il cammino può essere faticoso e c’è qualcosa che non corrisponde ai nostri programmi, a ciò che avevamo immaginato noi … lì non riconosciamo che Dio ci ama e allora perdiamo il combattimento, perdiamo la lotta se non crediamo fino in fondo che tutto nella vita, dal momento che tutto è Grazia, è segno dell’amore di Dio! Cingere i fianchi con la verità significa imprimere in noi questa fede cristallina nella benedizione di Dio, cioè nell’amore che Dio ha per noi! Se Dio ci ama, non ci ama con delle pause, non ci ama ad intermittenza, ci ama da sempre e per sempre, tutta la vita è dentro questo amore! Paolo dirà: “Non c’è né potenza, né dominazione, né forza di questo mondo, né male, né nemico che possa sconfiggerci.” (cfr Rm. 8,37-39). Perché nulla potrà sconfiggermi? Perché sono sempre vittorioso in Cristo Gesù Nostro Signore, cioè nell’amore di Dio, nel fatto che Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me, nel fatto che Dio mi ama e dà se stesso per me sempre, in ogni frammento del mio tempo, in ogni istante della mia esistenza! Non c’è nulla della vita che non possa essere letto come un segno dell’amore di Dio, ma per questo ci vuole la fede … Lo cantiamo, diciamo “ho creduto all’amore”, ma non lo crediamo e non lo viviamo … perché altrimenti vivremmo diversamente tante esperienze della vita, non vivremmo come se fossimo sempre impauriti dal Signore come da un padrone che vuole toglierci qualche cosa, non vivremmo sempre con i sospetto che Dio possa chiederci qualcosa che va contro di noi e non vivremmo sempre con il dubbio dicendo “Ma Dio mi ama davvero?”, ma vivremmo nella certezza di questo amore che non mi lascia mai, che non mi dà tregua tanto è costante eterno, bello, profondo, infinito … non mi lascia mai!
  • Non soltanto siamo dei benedettima siamo anche scelti, perché Dio ci ha voluto nel suo amore – per noi forse non sempre comprensibile, ma di fronte al quale rimaniamo meravigliati – e ci ha presi, perché noi avessimo un compito e un ruolo particolare in questa Storia della Salvezza, in questa storia di benedizione che riguarda il mondo, in questa storia di amore che riguarda l’umanità. Noi in questa vicenda siamo stati scelti per avere un ruolo unico, particolare, importante e decisivo. Se noi credessimo a questo! Se noi pertanto amassimo davvero la nostra vocazione! Non ci viene il dubbio a volte di non essere così innamorati della nostra chiamata per il modo in cui la viviamo? Qualche volta forse dovremmo domandarlo, se avessimo coraggio, a chi ci sta vicino: “Tu che mi frequenti, tu che mi parli spesso, tu che mi vedi vivere, tu che sei con me nell’apostolato, che cosa dici di me? Pensi che io sia contenta della mia vocazione? Vedi in me chi ha creduto attraverso la vocazione all’amore di Dio, a questa scelta stupenda che ha fatto di me e per me nel disegno del suo amore per il mondo? Lo vedi? Lo senti? Lo tocchi con me, in me?”
    Anche senza questo atto, che sarebbe probabilmente di coraggio eroico, possiamo però da soli ogni tanto domandarci e domandarcelo con verità: chi mi sta ascoltando, chi mi sta guardando può dire che sono innamorata della mia vocazione? Anche questo, lo capite, è una questione di fede …

Riscoprire la grandezza della nostra chiamata
Proviamo a riflettere brevemente per vedere come questa arma della verità – che poi è un disegno di Dio sulla nostra vita, è l’amore di Dio – per noi diventa completamente un’arma che teniamo in mano.

  • Anzitutto è un’arma contro la nostra meschinità di cuore, perché tutte le volte che siamo tentati di avere un cuore piccolo, ripiegato su se stesso, preoccupato, irritato per le piccole vicende di una giornata – per ciò che non va, per ciò che non va negli altri, per ciò che temiamo, per le nostre piccole grandi paure … – tornare alla verità ci aiuta ad uscire da queste nostre meschinità, perché è troppo bella la verità di Dio per perderci in queste meschinità, è’ troppo grande l’amore di Dio per perdere il tempo in quelle piccole cose, nelle quali rimaniamo infangati ogni giorno, e per le quali perdiamo tante energie, perdiamo tanto tempo, perdiamo energie di mente, di cuore, di affetto, ci perdiamo nel nulla e non contempliamo la bellezza della verità, non ci lasciamo catturare dalla grandezza dell’amore di Dio per noi e del disegno che Egli ha sulla nostra vita! Quando ci fermiamo e contempliamo l’amore di Dio, lo guardiamo in quanto riversato nel nostro cuore, pensiamo alla nostra chiamata e anche che cosa siamo davanti ai suoi occhi per la storia del mondo, allora quelle piccole cose, quelle cose da poco, quelle lamentele che ci portiamo dentro non le consideriamo più importanti, sappiamo vederle nella loro giusta dimensione. La verità ci aiuta a non rovinare la vita con le sciocchezze, perché noi ci roviniamo la vita con le sciocchezze! La verità è grande e ci aiuta a uscire da quei piccoli labirinti nei quali noi stessi, da soli, ci infiliamo e dai quali poi non riusciamo più a uscire. Noi siamo fatti per la verità, siamo fatti per le cose grandi! Dio ci vuole per il suo amore, non possiamo perderci in queste banalità inutili che ci fanno male e che fanno male, siamo fatti per le vette, Dio ci ha voluto così, non siamo fatti per le pianure! Credo che contemplare la verità ci aiuti ad avere una considerazione anche più grande di noi, perché in fondo quando ci perdiamo in tante piccole cose abbiamo una considerazione ben bassa di noi … non c’è nulla per cui valga la pena perdersi, perdere il tempo, perdere le energie, perdere la vita quando noi ci mettiamo di fronte alla verità di Dio, all’amore di Dio, al disegno di Dio! Davvero con Paolo possiamo dire allora che “tutto è spazzatura”, è la spazzatura del mondo nella quale a volte ci troviamo immersi, purtroppo … se non ci cingiamo i fianchi con questa verità siamo disarmati e la spazzatura del mondo ci sommerge, le banalità diventano grandi cose, le piccole sciocchezze quotidiane diventano il tutto della nostra vita … noi, invece, siamo stati benedetti e scelti per cose grandi, non per altro!
  • Questa grande arma della verità ci difende dalla diffidenza, quella diffidenza che abbiamo sempre dentro di noi, soprattutto verso Dio … noi siamo diffidenti verso Dio, lo abbiamo già detto ma lo vogliamo ripetere, siamo diffidenti, perché se non fossimo diffidenti ci doneremmo di più. Non ci doniamo come dovremmo, come potremmo perché diffidiamo, perché in realtà non crediamo che buttandoci finalmente e totalmente in quelle braccia, quelle braccia ci siano e quelle braccia ci accolgano, quelle braccia ci amino davvero! Non lo crediamo, siamo diffidenti … e allora? Facciamo sempre un mezzo passo avanti e poi uno indietro per paura che sia troppo! L’arma della verità e dell’amore di Dio ci disarma dalla diffidenza, ci fa vincere il combattimento contro la diffidenza. Siamo sempre a misurare le forze, perché potremmo farci male … ma di che cosa abbiamo paura? Se Dio è amore, se Dio mi ama, perché ho paura di donarmi ancora? Perché mi difendo? Devo contemplare e immergermi nell’amore del Signore e nella verità per vincere la diffidenza!
  • La contemplazione della verità, il rimanere immersi nella verità di Dio ci aiuta a riscoprire la grandezza della nostra chiamatae a viverla fino in fondo. Perché è grande la nostra chiamata alla vita religiosa, è grande la nostra chiamata alla vita consacrata! Dentro quella verità stupenda del disegno di Dio noi siamo in prima linea in questo disegno, non possiamo dimenticarlo. E allora vale la pena dare tutto, vale la pena donarsi senza riserve, vale la pena faticare, vale la pena morire per questa verità! Possiamo dire che la verità di Dio è l’arma che ci aiuta a combattere contro le nostre paure e contro la nostra tentazione per una vita comoda e banale, perché ci fa capire dentro che cosa è la nostra esistenza e la nostra chiamata.
  • Noi abbiamo un’occasione sovente che si ripropone a noi, spesso nella liturgia, altre volte nella preghiera personale, per rimetterci davanti alla verità di Dio e quindi per cingere i nostri fianchi con la verità di Dio: è il Simbolo della fede. Come recitiamo il Simbolo della fede ? Come preghiamo il Simbolo della fede? Con quale cuore ripercorriamo i diversi momenti del Simbolo della fede? Quella è la verità, cioè quello è il disegno di Dio, quello è l’amore di Dio, così come si presenta e si realizza nella storia dell’umanità e nei giorni di questo mondo. Lì c’è tutto: dovremmo contemplare sempre la bellezza e la grandezza della verità attraverso il Simbolo e ritrovare la gioia di quel Simbolo. Pensiamo che cosa è stato nella storia della fede la recita del Simbolo per coloro che, adulti, per la prima volta abbracciavano la fede: che cos’è? che cosa è stato? E’ l’immersione dentro una verità di amore che si è fatta incontro, che ha abbracciato la vita e che ha spalancato orizzonti straordinari di bellezza. Dovremmo stare dentro più spesso a questo Simbolo per stare più dentro spesso nella verità, per non perderla di vista e per vivere – come Paolo ci ricorda – con i fianchi cinti e con questa grande arma, per vincere il combattimento della vita spirituale!

 LITURGIA DELLE ORE – COMPIETA
La vita di preghiera
In queste sere, terminata la Compieta, prima di affidare il sonno della notte alla Madonna, ci soffermiamo brevemente su alcune insidie che hanno a che fare con la nostra vita spirituale, in particolare con la nostra vita di preghiera. Prima però di fare alcune considerazioni in merito – e le faremo seguendo l’insegnamento di Sant’Ignazio – riprendiamo proprio alcuni particolari della vita di Sant’Ignazio, particolari che abbiamo potuto ascoltare questa sera durante la cena e che riprendono qualcosa che abbiamo meditato anche noi in questi primi giorni di Esercizi. Scorrendo la sua vita si arriva al momento in cui Ignazio decide di riprendere gli studi: chi ha commentato questo passaggio della vita di Ignazio ha sottolineato che quello è stato un momento di grazia speciale non soltanto per Ignazio, ma per la vita della Chiesa, perché non avremmo avuto la compagnia di Gesù, non avremmo avuto Ignazio così come lo conosciamo oggi, non avremmo avuto quindi la riscossa del mondo cattolico. In quel tempo c’è stata questa decisione imprevista e imprevedibile: così è fatta la storia della Chiesa, così è fatta la storia di santi e così è fatta la storia di Dio con gli uomini!

Dicevamo ieri iniziando gli Esercizi che basta forse una decisione presa nel segreto del cuore, con tutto il cuore, davanti a Dio per cambiare le vicende della storia. Questo è ragionare con fede! Questo è guardare in faccia la propria vita e la vita degli altri! Questo è osservare in una prospettiva di fede la vita della Chiesa! Le grandi cose, la grande storia, la storia di Dio con gli uomini si realizza nel segreto di alcune scelte radicali, decisive: il resto può essere visibile, può essere anche umanamente grande, ma ciò che davvero è grande agli occhi di Dio è altro e noi dobbiamo vivere in questa logica, altrimenti la nostra logica è la logica di mondo! E’ più importante che a un raduno partecipino un milione di persone o è più importante che nel segreto di una cappella una persona dica di sì a Dio con tutto il cuore? Non c’è dubbio: è più importante questo!

Ma noi ragioniamo diversamente, ragioniamo secondo la logica del mondo, mentre dobbiamo abituarci a ragionare di più secondo Dio, dunque secondo la fede. Qual è il successo delle nostre iniziative, quelle che mondanamente riscuotono successo? No! Il successo della nostra iniziativa è quella che si consuma probabilmente nel segreto di un cuore che si dona totalmente a Dio! Quello è il successo vero, che scrive la storia vera, la storia di Dio e non la storia del mondo! Abbiamo ascoltato che cosa è stato capace di fare Ignazio per le cose del mondo, ma abbiamo poi anche ascoltato che cosa è stato capace di fare Ignazio per le cose di Dio. E la nostra vita? Domandiamo la grazia di questa passione del cuore per le cose che riguardano Dio!

Tornano sempre alla mente le parole dell’autore sacro quando dice riferendosi ai santi: “… considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede”. Siamo sempre lì: che cosa siamo chiamati a imitare dei santi? Non la vita particolare che hanno avuta, perché questa è soltanto la loro, ma siamo chiamati a imitare la fede da cui quella vita è scaturita, perché è stata la fede il motore di quella vita santa, è stata la fede il motore della vita di Ignazio, è stata la fede che lo ha portato a conversione profonda, è stata la fede che gli ha fatto fare ciò che ha fatto! E così torniamo sempre alla questione centrale della nostra vita …

Alcune insidie che riguardano la nostra vita di preghiera
Veniamo ad alcune insidie che riguardano la nostra vita spirituale, ma in particolare la vita di preghiera, perché la preghiera è un aspetto della vita che al nemico dà particolarmente fastidio e dunque è un aspetto della vita che è sottoposto a pensieri e tentazioni più di altri aspetti, perché il nemico sa che chi prega è vicino a Dio, il nemico sa che chi prega cresce nella fede, il nemico sa – come direbbe San Giovanni Crisostomo – che “chi prega ha le mani sul timone della storia”, il nemico lo sa, ed è per questo che il diavolo ci tenta, perché ci vuole distogliere da questo grande tesoro e da questo grande mezzo di santificazione e di santità. In fondo non c’è nulla che il nostro nemico desidera di più che il vederci presi da mille cose e distratti rispetto alla preghiera. Come deve essere soddisfatto il diavolo quando vede un cristiano, un consacrato, una consacrata che vive l’attività in modo smodato con ansia e non ha più il tempo per fermarsi davanti al Signore e lo fa perché pensa di far bene , non lo fa perché pensa di fare male, ma perché gli pare di non poter fare diversamente, perché le cose lo prendono, perché le attività sono molte, perché l’apostolato urge, tutto per il bene! È un’insidia. E non si prega più, non ci si ferma più davanti a Dio, la preghiera diventa vuota e distratta.

Queste sono le insidie, o meglio, la grande insidia: Ignazio è stato un maestro di vita spirituale e negli Esercizi Spirituali ci dona alcune regole molto semplici, molto schematiche che certamente ci aiutano a fare un po’ di luce su queste insidie che giorno dopo giorno dobbiamo affrontare nella vita e che costituiscono il nostro combattimento quotidiano nel campo della preghiera. Sono regole per sentire e conoscere in qualche modo i movimenti che si agitano nell’animo nostro: i buoni per accoglierli, i cattivi per respingerli. Che cosa vuole dirci Ignazio? Che dentro di noi si agita qualcosa, quando noi preghiamo ci sono dei movimenti nel cuore, nell’anima; non siamo inerti o immobili durante la preghiera, proviamo sensazioni, cioè c’è un mondo in movimento dentro di noi quando preghiamo ed Ignazio è convinto che questi movimenti interiori durante la preghiera siano importanti e sia anzitutto importante sentirli, cioè rendersi consapevoli che ci sono, perché a volte non ne siamo consapevoli, o meglio, non li mettiamo in luce e li viviamo senza considerarli e senza dare loro importanza; vanno e vengono … A volte ci sentiamo tristi e a volte ci sentiamo più allegri, a volte siamo un po’ depressi, altre volte siamo euforici, ma molto spesso senza sapere il perché di questi cambiamenti del cuore; in certi momenti siamo aridi, in altri momenti invece emotivamente partecipiamo alla preghiera: tutto questo dobbiamo sentirlo, cioè capire che c’è, guardarlo, osservarlo; non passarvi sopra distrattamente.

Se però è importante sentire tutto questo, per Ignazio è ancora più importante valutare tutto questo, perché si tratta di valutare quei movimenti che sono buoni sapendo distinguerli da quei movimenti che sono cattivi. Questa è un’arte spirituale importantissima, quella su cui Ignazio costruisce l’arte del discernimento, il discernimento degli spiriti. Che cosa c’è di buono in questo momento nel mio cuore che si muove? Che cosa c’è di cattivo in questo momento nel mio cuore che si sta muovendo? Devo essere capace di cogliere ciò che è buono per abbracciarlo, per farlo mio, per seguirlo; devo essere attento a capire che cosa è: se è cattivo per allontanarlo, per portarlo via da me, per non seguire, per oppormi e cambiare direzione. Occorre sentire e valutare questi moti dell’anima, che ci sono sempre durante il tempo della preghiera: dobbiamo accorgercene e chiamare i buoni buoni, i cattivi cattivi, seguire i primi e abbandonare gli altri.

Ci soffermiamo un momento sulle modalità in cui spesso si muove lo spirito negativo e cattivo dentro di noi. Ecco che cosa dice a proposito Ignazio: “… in coloro che vanno avanti con intensità nel purificarsi dai loro peccati e nel salire nel servizio di Dio nostro Signore procedendo di bene in meglio, allora in queste persone è proprio dello spirito del male mordere, rattristare, mettere impedimenti rendendo inquieta l’anima con false ragioni perché non vada avanti”.

Qui Ignazio descrive una serie di sensibilità interiori negative, dei moti negativi del cuore: c’è questo verbo “mordere”, che è il primo verbo che Ignazio usa e che fa un po’ da introduzione agli altri perché nel morso dello spirito cattivo sta una inquietudine interiore, un disagio – di cui spesso non si sa l’origine – che ci porta tristezza, spossatezza, a volte impedimenti anche immaginari perché ci domandiamo “Come potrò fare questo? Come riuscirò in questa altra cosa dal momento che sono così appesantito, stanco, affaticato? Come farò oggi ad andare avanti? Come potrò affrontare questa difficoltà, questa situazione, questa fatica?”. L’anima inquieta è turbata, preoccupata, percepisce di non riuscire a farcela senza ragioni vere, ma per ragioni false: scopro che sono ragioni false dal momento che il cuore è inquieto, non c’è la pace, c’è un senso di ansia, di fretta strana, di oscurità nel cuore. Qual è lo scopo di questo morso interiore? E’ quello di bloccarci, di fermarci e di fare in modo che non procediamo, che non camminiamo nella preghiera, né nella carità, né nella vita spirituale, cioè che siamo bloccati senza gusto e senza il coraggio di procedere. E’ quella vita stanca di cui parlavamo oggi che ha tante espressioni perché comincia dalla preghiera per continuare poi nelle scelte concrete della nostra giornata e della nostra vita. Questo è il morso che percepiamo nel cuore durante il tempo della preghiera. D’altra parte Ignazio ci ricorda sempre che laddove non c’è pace non c’è mai lo spirito buono; laddove il cuore non è nella pace c’è sempre l’opera dello spirito cattivo, cioè di questo morso che vuole in un modo o nell’altro bloccare il nostro cammino, impedirci di seguire il Signore che ci chiama all’incontro. Qual è il segnale del movimento buono del cuore, dello Spirito di Dio che opera dentro di noi? E’ laddove si sente coraggio, forza, consolazione, a volte lacrime, ma lacrime dolci che cambiano il cuore, ispirazioni, quiete profonda. Tutto questo è opera dello Spirito di Dio e lo avvertiamo durante la preghiera.

Come fare quando abbiamo lo spirito cattivo? Dovremmo allontanarlo da noi. Che cosa fare quando avvertiamo lo spirito buono? Dovremmo abbracciarlo prontamente. Noi non sempre abbiamo l’energia spirituale per abbandonare subito e senza esitazioni ciò che lo spirito cattivo opera dentro di noi. Non è facile! A volte sradicare un sentimento di tristezza non è facile! A volte sradicare un sentimento di sfiducia non è facile! A volte sradicare un sentimento di malinconia non è facile! A volte strappare da noi quella stanchezza che ci impedisce di andare non è facile! Ignazio dice che sarebbe importante troncare energicamente con lo spirito cattivo e sapendo che non sempre ci è facile afferma che “almeno dobbiamo volere con tutto il cuore staccarci da esso”.

Ecco allora che cosa significa leggere il proprio cuore durante la preghiera e combattere il buon combattimento contro le insidie del nemico: staccarci subito – o perlomeno volerlo con tutto il cuore e con tutta l’anima – dallo spirito cattivo e perseguire questo obiettivo.

In questi giorni in cui la nostra preghiera è più prolungata – e dunque forse c’è anche più facile stare davanti al Signore – teniamo conto di questo insegnamento di Ignazio, che ci aiuterà a combattere contro quelle insidie e raggiri del nemico che tante volte bloccano la nostra preghiera e il nostro cammino in Dio.
Savona, 1 agosto 2018

 

PRIMA MEDITAZIONE
La corazza della giustizia
Dopo aver invocato lo Spirito Santo come Spirito dell’amore ci rimettiamo in ascolto della pagina di San Paolo che costituisce l’oggetto della nostra meditazione: come dicevamo ieri, la vogliamo ancora oggi riascoltare insieme con quell’atteggiamento del cuore innamorato che scruta con desiderio parola per parola per cogliere quel messaggio particolare che l’Amato ha per ciascuno di noi, e dopo aver considerato la prima arma con la quale Paolo illustra l’armatura di Dio che siamo chiamati a indossare – ovvero cingere i fianchi con la verità – questa mattina consideriamo la seconda arma che è posta nelle nostre mani per combattere le insidie del diavolo. Paolo dice “rivestiti con la corazza della giustizia”: questo termine giustizia non sempre è facile da identificare nel suo significato, anche perché nella Scrittura il termine giustizia ha significati diversi, certamente però questo termine giustizia generalmente sta ad indicare il giusto rapporto con Dio e con gli altri che l’uomo viene ad assumere. Nella mentalità ebraica questo giusto rapporto si esplica soprattutto nell’osservanza della legge, per questo si dice che ad esempio Elisabetta e Zaccaria erano giusti e osservavano con attenzione la legge del Signore; ugualmente di Giuseppe si dice che era giusto in quanto teneva conto di tutta la legge di Dio. Dunque giustizia è giusto rapporto con Dio e con gli altri, è il risultato dell’osservanza della legge. Paolo però, che desume il termine giustizia certamente dal mondo ebraico da cui proviene, lo usa con un’accezione un po’ diversa, perché questo giusto rapporto con Dio e con gli altri non è più nella visione di Paolo soltanto soprattutto derivante dall’osservanza della legge, ma è prima di tutto e soprattutto derivante da Dio che rende l’uomo giusto nei suoi rapporti con Dio e con gli altri. Dunque non si tratta di qualcosa che l’uomo raggiunge con le sue forze e per il fatto di osservare una norma, ma si tratta di una situazione nuova che è donata a lui dalla Grazia di Dio, il giusto rapporto che l’uomo ha con Dio e con gli altri é qualcosa che non si può raggiungere da soli, ma che soltanto la Misericordia del Signore, la sua Grazia, il suo perdono può immettere nel cuore di ogni uomo.

Allora diciamo qualcosa sul giusto rapporto con Dio: considerando proprio la prospettiva di San Paolo. Quello che ci pone nel giusto rapporto con Dio è la consapevolezza di essere stati graziati per amore, cioè di essere salvati gratuitamente. Soltanto nella misura in cui noi siamo consapevoli nella profondità del cuore di questa nostra identità il rapporto con Dio è giusto e siamo nella giustizia. Noi non ci salviamo da soli, la salvezza non è il risultato della nostra capacità di osservare una norma, di applicare una legge, di adeguarci a un ideale di vita: la nostra giustizia é dono dell’amore di Dio che ci salva, è il frutto di un incontro che ha cambiato il cuore e la vita rendendolo capace di sequela e dunque di adesione, ma solo in seconda battuta. Eppure ci è tanto difficile entrare dentro questa verità e dentro questa realtà, meno forse a livello di comprensione intellettuale ma di più a livello di sentire autentico del cuore, perché – e ce ne accorgiamo spesso – noi portiamo avanti la nostra vita spirituale come se noi fossimo degli artefici della nostra salvezza, i protagonisti del nostro salvarci da soli, perché accampiamo davanti a Dio meriti riguardo le cose buone che facciamo, perché ci affidiamo alla nostra volontà, semplicemente alla nostra volontà, per superare difetti, problemi, fatiche e vizi, quasi con uno sforzo prometeico, quasi che il salvarsi dipendesse da questo … Ci è difficile ammettere che la salvezza non è nelle nostre mani ma è nelle mani di Dio, perché alla fine ci è sempre difficile ammettere che siamo amati, ci è difficile lasciarci amare, è difficile entrare dentro questa realtà per la quale siamo impotenti, nella storia della nostra salvezza siamo impotenti, perché grazia di Dio, è frutto dell’amore di Dio, è opera sua. Paolo lo dirà con questa espressione molto bella: “Noi siamo opera tua”. Cosa vuol dire? che la salvezza è sua, che ciò che siamo é dono suo, ciò che riusciamo a raggiungere è un frutto della sua Grazia … la capacità di lasciarci realmente amare.

Pensiamo ad un esempio che forse è storia della vita di ciascuno di noi: ciascuno di noi ha un direttore spirituale – almeno speriamo che sia così, che ognuno di noi abbia un confessore di riferimento – e probabilmente è capitato a tutti noi di entrare dentro questo ragionamento quando davanti ad una fatica, ad una caduta, ad un comportamento magari vizioso abbiamo pensato “ne parlo al direttore quando ho superato il problema”. È questa esattamente l’espressione di chi ancora non è entrato dentro la realtà di Dio Salvatore, perché ci vogliamo salvare da soli … io me la sbrigo e quando avrò superato la fatica ne parlerò al direttore spirituale … Noi siamo accompagnati lungo il cammino dell’esistenza da questa tentazione che continuamente si ripropone: non è facile ammettere di non avere in mano le briglie della nostra salvezza, eppure è così e la salvezza comincia quando riconosciamo di essere salvati e quando possiamo scrivere sulla nostra carta d’identità salvato e non salvatore. D’altronde noi il Signore lo chiamiamo proprio così, Salvatore, perché la nostra fede ce lo dice e perché in fondo lo sappiamo, ma quanto è difficile vivere il giusto rapporto con Dio! Parte da qui, da questa collocazione in quanto salvati da lui.

Perché questo atteggiamento e questa collocazione fondamentale sono una corazza e un’armatura che ci aiuta nel combattimento quotidiano della vita spirituale? perché ci difende da molte tentazioni e da molte insidie, ad esempio dall’orgoglio – perché siamo molto orgogliosi nella vita spirituale – dall’ambizione spirituale che a volte viviamo, dallo scoraggiamento, che è esattamente l’espressione di chi pretende di salvarsi da solo perché dopo una caduta siamo scoraggiati? perché non stiamo vivendo da salvati, ma da salvatori, e allora di fronte alla caduta si infrange quella strana idea che avevamo di potercela fare con le nostre forze. Ogni scoraggiamento, ogni crisi è segno che stiamo vivendo non da salvati ma da salvatori, non da amati, non da raggiunti dalla Grazia di Dio. Sempre lo scoraggiamento è il segno di questo ed è proprio per questo motivo che il giusto rapporto davanti a Dio come salvati ci salva da queste insidie del diavolo, perché se sono orgoglioso nella vita spirituale e pretendo di fare da solo impedisco a Dio di operare in me, se mi scoraggio dopo la caduta non cammino, mi fermo, non vado avanti, se sono ambizioso spiritualmente impedisco al Signore di operare con la sua bontà e con la sua Grazia e questo è una insidia del diavolo, che vuole così impedire la bellezza del cammino che sto facendo.

Bagnarci pertanto abitualmente nella Misericordia di Dio – nella realtà della Grazia di una bontà e di un amore che mi precede sempre – è decisivo proprio per rivestirsi di questa corazza della giustizia, cioè del giusto rapporto con Dio. D’altronde lo vedremo tra poco: questa corazza ci aiuta anche a vivere in un giusto rapporto con gli altri perché quando noi ci rendiamo consapevoli di essere dei salvati riusciamo a guardare con occhi diversi gli altri, che come noi sono salvati, come noi sono dei poveracci, come noi fanno la fatica nel cammino della vita spirituale, come noi si ritrovano oggetto di misericordia, come noi … proprio come noi … e allora questo ci pone in una condizione di giustizia, cioè di giusto rapporto con gli altri, che diventa un rapporto di carità, un rapporto di compassione, un rapporto di pazienza, nel significato più bello che questo termine viene ad avere … e quando è così – su questo poi torneremo tra poco – il nostro cuore è nella pace, perché noi siamo nella pace, quando entriamo dentro la realtà bella della salvezza che viene da Te allora siamo rappacificati e siamo nella pace, quando entriamo dentro la realtà bella di questa comunione di povertà che viviamo con gli altri, per la quale lo sguardo si fa compassionevole, buono, paziente, tenero, misericordioso nei confronti del fratello e della sorella … anche per questo la giustizia è una corazza, perché ci impedisce quell’ansia, quella mancanza di tranquillità, quella inquietudine che deriva proprio dalla mancanza di giustizia, cioè un rapporto sbagliato con Dio e con gli altri, perché se noi affidiamo a noi stessi la salvezza saremo sempre inquieti … e se noi non guardiamo con gli occhi della carità gli altri – salvati come noi – saremo sempre inquieti … Dove manca l’esperienza di un Dio che ama per primo c’è l’inquietudine e dove manca l’esperienza della carità c’è l’inquietudine. Ecco perché la giustizia è una corazza contro le insidie del diavolo, tra le quali c’è l’inquietudine del cuore, che è all’origine di tanti altri mali nella nostra vita.

Chi siamo noi? Chi è Dio?
Al capitolo 2 della lettera agli Efesini – abbiamo detto che è possibile considerare il brano oggetto della nostra meditazione senza fare riferimento anche ad altri brani della stessa lettera – dal versetto 1 al versetto 10 si entra un po’ di più nel merito di questo giusto rapporto con Dio di cui Paolo ci parla qui semplicemente attraverso una definizione. E potremmo dire che Paolo si addentra dentro questa realtà del giusto rapporto con Dio ponendosi due interrogativi: chi siamo noi? chi è Dio?

In fondo questo è l’interrogativo che ha segnato l’esperienza spirituale di tutti i Santi: Caterina da Siena, per esempio, e San Francesco, quando passando una notte intera a La Verna continuava a domandarsi nella preghiera davanti al Signore “chi sei tu? chi sono io?”. Queste due domande sono decisive per entrare dentro la giustizia, cioè il giusto rapporto con Dio, perché fintanto che non capisco chi sono io e non capisco chi è Dio non posso entrare dentro questa giustizia, cioè nel giusto rapporto …

  • “chi siamo noi”? ecco che cosa dice Paolo: “eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli”.
    Paolo ci aiuta ad entrare dentro la realtà più nera, cioè la nostra povertà, il nostro peccato, la nostra colpa, la nostra mentalità, la nostra ribellione – tutti aspetti della nostra vita reale – e desidera che noi entriamo dentro questo fango nel quale siamo immersi perché è importante entrarci dentro; il peggio è non entrarci, il peggio è non riconoscerlo, il peggio è non chiamarlo per nome, il peggio è non soffrirne, il peggio è non riconoscerlo come realtà della vita … Tutti siamo toccati dalla colpa, tutti siamo macchiati dal peccato, tutti siamo investiti dalla mondanità, tutti siamo nella ribellione … a volte proprio perché si fa fatica ad ammettere questo il Signore ci porta attraverso l’esperienza della caduta – a volte anche della caduta un po’ rovinosa – perché ci accorgiamo di chi siamo … La grazia di Dio è talmente grande che si serve anche del peccato e del peccato grande per farci toccare con mano chi siamo e per spogliarci da quell’orgoglio spirituale e da quella ambizione del cuore che tante volte riveste la nostra vita. Allora in quel momento dovremmo dire “felice colpa!”, non perché la colpa sia buona, ma perché il Signore si è servito di quella colpa per aprirci gli occhi sulla realtà della nostra vita: non c’è vita di santità, non c’è vita cristiana e non c’è conversione autentica che non parta da questa presa di consapevolezza di ciò che siamo … poveri … peccatori … perduti. Ecco dove Paolo ci conduce quando risponde alla domanda “chi siamo noi? chi sono io?”: Paolo ne ha fatto esperienza in prima persona, tra l’altro lui proviene da un’esperienza di grande orgoglio spirituale e religioso, era fariseo, era un dottore della legge, pensava di poter conquistare Dio attraverso l’osservanza scrupolosa della norma religiosa … lì ad un certo punto Dio entra e gli cambia completamente la vita e dirà di sé che è stato come un aborto, o meglio, come quell’embrione che si trova ad un certo punto tra la morte e la vita e che riesce a sopravvivere per un intervento che lo salva … così lui si è sentito, quindi sa che cosa significa passare da una situazione di orgoglio spirituale a una situazione di consapevolezza della propria miseria.
    Allora con Paolo percorriamo questa strada che è all’inizio di ogni autentica conversione e di ogni vera storia di santità: potessimo – e dovremmo chiederlo in dono, credo – provare davvero il dolore della nostra povertà, piangere a motivo del nostro peccato, stare davanti al Signore con il cuore in lacrime … ma lacrime dolci, perché abbiamo scoperto qual è il nostro vero volto, un volto deturpato, un volto deformato, non per intristirci, abbatterci, rimanere sconsolati, ma per essere finalmente toccati dalla salvezza di Dio e dalla misericordia di Dio! Sant’Ignazio – che, ricordavano ieri sera ascoltando i tratti della sua biografia, è un grande maestro di vita spirituale – inizia gli Esercizi proprio a partire da qui, da una considerazione attenta e prolungata alla realtà del peccato, perché vuole che colui che fa gli Esercizi arrivi a sbattere la faccia contro la propria povertà e quindi da lì riparta sentendosi amato e salvato … non c’è altra strada, si passa da lì …
    E allora in questi giorni – non per tornare in modo poco salutare sulle nostre colpe, così da rattristarci, perdere fiducia, essere bloccati nel cammino, non per questo ma al contrario per poter trovare lì la bellezza e la salvezza di Dio – ritorniamo sui peccati della nostra vita. Generalmente si dice giustamente che non bisogna tornare a considerare il peccato che il Signore ha ormai perdonato: è vero, e non dobbiamo tornarci per considerarlo in quanto tale – cioè come motivo di stanchezza interiore, angoscia, ansia … questo no – però possiamo e dobbiamo tornare a considerarlo quando questo diventa un aiuto per entrare dentro quella povertà che dobbiamo ricordare a noi stessi e con la quale possiamo stare davanti a Dio dicendo “è vero, io sono amato, io sono salvato, io sono un graziato, io sono opera tua … non farmelo dimenticare mai!”
  • “Chi è Dio?” Questa è la seconda domanda che Paolo si pone e alla quale risponde nel capitolo 2 della lettera agli Efesini. Di nuovo ascoltiamo l’Apostolo: “…. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati da morti che eravamo per Grazia ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia infatti siete stati salvati! con lui ci ha anche risuscitati, ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua Grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”.
    Questa è la buona notizia! altrimenti che cos’è il Vangelo? è un cammino di perfezione tra i tanti che la storia ha conosciuto?!? Eh no! il Vangelo è una notizia di grazia, di perdono, di salvezza, che non è nostra, ma di Dio! In queste parole di Paolo del capitolo secondo della lettera noi ascoltiamo la gioia straripante di un uomo che ha capito che cos’è la buona notizia: non è lui che deve pensare a salvare se stesso – impotente a farlo – ma è ormai il Signore che ha provveduto a salvare in Cristo Gesù. Dunque chi è Dio? È questo straordinario Signore ricco di misericordia, tutta Grazia, tutto dono, tutto amore, tutto salvezza, tutto per noi … questo è Dio! come dobbiamo ritrovare sempre di nuovo il volto di Dio perché – ne siamo consapevoli – siamo “artisti” nella capacità di deturpare questo volto, un po’ perché la nostra storia ci porta poi a fissare con occhi annebbiati il volto di Dio, un po’ per le esperienze della vita, un po’ per il nostro peccato, le cadute, tutto questo contribuisce ad avere uno sguardo non limpido sul Signore e spesso a costruire un volto di Dio non corrispondente al vero. Perciò se è importante che di tanto in tanto ci domandiamo “chi sono io?” – rientrando dentro quella povertà che mi mette dentro la verità della mia vita – è altrettanto importante che di tanto in tanto io risponda alla domanda “chi sei tu?” perché devo continuamente ritrovare il volto autentico di Dio, che è il volto di questo amore straordinario, che è talmente bello da non riuscire a volte a fissarlo con il nostro povero sguardo …
    Che cosa accade quando sono entrato dentro la verità di chi sono io e quando sono entrato dentro la verità di chi è Dio, cioè vivo della giustizia, con la corazza della giustizia? la mia vita diventa un canto di gratitudine e un canto di lode! Tutto diventa gratitudine, tutto diventa lode, tutto diventa riconoscenza! Da questo punto di vista ci aiuta sempre tanto ogni giorno tra l’altro cantare e pregare il Magnificat della Madonna: lei è entrata dentro la verità della sua vita salvata, è entrata dentro la verità di Dio ricco di misericordia e allora ha cantato il Magnificat, che è stato il canto non soltanto dell’incontro con Elisabetta, ma è stato il canto di tutta la sua vita, perché la sua vita è stata una risposta grata all’amore di Dio, è stato un canto di gratitudine alla misericordia di Dio!

Da che cosa possiamo accorgerci che la nostra vita non è nella giustizia, cioè non è nel giusto rapporto con Dio e con gli altri?

Dal fatto che non siamo grati, che non siamo riconoscenti, che non lodiamo e non stiamo davanti a Dio col cuore colmo commosso, grato per ciò che Egli è e per ciò che Egli fa per noi! Quando abbiamo sempre da lamentarci, quando abbiamo sempre da accampare diritti, quando abbiamo sempre qualcosa da dire, quando abbiamo sempre soltanto da chiedere è perché non siamo nella giustizia, non abbiamo ancora capito chi siamo noi e chi è Dio.

Al giusto rapporto con Dio è necessario unire anche l’altra faccia della medaglia, ovvero il giusto rapporto con gli altri. Al capitolo 4 della stessa lettera – soprattutto nei primi versetti dall’1 al 5 e anche i seguenti – Paolo si dilunga un po’ a considerare ciò che al capitolo 6 identifica con una frase. Egli si dilunga a tratteggiare la giustizia nei rapporti con gli altri sottolineando un aspetto, cioè che noi siamo una cosa sola in Cristo, noi siamo un unico corpo in Cristo, cioè noi siamo tutti – per dirla in modo molto semplice – “sulla stessa barca”, siamo tutti peccatori, siamo tutti morti, siamo tutti poveri e tutti siamo salvati. Perché Paolo insiste su questa unità di corpo, unità come una cosa sola? perché proprio a partire da lì ecco che cosa sottolinea ed esorta: “Vi esorto dunque a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto con ogni umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo delle vincolo della pace”. È quello che sgorga dal cuore di Paolo che si sente una cosa sola con questi fratelli con i quali condivide la povertà della propria vita e l’esperienza della salvezza in Cristo! Quando noi entriamo dentro questa verità di essere tutti lì nella stessa condizione allora il cuore diventa più grande e lo sguardo sul volto della vita del fratello si ispira ad una più grande compassione perché capisco che la mia povertà è la sua stessa povertà, che la mia fatica è la sua stessa fatica, che quello che non riesco a cambiare in un giorno ma cambio in mesi forse anni o neppure in anni è la stessa esperienza che fa l’altro, che ce la mette tutta ma non riesce a cambiare in un giorno, in un mese, in un anno, in una vita forse … che quei cattivi pensieri che mi porto dentro – Eh sì! – li ha anche l’altro, che quelle cattive inclinazioni che segnano così profondamente la vita le ha anche l’altro e condividiamo lo stesso cammino, la stessa fatica … Allora non sono più nell’atto di chi giudica senza pietà la vita altrui, ma sono  nell’atto di chi compatisce con pazienza e con tenerezza la difficoltà che l’altro condivide con me … e allora superiamo con più facilità le amarezze, le stizze, i dissensi, i litigi, tutto ciò che può avvelenare la nostra giornata! Quanto veleno portiamo nel cuore perché non sappiamo entrare nella giustizia, cioè nel giusto rapporto con gli altri … quanto veleno, quanta amarezza, quanta tristezza perché l’altro non è un compagno di strada ma è un concorrente, non è un compagno con cui abbracciarsi ma è un concorrente da tenere a distanza … e allora ecco le amarezze, le difficoltà, i problemi …

Come cambierebbe la vita se ritrovassimo il giusto rapporto con gli altri! diciamo che siamo un corpo solo, lo abbiamo ascoltato tante volte, ma anche qui ci manca la fede perché non crediamo davvero che siamo un corpo solo, che in Gesù siamo una realtà sola, che nel risorto siamo una carne sola … non lo crediamo … perché se lo credessimo vivremmo diversamente!

Ecco dunque che cos’è la giustizia in rapporto a Dio e in rapporto agli altri, che cos’è il giusto collocarci davanti a Dio e davanti agli altri, ed ecco perché questa giustizia è corazza, armatura che ci salva dalle insidie del nemico.

Gli atteggiamenti che dicono la nostra giustizia nei confronti del prossimo

San Paolo al capitolo 4 della lettera agli Efesini entra nel pratico e nel concreto per quanto riguarda la giustizia nei confronti del prossimo e noi ci lasciamo condurre da Paolo per osservare ed entrare dentro a 7 atteggiamenti che dicono la nostra giustizia o meno nei confronti del prossimo. Siamo al versetto 25 fino al versetto 32.

  1. “Dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perché”, lo sottolinea di nuovo, “siamo membra gli uni degli altri”. Quando la menzogna, la bugia, il dire e non dire, il sotterfugio caratterizzano le nostre relazioni non siamo nella giustizia, perché questo comportamento che cosa tradisce? la mancanza di consapevolezza che siamo un corpo solo, perché l’inganno sta a significare che l’altro non è parte di me ma io sono diffidente, non mi fido, mi devo difendere, anche quando si tratta di piccole cose … Dire la verità significa questo atteggiamento solare, limpido, che costruisce la vita comunitaria e aiuta a fare in modo che questo essere un corpo solo si cementi sempre di più e aiuta anche in quell’atteggiamento reciproco di fraterna correzione che è tanto prezioso nella nostra vita. Dire la verità ci mantiene nella giustizia, cioè ci conserva nella consapevolezza che siamo un corpo solo: quando la verità non è l’atteggiamento abituale della mia vita, della mia parola, del mio comportamento non sono nella giustizia, mi sono tolto la corazza e dunque sono debole, esposto alle insidie del diavolo.
  2. “Nell’ira non peccate, non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasione al diavolo”. Non siamo immuni dall’ira, se non proprio dall’ira in quanto vizio non siamo immuni dalle nostre rabbie, dai nostri nervosismi, dal nostro sentire gli altri come insopportabili e cattivi … l’ira non ci fa stare nella giustizia davanti a Dio ed è portatrice di una grande quantità di male nella nostra vita. Per questo Paolo avverte “non tramonti il sole sopra la vostra ira”: noi questa Parola la ascoltiamo spesso la sera, quando chiudiamo la giornata con la Compieta, ma quante volte abbiamo chiuso gli occhi dopo aver ascoltato questa Parola e avendo ugualmente conservato l’ira nel cuore, sentimenti di inimicizia, di antipatia, di rivalsa, di disagio verso gli altri … quante volte … eppure quella Parola l’avevamo ascoltata ma non ci ha minimamente toccato, minimamente …
    Non sempre, come dicevamo ieri sera, è facile dire al cuore “Taci!”, Gesù dice nel Vangelo al diavolo che insidia “Taci, esci da quest’uomo!” e dovremmo  sentire rivolta a noi questa parola e dirla a noi stessi facendo eco alla forza della parola di Gesù: “Adesso taci, basta, esci da me!” … ma non lo diciamo, perché ci sono volte nelle quali Proviamo gusto a rimanere dentro a quel modo di antipatia, ripulsa, disagio e diciamo “ho ragione io!”, ci rimaniamo dentro e troviamo tutti gli alibi, le motivazioni, le ragioni per dire “ho ragione io!” perché l’altro non mi ha capito, perché l’altro mi ha risposto male, perché l’altro ha un caratteraccio, perché l’altro aveva dei secondi fini, per quello che mi ha detto e che mi ha fatto, perché l’altro, l’altro, l’altro … e andiamo a dormire con le nostre ire e lasciamo che l’ira diventi un verme nel cuore capace di farlo ammalare …
    D’altronde Paolo dice proprio qui parlando dell’ira “non date occasione”, perché è un’occasione questa che noi diamo al diavolo, è un’occasione attraverso la quale il cuore viene turbato, il nostro sguardo diventa meno sereno sugli altri, vediamo tutto male, tutti ce l’hanno con noi, nessuno ci capisce, siamo le vittime della comunità … è un’occasione che diamo al diavolo quella dell’ira … Ecco perché non dobbiamo dare occasione, ritrovare la corazza della giustizia che ci difende, trovando un giusto rapporto con i fratelli.
  3. “Chi è avvezzo a rubare non rubi più anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani per farne parte a chi si trova nella necessità”. Qui Paolo mette in relazione il rubare con il lavoro onesto delle proprie mani come possiamo leggere questa indicazione riguardo a noi e alla nostra vita? In una comunità ciascuno deve dare se stesso con generosità, non tirarsi indietro, perché chi si tira indietro ruba! Sembra dirci questo l’apostolo: chi non si dona, chi non si lancia, chi non risponde “sì”, chi non va con generosità ruba … sì, ruba agli altri, ruba il tempo, ruba l’energia e le forze agli altri, perché gli altri si danno, ma io no … Potremmo mettere dentro questo lavoro onesto le nostre obbedienze o meno, perché quando non obbediamo rubiamo, sì, rubiamo agli altri … se mi viene chiesto di andare altrove per un ministero e non ci vado rubo agli altri, sono disonesto! Non c’è soltanto una dimensione personale di rapporto con Dio, ma c’è la dimensione comunitaria che viene ferita! Credo che dobbiamo entrare dentro di più in questa esortazione dell’apostolo per trovarne i riferimenti nella nostra vita quotidiana;d’altronde non è un caso che San Benedetto – padre del monachesimo ma anche della vita comune nella storia della spiritualità cristiana – abbia sempre considerato il lavoro insieme alla preghiera via alla santità, non soltanto a livello personale ma anche a livello di carità comunitaria.
  4. “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione giovando a quelli che ascoltano”.Dove la nostra parola edifica o la nostra parola distrugge, la nostra parola accarezza o la nostra parola schiaffeggia, la nostra parola è buona – come dice Paolo – o la nostra parola è cattiva? noi che ogni giorno ascoltiamo la parola di Dio la premia facciamo lectio divina Diciamo che desideriamo costruire la vita sulla Parola di Dio poi siamo parole cattive malore è vero che ascoltiamo la Parola di Dio la custodiamo nel cuore. La vita è una farsa un teatro perché si è vero che quella Parola abita in noi è giorno dopo giorno si fa carne nella nostra vita non è possibile poiché dal cuore che escano parole cattive e noi sappiamo che non sono soltanto le parole ad essere cattive Perché il nostro linguaggio è variegato c’è il silenzio cattivo, c’è lo sguardo cattivo, ce la farò la mezza tetta cattiva, c’è il sorrisino cattivo quando linguaggio cattivo e a fronte di quello possiamo dire che la parola e 100 della nostra vita che noi la parola la ascoltiamo che ci nutriamo della parola di Dio possiamo dirlo davvero riflettiamo sull’uso delle nostre parole e sul linguaggio della nostra vita.
  5. “Non vogliate rattristare lo Spirito di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione”… quando noi rattristiamo lo Spirito di Dio? quando la nostra vita non è portatrice di pace, perché lo Spirito è Spirito della pace. Che cosa dona il Signore risorto all’indomani della Resurrezione? “Pace a voi!” e dona lo Spirito, la pace del cuore e dello spirito. Quando la nostra presenza accanto agli altri e nella vita della comunità non è presenza di pace noi stiamo contestando lo Spirito che è in noi, quando la nostra presenza all’interno di una comunità non è motivo di concordia, non tende a stanare i motivi di discordia – anzi, li fomenta e gode nel fare in modo di fomentare la discordia – è mancanza di pace e lì noi contristiamo lo Spirito, che è Spirito della pace.
    Anche qui dovremmo domandarci se noi, che invochiamo lo Spirito Santo tante volte al giorno, lo invochiamo davvero o facciamo finta … e dovremmo domandarcelo quando ci accorgiamo che la nostra vita è sempre motivo di destabilizzazione nella vita di una comunità, è sempre motivo di mancanza di pace, è sempre motivo di discordia, gode nel portare ciò che rovina la convivenza comunitaria … C’è in noi a volte questo, lo viviamo … pensate a quando sentendo altri che parlano male di qualcuno godiamo nel farcene eco e nel sottolineare ciò che è male … questo è contristare lo Spirito, perché questo non è fare opera di pace!
  6. “Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità”. Questo spirito di amarezza, che poi trova espressione nelle forme che Paolo indica, sta al cuore di questa raccomandazione paolina. Che brutta presenza è colui che ha l’umore amaro, perché fa diventare amaro tutto! Questo è il problema, chi ha lo spirito di amarezza fa diventare amara qualunque cosa tocca, chi ha lo spirito di amarezza ha uno spirito di giudizio amaro su tutto, vede tutto negativo, sa scovare ciò che non va in ogni cosa … com’è triste la vita di chi nel rapporto con gli altri e con le cose continuamente giudica in modo bruciante, sdegnato, maligno! Ieri il Vangelo del giorno ci proponeva la parabola della zizzania: in quella parabola Gesù non parla semplicemente della zizzania, ma parla di colui che personifica la zizzania, chiama “figlio del maligno” colui che mette zizzania, è zizzania egli stesso! Noi tante volte siamo zizzania, cioè gente che rovina, perché la zizzania rovina un campo e noi roviniamo i rapporti roviniamo la comunità roviniamo con asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza, malignità, cioè con lo spirito di amarezza. Tutto questo non è giustizia nella nostra vita, cioè ci porta fuori dalla giusta collocazione nel rapporto con gli altri, non siamo più un unico corpo, non ci sentiamo più un unico corpo, non viviamo più come un unico corpo.

LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Mercoledì della XVII settimana, anni pari: Geremia 15,10.16-21; Matteo 13,44-46
Rimaniamo in ascolto della Parola del Signore certi che la provvidenza di Dio ci conduce anche attraverso le pagine che ascoltiamo durante le celebrazioni liturgiche, in particolare la Messa: in questi giorni nulla mai è a caso e dunque con questa fiducia ascoltiamo le parole che Dio ci rivolge anche così.

Il profeta Geremia vive una esperienza duplice: è profeta, dunque ha una relazione particolare e unica con la Parola che Dio gli rivolge, potremmo dire che quella Parola è tutto il significato della sua vita, perché essere profeta significa anzitutto rimanere investiti da quella Parola e poi farsene annunciatori instancabili. Questa è l’identità del profeta, eppure rispetto a questa Parola il profeta Geremia ha un’esperienza duplice: una prima esperienza è particolarmente gioiosa, gratificante, bella, Geremia rimane conquistato, sedotto da quella Parola che si è riversata nel suo cuore come motivo di grandissima felicità. In un secondo momento però questa Parola riserva al profeta un’esperienza diversa, perché diventa motivo di amarezza, di difficoltà, la vive con fatica, sia per quello che la Parola dice al suo cuore sia per quello che la Parola annunciata diventa per lui come conseguenza. Nell’esperienza di Geremia troviamo vissuta la Parola della Scrittura, la Parola di Dio è un’arma a doppio taglio, ciò di cui si parla anche nell’Apocalisse, dolce come il miele nel palato ma poi amara come qualcosa che scarnifica al cuore. La Parola di Dio è sempre questo: dolcissima e motivo di grande gioia, ma anche amara perché mette a nudo, è una Parola che riempie il cuore ma è anche una Parola che ferisce il cuore, che non potrebbe riempire il cuore se non ferendolo, cioè se non mettendo in evidenza ciò in cui il cuore ancora non è secondo Dio.

Dobbiamo domandare la grazia che l’ascolto quotidiano della Parola del Signore possa essere ciò che è stato per Geremia, ovvero motivo di grande gioia ma anche motivo per mettere in questione la vita, Parola che accarezza ma anche Parola che ferisce, Parola che riempie il cuore ma anche Parola che non lascia tranquillo il cuore. Soltanto così il nostro ascolto è vero, non è un ascolto di superficie, non è un ascolto falso, non è un ascolto che alla fine non tocca profondamente la vita. Entriamo nell’esperienza del profeta e chiediamo la grazia al Signore che l’ascolto della sua Parola possa riproporsi a noi come al profeta Geremia. Allora soltanto sarà vero che la Parola di Dio è il centro, il vertice della nostra vita, la bussola vera che indica il nostro cammino di ogni giorno.

Nella pagina del Vangelo Gesù racconta due brevissime parabole e con queste tende ad illustrare il mistero del Regno dei Cieli. C’è un uomo che visita un campo e in questo campo vede ciò che gli altri non vedono, un tesoro nascosto, e la stessa cosa fa il mercante, trova ciò che gli altri non trovano, una perla preziosa. In questo modo attraverso le parabole Gesù ci parla della fede e viene a ricordarci che la fede è uno sguardo nuovo capace di trovare, di scoprire l’invisibile agli occhi dei più, la fede è questo ingresso nell’invisibile, cioè questo ingresso nel mondo di Dio, questo ingresso nel tesoro nascosto che vede soltanto chi ha la fede, che trova soltanto chi ha la fede. Avere fede significa vivere dentro l’invisibile, vivere di fede significa vivere dentro ciò che è nascosto agli occhi umani, considerare reale non tanto quello che tocchiamo con le mani, ma quello che vediamo con lo sguardo che viene da Dio e che non si vede.

Dobbiamo domandarci se la nostra vita procede per fede e se l’invisibile agli occhi è per noi davvero più importante di quanto risulta visibile allo sguardo … e forse la risposta a questa domanda la troviamo là dove la parabola ci parla di questo uomo che vende tutto il campo, di quel mercante che vende tutto pur di avere il tesoro prezioso, pur di entrare in possesso della perla.

Noi siamo disponibili a dare tutto per l’invisibile? siamo pronti a vendere tutto per il mondo di Dio? Siamo disposti a perderci per abbracciare quel tesoro che gli altri non vedono, ma che noi abbiamo scoperto e consideriamo tale? Forse quando andiamo indietro con il ricordo e con la memoria ci incontriamo con quel tempo di vera e propria passione di amore quando per l’invisibile abbiamo donato tutto, abbiamo lasciato ogni cosa e lo abbiamo fatto per fede, ma possiamo dire che oggi è ancora così? quell’invisibile ha la stessa forza attrattiva che ha avuto un tempo? quel mondo di Dio ha la stessa capacità di conquista sul nostro cuore che ha avuto un giorno? quel mondo bello che non si vede con occhio umano è ancora il centro di tutta la nostra vita, dei nostri interessi, delle nostre attese, delle nostre speranze, dei nostri amori, delle nostre passioni? Noi viviamo per l’invisibile! apparteniamo a questi pazzi per il Regno a cui non interessa ciò che si vede! Questo è il mondo di Dio e questa è la fede! se noi non avessimo la fede che cosa stiamo a fare qui? noi qui viviamo un rapporto con l’invisibile, perché noi non tocchiamo un pezzo di pane ma tocchiamo il corpo del Signore, noi non ascoltiamo la parola umana ma ascoltiamo la Parola stessa di Dio! noi non ci incontriamo con dei segni vuoti ma con dei segni che ci mettono in comunicazione con la realtà operante del Signore adesso. Se non avessimo la fede saremmo dei pazzi e chi non ha la fede in effetti ci tratta da pazzi: ha senso radunarsi davanti a un pezzo di pane e a un calice pieno di vino? ha senso per tutto questo dare la vita? Allora siamo conseguenti, viviamo davvero per l’invisibile, diamo tutto per l’invisibile, facciamo in modo che la vita sia tutta nel mondo di Dio, viviamo per il mondo di Dio, abbandoniamo tutto per il mondo di Dio! Domandiamo allora questa grazia al Signore, che davvero tutto sia per il Regno e il nostro pensare, il nostro scegliere il nostro comportarci, il nostro vivere sia veramente per fede in quell’invisibile tesoro che è tutto il senso della nostra vita!

SECONDA MEDITAZIONE
Qualche pensiero sparso facendo riferimento a qualcosa che già dicevamo questa mattina: ascoltando il profeta Geremia (15,10.16-21) durante la Messa abbiamo ricordato come sia importante che la nostra esperienza della Parola di Dio allo stesso tempo possa essere dolce, beatificante per il cuore, ma anche difficile, amara per il nostro cuore. Dicevamo che è soltanto così che l’ascolto della Parola che il Signore ci rivolge è un ascolto autentico, perché è la prova e la riprova che non stiamo addomesticando la Parola di Dio: se invece non ci graffia più, se non ci propone mete alte, se non mette in discussione la nostra vita vuol dire che l’abbiamo addomesticata, cioè l’abbiamo resa simile a noi, è diventata uno specchio della nostra vita, l’abbiamo privata delle sue altezze, l’abbiamo – in altri termini – resa partecipe della nostra mediocrità! Facciamo allora bene attenzione al riscontro che la Parola di Dio ha nel cuore e che questo riscontro possa essere sempre di dolcezza e amarezza insieme; quando sarà così avremo la prova che davvero stiamo ascoltando Dio che ci parla.

Durante la Messa abbiamo avuto modo di sostare sulla pagina del Vangelo ascoltando le due parabole del Regno dei Cieli. Dicevamo di come la fede sia esattamente uno sguardo fisso sull’invisibile che diventa l’orizzonte abituale della vita. Pensiamo a ciò che hanno vissuto gli apostoli negli anni con Gesù, nelle loro fatiche, nella loro povertà, però anche nella prontezza ad abbandonare tutto per seguirlo e stare con Lui. Poi negli attimi immediatamente successivi alla morte del Signore che cosa fanno gli apostoli? Tornano alla pesca, alle reti, al lavoro di un tempo: in quel momento il Signore è morto, non c’è più, dunque tornano alle cose abituali che avevano caratterizzato prima la loro vita. Anche noi, a volte, pur credendo che Gesù è risorto rischiamo di vivere come hanno vissuto gli apostoli in quei giorni, cioè tornando alle cose di prima, tornando alle cose che avevano caratterizzato prima la nostra vita. Anche noi rischiamo di credere che Gesù è risorto in modo tale che Gesù non sembra risorto, perché viviamo come hanno vissuto gli apostoli in quei giorni, cioè tornando alle cose di prima, tornando all’ordinarietà, tornando a quella quotidianità che diventa il tutto … e Gesù non c’è più! La fede è vivere in relazione a Cristo risorto che non vediamo, ma che pure è vivo! Noi abbiamo dato la vita per Lui, continuiamo a dare la vita per Lui e viviamo in relazione a Lui, questa è la fede! Facciamo in modo che la nostra vita di fede non sia un non credere!

Ancora un atteggiamento che dice la nostra giustizia nei confronti del prossimo
Questa mattina ci siamo soffermati su sei atteggiamenti che Paolo indica come importanti per rivestire la corazza della giustizia: ci resta da prendere in considerazione il settimo, coltivare la benevolenza. Ecco che cosa scrive Paolo in quel capitolo 4 della stessa lettera agli Efesini a cui abbiamo fatto riferimento: “Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo”. Ecco la benevolenza, cioè avere nei confronti del prossimo questo atteggiamento buono, benevolo, che sa comunicare il bene che noi vogliamo, la volontà con cui lo stiamo guardando, l’amore con cui ci relazioniamo.

C’è un bel racconto nei Padri del deserto: un giovane monaco un giorno si recò da un anziano saggio portando con sé un grosso peso. L’anziano lo accolse nella sua cella e gli domandò: “Vedo che sei cupo in volto. Che cosa ti succede?”. Il giovane monaco aprì il cuore all’anziano e gli disse: “E’ vero, ho un grosso peso sul cuore, perché c’è un fratello con il quale non riesco a relazionarmi. Le parole che escono dalla sua bocca sono sempre parole amare; non rivolge mai un sorriso, non dice mai una parola buona. Insomma, non riesco a trovare il modo per entrare in relazione con questo mio fratello”. Allora l’anziano, dopo aver ascoltato il giovane, gli disse “capisco il tuo problema …” e gli raccontò questa storia: “C’era un vecchio che per tutta la vita non era riuscito a trovare la via, a trovare se stesso, a incontrarsi con i motivi della gioia e della pace, e attraversava la sua vecchiaia con grande amarezza. Stava davanti alla sua capanna e le persone che passavano vicino a lui, pensando che a motivo dell’età fosse saggio, si fermavano e chiedevano consigli. Passarono dei giovani e gli chiesero ‘Tu che sei anziano, dicci qual è il segreto della felicità!’ e il vecchio rispose ‘Non cercate la felicità, non esiste!”. Poi passarono altri più avanti negli anni e gli chiesero ‘Tu che hai vissuto a lungo, dicci una parola buona!’ e ancora il vecchio disse ‘Non ho da dirvi nessuna parola buona, perché non esistono parole buone che possono aiutare gli uomini!’. E così rispose a diverse categorie di persone, tanto che si diffuse la voce che quest’uomo seminava ovunque soltanto amarezza intorno a sé. Allora lo vide Dio e gli mandò un bambino, che passando accanto al vecchio non gli domandò nulla, gli si fece vicino e con suo grande stupore lo abbracciò e lo baciò. Era la prima volta nella vita che gli era capitata un’esperienza simile: di essere, senza motivo, con assoluta gratuità, abbracciato e baciato. E fu lì che il cuore si aprì e che cambiò!”. Il monaco concluse: “Tu fai lo stesso. Fai capire a questo tuo fratello che lo ami, dagli dei segni gratuiti, guardalo con benevolenza, vedrai che il suo cuore cambierà”.

Questo racconto dei Padri del deserto ci aiuta ad interrogarci su quante volte diciamo a coloro che ci vivono a fianco “Ti voglio bene” con gratuità; quante volte lo diciamo con la parola – perché anche le parole hanno il loro peso – e quante volte lo diciamo con i gesti, con le attenzioni. Dire all’altro “tu sei importante, tu vali ai miei occhi, io ti voglio bene” è un modo per farlo fiorire! Noi sappiamo che è così per esperienza personale, perché abbiamo tante volte sperimentato questo: chi ci ha amato, chi ci ha voluto bene e lo ha fatto con le parole e con i gesti ci ha fatto fiorire, ci ha aiutato a vivere. A volte è bastata una piccola cosa per recuperare la pace e la gioia nel cuore. Perché non ci trasmettiamo di più a vicenda questa benevolenza che fa fiorire la vita? Il fratello, la sorella non cambierà perché l’abbiamo ripresa o rimproverata o perché ne abbiamo sottolineato un difetto, ma cambierà perché l’abbiamo amata, perché l’abbiamo fatta sentire importante ai nostri occhi, perché ha capito di essere benvoluta, perché ha capito che la sua vita è importante!

Concludo questa pagina sull’armatura e sul giusto rapporto davanti agli altri citando un fatto della vita del Cardinale Canestri, l’Arcivescovo che gli mi ha ordinato e a cui mi lega una grande affetto. Mi raccontava che quando divenne Vescovo andò in udienza da colui che l’aveva ordinato Vescovo, il Cardinale Traglia, e gli chiese un consiglio per il suo episcopato. Il Cardinale gli rispose in modo molto semplice: “Sii buono e non sbaglierai mai!”. Gli aveva dato con parole semplici l’armatura, la corazza della giustizia: quando si è buoni, cioè si vive nella carità, non si sbaglia mai, perché le insidie del diavolo non possono insinuarsi nel cuore. Sii buono e non sbaglierai mai!

“Avendo come calzatura ai piedi lo zelo”
E’ venuto il momento di fare un passo in avanti e di ascoltare Paolo che ci presenta una terza parte dell’armatura con queste parole: “avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il Vangelo della pace”.

Ecco la terza arma che ci viene consegnata perché possiamo combattere vittoriosamente nella lotta contro le insidie del diavolo. Che cosa significa questa frase, che immediatamente può apparirci un po’ misteriosa? Anzitutto troviamo un’espressione che è abbastanza facile incontrare nella Scrittura: “Calzati i piedi”. Le calzature ai piedi sono un’espressione che richiama quella dei fianchi cinti, e come quell’espressione indica la prontezza a mettersi in cammino, perché i calzari all’epoca si indossavano proprio quando bisognava intraprendere un viaggio lungo. “Calzare i piedi” ci vuole mettere in situazione di prontezza per intraprendere una strada lunga, difficile, faticosa, importante, in altri termini ci mette in allerta perché ci attende una missione.

Allora la domanda immediatamente successiva è: “Qual è la missione che ci attende, per la quale dobbiamo essere pronti?”. E aggiunge Paolo “pronti con zelo”. Le parole che Paolo usa per delineare la missione che ci attende e per la quale servono prontezza e zelo sono desunte dall’Antico Testamento: andiamo perciò alla ricerca di alcuni passi in qualche modo paralleli dell’Antico Testamento per capire meglio di che missione si tratta.

  • Isaia 52, 7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci, colui che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio!”. Qui si parla di sentinelle che alzano la voce e gridano di gioia perché vedono con i loro occhi il ritorno del Signore nella Città Santa, in Sion.Sono dunque le sentinelle che gridano con gioia qualcosa che vedono, il ritorno di Dio. In seguito, sempre in Isaia, si descrive questo ritorno così: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli. Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio. Purificatevi voi che portate gli arredi del Signore. Voi non dovete uscire in fretta, né andare come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il Signore, il Dio d’Israele chiude la vostra carovana”. Qual è allora il contesto? Israele deportato è in Siria, è ancora in esilio, ma ad un certo momento riceve la notizia che finalmente può partire per tornare nella sua terra. Allora si forma una grande carovana e la carovana ha un particolare: è guidata da Dio ma è anche chiusa dalla sua stessa presenza perché Dio protegge il popolo sia nell’avanguardia che nella retroguardia. Il popolo procede come in processione, cioè non di fretta come qualcuno che scappi, come qualcuno che ha paura, ma con solennità perché porta gli arredi di Dio, quelli che aveva portato con sé da Gerusalemme a Babilonia e che ora riporta a Gerusalemme per reintrodurli nel tempio. E questa carovana così solenne – che porta le cose di Dio e che è guidata e protetta da Dio – è preceduta da alcuni messaggeri che gridano: “Lo abbiamo visto!” e gridano di gioia alla vista di questa processione di un popolo che solennemente rientra nella propria terra! Le parole di Paolo dunque sono prese anche da questo passaggio del profeta Isaia, dove queste sentinelle che gridano di gioia parlano di un annuncio di pace: noi sappiamo che la pace messianica di cui ci parla il profeta è quella che contiene in sé tutti i beni che Dio vuole consegnare al suo popolo, i beni della salvezza. Che cos’è allora, considerando in parallelo questo brano di Isaia, il Vangelo di pace di cui ci parla Paolo? E’ il Vangelo della salvezza, cioè quella notizia che trasmette al mondo che Dio ci ha comunicato se stesso e tutti i suoi beni; è la pace, la pace di Dio che è donata ad ogni uomo, al cuore di ogni uomo!
  • Isaia 40: qui siamo in un nuovo esodo, quello da Babilonia verso la Terra Promessa, ed ecco le parole del Profeta: “Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù. Una voce grida: ‘Preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio!’. Sali sul monte, tu che evangelizzi, tu che rechi liete notizie a Sion! Alza la voce con forza, tu che porti liete notizie in Gerusalemme!”.Anche qui c’è un evangelizzatore che porta notizie di consolazione.
  • Naum 2,1: probabilmente Naum a sua volta fa riferimento a questi brani di Isaia e dice: “Ecco sui monti i passi di un messaggero, di un araldo di pace. Il Signore restaura la vigna di Giacobbe come la vigna di Israele. I briganti l’avevano depredata e ne avevano strappati i tralci”. Anche qui si parla di una missione, di un araldo, di un messaggero che porta la pace.

Da questi tre brani letti in parallelo con la pagina di Efesini noi possiamo capire che cosa allora Paolo intende con questo Vangelo di pace: è la missione evangelizzatrice, è l’annuncio della salvezza in Dio, è il grido che comunica a tutti che finalmente la pace è entrata nel mondo con la venuta di Cristo Signore! Usando le parole di Papa Francesco potremmo dire che è l’annuncio della gioia!

Ciò che è importante sottolineare è che per Paolo quando si parla di pace – lo dice altrove nella stessa lettera agli Efesini nel capitolo 2 – si parla sempre di Gesù, perché la pace è Gesù! Non si parla in astratto di pace, di riconciliazione, di gioia, se ne parla sempre personalizzando perché Gesù è la nostra pace, Gesù è la nostra riconciliazione, Gesù è la nostra gioia! Allora quando Paolo dice di portare con zelo il Vangelo della pace, dice di portare con zelo Gesù che è la pace, Gesù che è la riconciliazione. Per Paolo evangelizzare non è parlare di cose, per Paolo evangelizzare è parlare di Gesù, è testimoniare Gesù, è proclamare Gesù e gridare Gesù, portatore della riconciliazione, della pace e della gioia! E’ lui che ha abbattuto il muro di separazione e nella lettera agli Efesini Paolo parla proprio di questo, di un muro che separava: Gesù infrange, fa crollare il muro di separazione. Allora questa Parola dell’apostolo Paolo letta in parallelo con altri brani della Scrittura ci aiuta a capirne il contenuto e la portata. Dobbiamo pensare che Paolo dica agli Efesini: “Testimoniate Gesù con zelo, parlate di Gesù con zelo, annunciate Gesù, nostra pace, con zelo” e questo sarà corazza, armatura, arma nel combattimento spirituale, perché annunciare così fa bene all’annunciatore, testimoniare fa bene al testimone, parlare di Gesù fa bene a chi ne parla! Quante volte abbiamo sperimentato nella vita questa verità, cioè che quando abbiamo dato testimonianza al Signore con le nostre parole e con la testimonianza della vita, prima che il beneficio sia legato agli altri noi abbiamo ricevuto un beneficio! La fede – è stato detto – aumenta nella misura in cui la si annuncia e la si testimonia, ecco perché Paolo ci propone questo annuncio e questa testimonianza come armatura nel combattimento spirituale. Sappiamo che è così, perché una fede non annunciata, un Vangelo non proclamato, una vita che non si spende nella testimonianza è una vita che si spegne spiritualmente, è una fede che si raffredda spiritualmente, è un Vangelo che non si vive più con slancio e con zelo. E’ così! O ci spendiamo nell’annuncio o ci spegniamo nella fede.

Parlando di questo zelo che deve accompagnare il propagare il Vangelo della pace oggi Paolo viene a dirci: “Basta essere troppo ripiegati su voi stessi, basta considerare sempre i vostri problemi, basta essere troppo presi dalle vostre strutture, dalle vostre cose! Andate ad annunciare, testimoniate Gesù e troverete soluzione per i vostri problemi, per le vostre fatiche, per quello che non riuscite a risolvere, per le difficoltà della vita … annunciate e sarete salvi! Forse è per questo che il diavolo vuole che ci impantaniamo nei nostri problemi interni, questa è la vera e propria insidia del demonio, perché non vuole che noi siamo protesi fuori ad annunciare il Vangelo, non vuole perché sa che essere protesi nell’annuncio del Vangelo ci guarisce dei nostri malanni e ci fa crescere nell’amore di Dio e nella sua appartenenza. E allora, quando vede che siamo tutti concentrati sulle nostre povere cose e ci dimentichiamo di annunciare e testimoniare, fa di tutto perché possiamo rimanere imbrigliati nei nostri problemi interni, nelle nostre piccole cose di ogni giorno. Non si tratta di risolvere i problemi nostri e poi di annunciare, ma si tratta di annunciare per così vedere risolti i problemi nostri! E’ sempre la logica del Vangelo che scardina le nostre logiche umane: Gesù è la nostra pace e noi siamo chiamati a essere testimoni nel mondo di Gesù nostra pace, cioè colui che rimettendo ordine e armonia tra noi e Dio ha messo anche ordine armonia tra noi e gli altri.

Che cosa vuol dire dare testimonianza di Gesù nostra pace? Scendiamo anche in questo caso nel concreto della nostra vita quotidiana, anzitutto della nostra vita fraterna.

  • Noi siamo chiamati ad annunciare il Vangelo della pace con la nostra vita di pace, con la nostra fraternità. Noi siamo chiamati ad annunciare Gesù riconciliazione e lo facciamo nella misura in cui viviamo quotidianamente questa riconciliazione nei rapporti fraterni: riconciliazione vuol dire ricomposizione di qualcosa che era separato, mettere fine a ciò che ci divide e dunque vivere quotidianamente nella pienezza dei rapporti di ogni giorno la realtà del perdono, perché la pace e la riconciliazione sono anzitutto il perdono. Gesù è il perdono di Dio per noi e noi annunciamo Gesù nostra pace se viviamo la realtà del perdono, di un perdono che raggiunge le 70 volte 7, cioè non si stanca mai di essere donato e di essere offerto. Qual è dunque la realtà del perdono e della misericordia nella nostra vita fraterna? Se le inimicizie permangono, se coltiviamo nel cuore pensieri di ostilità, se i sentimenti di distanza e di separazione albergano nella nostra vita, come possiamo dare testimonianza di Gesù nostra pace, pace del mondo, pace del cuore, pace donata da Dio all’umanità? Proviamo allora nella nostra riflessione personale a metterci davanti a Gesù nostra pace e a considerare che cosa in questo momento della mia vita contraddice Gesù pace nei miei sentimenti, nei miei pensieri, nei miei comportamenti, nei miei gesti, nelle mie scelte. Che cosa contraddice Gesù pace, ora, adesso?
  • La gioia fraterna è la gioia del vivere insieme, che poi è frutto della gioia interiore. Noi dobbiamo annunziare Gesù nostra gioia, perché pace e gioia vanno sempre a braccetto. Ma come testimoniare Gesù nostra gioia se poi sul nostro volto la gioia non c’è, se dal nostro cuore la gioia non trabocca, se dalle nostre labbra la gioia non esce, se la gioia è distante da noi? Testimoniare Gesù nostra pace significa affermare che Gesù è la nostra pace al di là delle discordie e dei problemi umani, testimoniare Gesù nostra gioia significa testimoniare che Gesù è la nostra gioiaa dispetto di tutto quello che nella vita può attentare alla gioia, perché con Gesù la gioia vince nella nostra vita e nel nostro cuore! Tanto la pace e la gioia che promanano da noi sanno dare testimonianza di Gesù, quanto al contrario la mancanza di pace e di gioia sono scandalo per il mondo, cioè ostacolo, pietra di inciampo, contro-testimonianza! Noi – giustamente – ci interroghiamo su come portare il Signore, su come evangelizzare, quali nuove strade intraprendere per parlare al mondo di oggi, ma poi dimentichiamo la prima forma della testimonianza, senza la quale tutte le altre sono un buco nell’acqua, perché altrimenti parlare di Gesù è “come un cembalo che tintinna”, è una campana stonata che non dice nulla, anzi, forse è meglio che non dica …
  • Un giorno San Francesco incontrò fra’ Ginepro, un fratello molto semplice e molto modesto, e gli disse: “Ginepro, oggi voglio andare con te per Assisi a predicare il Vangelo”. Ginepro rimase sconcertato e disse a Francesco: “Io non so parlare, sono ignorante, tu mi conosci bene, perché mi porti a predicare alla città di Assisi? Non sono capace!”. Ma Francesco con bonarietà disse: “Non preoccuparti, Ginepro! Vieni, andiamo insieme, andiamo, passiamo insieme questa giornata ad Assisi”. Andarono ad Assisi e passarono il giorno ad incontrare la gente, accarezzando i bambini, dicendo una buona parola, mettendo pace dove trovavano qualche discordia, passando da una via all’altra con allegria, pregando nel segreto del cuore per coloro che incontravano. Così la giornata arrivò al termine e Francesco disse a Ginepro: “Adesso possiamo tornare al nostro convento”. E Ginepro fu sorpreso e disse a Francesco: “Questa mattina mi avevi detto che saremmo venuti ad Assisi per predicare; io non ho visto che abbiamo predicato …”. E Francesco con bonarietà gli disse: “Ginepro, abbiamo predicato, abbiamo predicato … !”.
  • La testimonianza della vita, la gioia e la pace che sappiamo trasmettere la trasmettiamo non perché con un atto di volontà ci imponiamo di essere annunciatori di gioia e di pace, ma nella misura in cui Gesù che è la pace e la gioia abita nei nostri cuori. Non c’è bisogno di dirsi evangelizzatori, lo si è nella misura in cui Gesù è nel nostro cuore: penso a tante persone semplici, magari anziani; vado anche indietro con la memoria e ho negli occhi persone che con grande semplicità hanno vissuto la loro fede; non sapevano di essere testimoni, forse neppure conoscevano la parola “testimonianza”, eppure parlavano di Gesù molto più di noi con la loro vita, con la pace del cuore, con la gioia negli occhi, con la bellezza di una fede vissuta nella quotidianità; non c’è bisogno di sapere tante parole, di riempirsi la bocca con “testimonianza, annuncio ,evangelizzazione”, sapere chissà quali strategie per entrare nel mondo di oggi. Ce n’è solo una ed è sempre la stessa: il resto può venire, sarà una conseguenza. E’ Gesù nel cuore che trabocca attraverso ciò che siamo e quello che viviamo. Altrimenti è tutto inutile! San Francesco di Sales scrive così a proposito della testimonianza e dell’evangelizzazione: “Non parlare di Dio a chi non te lo chiede, ma vivi in modo tale che prima o poi te lo chieda”. Questa è la testimonianza, questo è l’annuncio del Vangelo!

Vogliamo aggiungere una piccola grande cosa alla quale non sempre pensiamo … perché? Per un motivo semplice: perché non abbiamo fede o ne abbiamo poca … Paolo, in un testo della lettera agli Efesini che precede quello che costituisce la nostra meditazione di questi giorni, dice che Gesù è nostra pace per mezzo della sua carne, cioè attraverso l’offerta della sua vita. Allora Gesù porta la pace, annunzia la pace, dona la salvezza con l’offerta della sua vita, attraverso la sua carne, la sua carne ferita, la sua carne piagata, la sua carne macchiata di sangue. Questo ci porta a dire che l’annuncio del Vangelo della pace, la testimonianza della salvezza, l’evangelizzazione ha una sua via privilegiata attraverso l’offerta della nostra vita. Quando la nostra carne è piagata, quando la nostra carne è ferita, quando la nostra carne è insanguinata noi siamo al cuore della trasmissione della salvezza; quando possiamo nel calice di Gesù mettere una goccia del nostro sangue, lì siamo al centro della missione evangelizzatrice, e noi sappiamo quali sono queste gocce del nostro sangue, perché non necessariamente ci sono gocce di sangue davvero versato, ma ci può essere un cuore sanguinante, ferito, addolorato, oppresso, affaticato e se noi quella goccia di sangue la mettiamo nel calice di Gesù siamo araldi del Vangelo della pace, araldi del Vangelo della salvezza, protagonisti nella storia di Dio con gli uomini! Nello stesso modo – non dimentichiamolo, sia per considerare con fede la nostra vita, sia per guardare con religiosa ammirazione la vita degli altri – chi porta la sofferenza, la malattia, il disagio nella propria carne forse è il primo degli evangelizzatori, forse è il primo che testimonia la salvezza, forse è primo nella dinamica della trasmissione della pace e della gioia di Dio nel mondo. Questo è importante, perché altrimenti qual è la nostra fede? Questo è importante per noi, perché è già venuto o forse verrà un giorno in cui il cuore sanguinerà, la carne sanguinerà e allora quella sarà la modalità che il Signore avrà previsto per noi, perché ci associamo alla sua opera di salvezza! Noi viviamo accanto a fratelli e sorelle la cui carne  sanguina, il cui cuore sanguina, dobbiamo guardarli con religiosa fede e ammirazione perché sono dentro il calice di Gesù, sono sangue di Gesù versato per la salvezza del mondo e dobbiamo imparare da loro che cosa significa testimoniare ed evangelizzare. Guai a sentirli come inutili, come un peso per la nostra missione! Sono il cuore della nostra missione, il motore della nostra missione, senza di loro non c’è il sangue versato di Gesù per la vita del mondo, o meglio, non può raggiungere questo mondo. Impariamo allora a vivere con fede l’offerta quotidiana della vita! E’ così bello partecipare alla Messa, vivere la Messa portando le stille di sangue della nostra vita e potendole mettere lì, nel sangue di Gesù, sapendo che lì siamo al centro del mondo, al cuore della storia. Come cambiano le nostre giornate se è così! Non c’è più motivo di ripiegamento, c’è soltanto ragione di dono, e la vita cambia!

Quello che Paolo ci ha detto e le riflessioni con cui abbiamo cercato di approfondire ci ricordano che l’opera del Vangelo – ovvero l’annuncio della gioia, della pace, della salvezza – è qualcosa che anzitutto si realizza nei rapporti personali. Guai se dovessimo pensare l’annuncio del Vangelo solo come qualcosa legato a delle attività, delle iniziative, a delle novità strane che ci inventiamo! Il punto di partenza è quel “tu a tu” dove si incontrano i cuori e dove si trasmette da cuore a cuore la novità di Gesù, la buona notizia di Gesù, pace, gioia e salvezza della vita. Mi pare che dobbiamo dare più tempo a questa dimensione personale dell’annuncio del Vangelo, perché noi ci perdiamo – un po’ dobbiamo farlo, ma forse lo facciamo troppo – in riunioni, incontri per progettare, programmare, fare, ma perdiamo di vista che c’è una prima via dell’annuncio, che è quella “cuore a cuore”, nella quale dobbiamo sprecare il tempo, perché l’annuncio di Gesù pace-gioia- salvezza è quello che avviene quando incontro qualcuno per strada, è quello che avviene quando saluto qualcuno col sorriso sulle labbra, è quello che avviene quando mi fermo per dare il mio tempo a chi ne ha bisogno ed è questo che ci manca, quel “tu a tu” con cui il Vangelo ha iniziato la sua corsa agli inizi della vicenda cristiana, perché è stato un “tu a tu”! E ogni grande evangelizzazione nella storia della salvezza è stato un “tu a tu”, che è passato attraverso un rinnovamento personale grande di santità! Questa è la via, le altre sono secondarie; questa è la via primaria, se perdiamo di vista questa via perdiamo di vista che cos’è l’annuncio del Vangelo.

Concludiamo con due episodi raccontati nella vita di San Francesco Saverio. Francesco era stato inviato da Ignazio nelle Indie, improvvisamente, da un giorno all’altro. Francesco era partito, sapeva che non sarebbe più tornato a casa, non avrebbe più rivisto il suo amato Padre Ignazio, non avrebbe più rivisto i suoi amati fratelli della Compagnia, partiva per morire in terra sconosciuta, lo sapeva, e partì. Quando ci incontriamo con queste figure noi ci vergogniamo, perché ci domandiamo: “Noi che cosa siamo disposti a fare per annunciare il Vangelo?”. Mentre Francesco navigava non perdeva occasione per annunciare Gesù, perché per lui l’attraversare il mare era un’occasione per avvicinare i marinai e l’equipaggio, non era soltanto proteso verso le Indie, perché era tutto araldo del Vangelo! La sua vita è stata missionaria non soltanto perché andato nelle Indie ad annunciare, ma perché portava nel cuore una fiamma mai sopita di testimonianza di Gesù: qualunque cosa facesse, testimoniava Gesù! Questo lo fa grande missionario, il più grande missionario della storia: e mentre navigava, durante la traversata difficile e faticosa – dove il tempo era cattivo, il mare agitato, l’equipaggio impaurito – Francesco si donava senza riserve per andare dall’uno e dall’altro, per confortare, aiutare, sostenere, confessare. Ad un certo punto era sfinito, e un compagno di viaggio gli disse: “Francesco, non so se usciremo da questa situazione complicata, forse sì o forse no, però tu non ne uscirai, a meno che tu non diventi un po’ più ragionevole e la smetti di comportarti con l’equipaggio e con la gente che è a bordo come se tu fossi il padre e la madre di tutti”. E Francesco con quel poco fiato che aveva rispose all’amico: “Un prete è esattamente questo!”. E detto questo svenne. Ecco, lo zelo di cui ci parla Paolo per propagare il Vangelo é questo: essere padre e madre di tutti, cioè desiderare che la vita germogli in tutti, non avere incontro che non porti nel cuore questa sete di comunicare vita, cioè la vita di Dio! Questo significa annunciare il Vangelo della pace!

Per tornare indietro nella vita di Francesco Saverio, proprio nel momento in cui Ignazio gli disse di partire gli rivolse una parola di cui Francesco forse non aveva bisogno, ma che certamente gli mise ulteriormente nel cuore quella ragione che avrebbe caratterizzato poi tutta la vita: Ignazio, dopo avergli indicato la terra della sua missione, gli disse: “Va’ e infiamma ogni cosa!”. Questo è l’evangelizzatore: uno che va e infiamma tutto perché è infiammato; appicca il fuoco ovunque perché il fuoco se lo porta dentro e questo fuoco è Gesù, vivo, amore della sua vita!

LITURGIA DELLE ORE – COMPIETA
Dalle consolazioni di Dio al Dio di ogni consolazione
Proseguiamo il nostro cammino serale sul tema della preghiera alla scuola di Sant’Ignazio, che ci offre alcune regole molto semplici e molto chiare: con esse ci è possibile portare avanti il nostro combattimento anche su questo fronte della vita spirituale e così respingere le insidie del nemico, che vuole in tutti i modi distogliere la nostra attenzione e il nostro amore dalla preghiera proprio perché con la preghiera andiamo al cuore della nostra vita con Dio e alla sorgente della nostra vita di fede.

Questa sera consideriamo insieme a Sant’Ignazio una condizione che è frequente nella nostra storia di preghiera e che Ignazio definisce desolazione spirituale. In effetti, lo sappiamo anche per esperienza personale, non c’è una vita di preghiera autentica che prima o poi, per periodi brevi o a volte anche lunghi, non passi attraverso questa esperienza, che è una vera e propria prova per la nostra vita di preghiera. Ecco come Sant’Ignazio definisce la desolazione spirituale nella quarta regola degli Esercizi: “Chiamo desolazione spirituale l’oscuramento dell’anima, turbamento interno, movimento per cose infime e terrene, inquietudine di varie agitazioni e tentazioni che muovono a diffidenza, senza speranza, senza amore, quando l’anima si sente tutta tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore”. Di che cosa si tratta? Soffermiamoci un momento su questa regola di Sant’Ignazio: l’anima è come accecata, vive in un’oscurità per cui non sa più dove andare, si domanda in qualche modo “ma che cosa sto facendo? perché faccio questo? perché andare ancora avanti in questa preghiera arida che non mi dà nulla? che cosa ottengo e che cosa me ne viene?”. L’anima dunque è turbata, turbata da una situazione che appare oscura, tenebrosa e in questa oscurità turbata sono anche desideri vari, desideri a volte sensuali, fantasie che ci portano lontano da Dio, bisogni che sorgono repentinamente, siamo cioè sballottati all’interno di questa inquietudine oscura, siamo turbati, siamo nel buio e siamo sballottati dalle nostre fantasie dai nostri pensieri che tentano di portarci lontano dal Signore. E allora c’è una diffidenza di fondo, quella di cui parla Ignazio, una diffidenza anche non detta verso Dio: “dove sei? perché non ti fai vedere? perché non ti fai sentire? perché rimani muto, distante da me?”. È una diffidenza anche verso se stessi, cioè verso le proprie capacità di preghiera, verso le difficoltà che appaiono insormontabili:” non concludo nulla, mi sembra inutile pregare, perché pregare?”. Lo stato di desolazione – turbamento, oscurità, sballottamento … – ci porta a questo stato di diffidenza profonda, che riguarda l’amore di Dio e la sua presenza nella nostra vita ma riguarda anche noi stessi e le nostre possibilità di avere realmente una vita di preghiera e di relazione col Signore. “Così – va avanti Sant’Ignazio – l’anima è senza speranza, cioè sembra che non ci sia via d’uscita, l’anima è senza amore, cioè non si prova sensibilmente nulla, Dio è indifferente, lontano ci assale il pensiero: ma davvero Dio ha che fare con me, davvero Dio mi ama, davvero Dio è vicino? E ancora – dice Ignazio – non soltanto è senza speranza e senza amore, ma l’anima è anche tutta pigra, cioè incapace di fare alcuno sforzo, tiepida, senza gusto, triste, trascinata, c’è come una sorta di muro tra noi e Dio, la sequela non appare più come qualcosa di bello, ma come qualcosa di assolutamente faticoso, difficile”. Certamente abbiamo tutti incontrato questa esperienza nella vita dei Santi, tra gli altri nella vicenda di Santa Teresa di Gesù Bambino, quando negli ultimi tempi della vita è entrata dentro questa grande prova della desolazione spirituale: forse anche noi, perlomeno per brevi tratti, siamo entrati dentro questo tunnel, così faticoso da attraversare, così difficile da vivere, eppure soltanto attraverso questo travaglio interiore la vita di preghiera matura e diventa una preghiera vera. Non c’è una preghiera autentica che non passi attraverso questa oscurità, questa fatica, questa prova per l’anima di essere senza speranza, senza amore, tutta pigra, nell’oscurità e turbata, sballottata di qua e di là dalle fantasie e dai pensieri. Perché sappiamo che se la preghiera agli inizi è un’avventura spirituale gioiosa e gustosa, cammin facendo questa gioia e questo gusto sembrano venire meno, non necessariamente per causa nostra, ma perché è il Signore che permette che noi passiamo attraverso questa esperienza perché la preghiera sia qualcosa di vero, cioè non l’incontro con noi stessi ma l’incontro con il Dio vero, non la ricerca della nostra gratificazione ma un’estasi di amore, non l’ascolto del nostro pensiero ma un autentico ascolto di Dio, insomma, una purificazione che ci permette di fare della preghiera una preghiera autentica. San Francesco di Sales sintetizza ciò che opera in noi la desolazione con questa frase: “Dobbiamo passare dalle consolazioni di Dio al Dio di ogni consolazione” e questo passaggio non c’è se non entriamo dentro l’esperienza della desolazione spirituale, lì dove non cerchiamo più Dio per le consolazioni che ne derivano e per i gusti che ne abbiamo, ma lo cerchiamo perché cerchiamo Lui solo, non c’è altro motivo perché gli altri motivi non sussistono, il Signore ci ha spogliato delle altre ragioni, delle altre finalità, dei secondi fini, e allora siamo lì davanti a Dio perché cerchiamo Lui solo: questa è la preghiera autentica, ma vi si arriva soltanto se passiamo attraverso la prova della desolazione. Proprio perché la desolazione dunque è una prova importante, ma necessaria, Ignazio ci lascia alcuni suggerimenti per viverla con frutto: egli è infatti consapevole del fatto che – come tutte le prove – anche la prova della preghiera è pericolosa, perché da una parte può aprire la strada per un cammino autentico, profondo e intenso di preghiera, ma dall’altra potrebbe anche causare un abbandono, un raffreddamento del rapporto con Dio; per questo Sant’Ignazio dà alcuni suggerimenti perché il passaggio attraverso la desolazione sia un passaggio di grazia e non di perdizione.

  1. “Nel tempo della desolazione non bisogna fare alcun cambiamento, non cambiare niente, ma stare in maniera ferma e costante nei propositi e nelle determinazioni in cui la persona si trovava nel giorno che precedeva la desolazione, oppure nella consolazione precedente”. In altre parole Ignazio dice: “Quando sei dentro la prova della desolazione spirituale non prendere alcuna decisione che ti porti a cambiare lo stile della tua preghiera e della tua vita” e Ignazio sottolinea che il più grande sbaglio che si possa fare nella vita spirituale è proprio questo: prendere decisioni in quello che Ignazio chiama il momento nero; invece lì non bisogna decidere nulla, lì non bisogna cambiare nulla, lì devo rimanere saldo in quei propositi e in quegli indirizzi di vita che fino ad allora hanno costituito il mio percorso di vita. “Nel baratro della desolazione ogni scelta di novità è uno sbaglio”. Quello che Ignazio dice a proposito della vita di preghiera lo dice anche in generale della vita e della vita spirituale: non si prendono decisioni nel momento dell’oscurità, non si prendono decisioni nel momento della prova.
  2. “E’ vero che nella desolazione non bisogna cambiare i propri propositi precedenti, però c’è qualcosa che possiamo cambiare. Giova molto infatti cambiare se stessi con intensità nella desolazione”. Cosa vuol dire? Non è una contraddizione con quanto Ignazio ha detto poco prima, ma è un approfondimento: se qualche modifica bisogna farla – dice Ignazio – bisogna farla nella direzione esattamente contraria a quella che la desolazione suggerisce. Ignazio è molto concreto: se io ho deciso di dedicare ogni giorno un’ora alla preghiera di meditazione, quando durante la desolazione sarò tentato di accorciarla, non dovrò cambiarla, se dovessi cambiarla la cambierò aggiungendoci qualche minuto. Ecco il cambiamento, andare nel senso contrario a quello che la desolazione suggerisce e detta con la sua presenza: se la desolazione ci propone un atteggiamento di tristezza e di sfiducia si reagisce e si cambia in un modo contrario e si va a sollecitare ciò che può aiutare la gioia, la fiducia, la speranza; o non cambiare niente, o – se si cambia – imprimere una direzione ancora più forte e precisa al nostro cuore nella direzione verso cui stavamo andando, resistere dunque e non fuggire, semmai approfondire e radicalizzare l’impegno in senso inverso.
  3. Accogliere la desolazione come un dono: per quanto la desolazione rechi a noi l’esperienza della fatica, del dolore e dell’oscurità dobbiamo accoglierla da Dio come un suo dono, perché è la via necessaria e maestra per crescere nella vita di preghiera, nella vita spirituale, nel rapporto con Dio. Allora accogliamola con favore, con quella punta dell’anima –  direbbero i maestri dello spirito – con la quale è possibile dire: “Sì, lo voglio, è bello accoglierti in questo dono, Signore, anche se la mia sensibilità vorrebbe dire il contrario!”.

Dunque non soltanto non cambiare, non soltanto resistere e andare in direzione contraria, ma anche ringraziare Dio per il dono della prova attraverso cui si sta passando. In questi giorni nei quali la preghiera è più prolungata certamente abbiamo l’occasione di vivere anche il gusto della preghiera, perché Dio è buono e ci dà il gusto della preghiera quasi come un aiuto perché recuperiamo e ritroviamo la bellezza dello stare con Lui a lungo. Certamente, proprio perché Dio è buono, in questo tempo prolungato di preghiera ci dona anche il momento della prova: alla scuola di Ignazio cerchiamo di viverlo come un momento vero di maturazione e di crescita, come un momento di grazia, perché nella nostra vita possa davvero realizzarsi quel passaggio dalle consolazioni di Dio – a cui ancora tanto siamo legati – al Dio delle consolazioni, a cui vogliamo legarci sempre di più con un amore puro, totalitario e radicale!

 

PRIMA MEDITAZIONE
Ieri sera durante la cena abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare alcuni tratti biografici della storia santa di Alfonso Maria de’ Liguori: forse quell’ascolto è stato il modo più bello per far echeggiare dentro di noi quanto abbiamo cercato di dire nel pomeriggio a proposito di quello zelo nel propagare il Vangelo della pace. Certo, Alfonso a noi si presenta come un grande propagatore del Vangelo della pace e abbiamo ascoltato con quale passione, con quale entusiasmo ha dedicato interamente la sua vita per trasmettere il Vangelo, per comunicare Gesù principe della pace e della gioia, a partire da una realtà che abbiamo ricordato ieri pomeriggio: la sua amicizia con Gesù, il suo amore per Gesù. Quello slancio, quello zelo, quella passione, quell’entusiasmo nell’annuncio del Vangelo partivano da lì, da questo suo amore grande per il Signore, da questo suo essere in comunione continua con il Signore Gesù, da questa sua vera e propria passione per Gesù!

Ecco perché quando parliamo di zelo nel portare il Vangelo della pace sempre dobbiamo pensare che la radice sta nella nostra relazione innamorata con il Signore Gesù ed è da lì che sempre dobbiamo partire! Se avvertiamo che ci manca lo zelo non dobbiamo rimediare con delle attività, dobbiamo rimediare tornando al Signore Gesù per riscaldare il cuore con Lui, davanti a Lui, per Lui: allora ritroveremo la passione per l’annuncio del Vangelo!

Ieri dicevamo di come questo zelo per la testimonianza e per l’annuncio abbiano un campo privilegiato, quello del rapporto personale, del tu a tu. Ricordo un piccolo episodio riguardante la vita di una famosa attrice che visse nel periodo tra le due guerre mondiali, Eva Lavalliére: ai tempi era davvero molto famosa, la sua vita era particolarmente lussuosa e tra l’altro anche disordinata. Un giorno, mentre passeggiava portando a spasso i suoi cani, incontrò il suo parroco Agostino Chasteigner e dopo il solito scambio di convenevoli il sacerdote senza pensarci troppo l’apostrofò così: “Signorina, voi pensate qualche volta all’inferno?” E da questa parola la Lavalliére partì per un cambiamento radicale della vita, tanto che lo stesso giorno convocò il suo commercialista per vendere tutte le proprietà, abbandonò le scene e la vita lussuosa, si costruì una specie di eremo – che chiamò Betania – visse in penitenza per qualche tempo e poi parti missionaria per l’Africa, dove trovò la morte contraendo una malattia mentre svolgeva il suo compito di carità e di annuncio del Vangelo. Tutto era partito da un incontro personale, da una parola detta al momento giusto e con il cuore in mano da parte di questo suo parroco. Ecco il cuore dell’annuncio del Vangelo e della testimonianza di Gesù: non è mai tempo sprecato quello dell’incontro a tu per tu!

Lo scudo della fede
Come nei giorni scorsi anche questa mattina riascoltiamo il brano della lettera agli Efesini sempre custodendo nel cuore quel desiderio di scoprire e riscoprire i dettagli di amore con il quale il Signore intende parlarci in questo momento e dopo aver considerato questa bella e grande armatura che Dio ci dona – la verità di cui ci dobbiamo cingere i fianchi, la giustizia la cui corazza siamo chiamati a rivestire e lo zelo per propagare il Vangelo della pace, cosa che siamo invitati a fare con le calzature ai piedi – oggi consideriamo la quarta arma che è posta nelle nostre mani, ovvero lo scudo della fede che, dice San Paolo, dobbiamo sempre tenere in mano. Questa parte dell’esortazione in cui Paolo fa riferimento allo scudo della fede è certamente centrale in questo brano della lettera agli Efesini e lo capiamo già dal fatto che Paolo usa più parole per descrivere questa parte dell’armatura. Mentre prima semplicemente Paolo parla con metafore e immagini e in brevissimo delinea l’armatura che dobbiamo indossare, qui a proposito della fede Paolo si dilunga un po’ di più. Dice infatti: “tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”. Questo vuol dire che Paolo è consapevole che lo scudo della fede è l’arma fondamentale che noi portiamo in mano e con la quale possiamo combattere e vincere nel combattimento spirituale di ogni giorno.

Ci domandiamo: che cosa San Paolo intende con i dardi infuocati del maligno? Noi sappiamo che i dardi infuocati sono delle frecce che vengono lanciate e che non soltanto pungono e feriscono, ma hanno anche una stoppia accesa e dunque sono capaci di distruggere una casa, sono capaci di superare un muro di difesa. Sono frecce doppiamente nocive, sia perché feriscono e sia perché bruciano, sia perché colpiscono e sia perché devastano. In questo modo Paolo vuol dire a proposito della fede che è l’arma fondamentale che noi abbiamo a disposizione, perché la fede è ciò che più si pone contro il nostro nemico che vuole distoglierci dalla fede, impoverire la nostra fede, perché sa che la fede è il cuore della nostra vita con Dio e laddove la fede viene meno viene meno Dio. Questo è l’esito sperato da colui che ci combatte: che Dio vada al di fuori dell’orizzonte della nostra vita in un modo più o meno consapevole. Per questo la fede è combattuta ed è combattuta molto, per questo dobbiamo armarci in modo particolare con l’arma della fede!

Ricordo quando Papa Benedetto in una sua lettera – nella quale riprendeva un pensiero che gli era abituale – disse che il grande dramma e il grande problema del mondo contemporaneo è la progressiva esclusione di Dio dalla vita degli uomini. Questa è l’opera del nemico, questa è l’opera del maligno: non dobbiamo cercarla chissà dove, perché nel momento in cui dal mondo si cerca in ogni modo di estirpare la presenza di Dio questa è la vera opera del nemico dell’uomo e questo è il dramma del nostro tempo e il dramma della nostra vita, perché tutti respiriamo l’aria inquinata di questo tempo …

Dunque il dramma del tempo è il dramma nostro: l’esclusione di Dio dalla vita, dalla concretezza della vita. Certo, c’è una negazione in corso, ma c’è anche il non interesse in quanto Dio non ha a che fare con noi; la questione di Dio non interessa. Questa aria inquinata può insinuarsi anche nella nostra vita, anche nelle nostre comunità, perché pur dicendo diversamente alla fine nella concretezza del cammino Dio non ci interessa, possiamo fare a meno di Lui. Tante espressioni lo dicono, tante modalità di vita lo dicono se stiamo attenti e abbiamo la capacità di guardare con occhi illuminati: viviamo come se Dio non ci fosse … viviamo come se Dio non fosse l’autentico protagonista di tutto, della nostra vita personale, della nostra vita comunitaria.

Dovremmo riflettere su come a volte, iniziando qualche nostra riunione o qualche nostro incontro, rivolgiamo a Dio una breve e frettolosa preghiera come per dire “sì, bisogna farlo, ma adesso mettiamoci a lavorare noi” … Che cosa ha a che fare Dio in realtà con quello che stiamo facendo? Davvero quella preghiera è l’inserimento nel cuore di Dio – da cui vogliamo trarre luce, ispirazione e forza per ciò che cerchiamo con Lui di fare, di vedere, di programmare – oppure soltanto una vernice superficiale che ormai è entrata a far parte delle nostre abitudini, ma che non inerisce la vita, non ha a che fare con il nostro modo di pensare, non ha nulla a che vedere col nostro modo di progettare? Dio è altrove … Ecco l’opera del maligno, i dardi infuocati …

Questa espressione Paolo probabilmente la prende da alcuni salmi che usano proprio il termine dardo infuocato, freccia. Prendiamo per esempio il Salmo 7 dove ai versetti 14 e 15 l’autore ispirato dice prepara strumenti di morte, arroventa le sue frecce. Ecco il dardo infuocato, la freccia arroventata! Nel Salmo 56 ai versetti 5 e 7 ecco il salmista dire, parlando di se stesso, Io sono in mezzo a leoni che divorano gli uomini: i loro denti sono lance e frecce, la loro lingua spada affilata. Ecco di nuovo l’immagine che ritorna. Nel salmo 90,4-6 è ancora l’autore sacro che dice non temerai i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno … in tutti questi salmi le frecce che cosa rappresentano? Gli assalti, le insidie, i tentativi che l’avversario fa per ferire, per far cadere colui che si trova davanti, che ama il Signore: vuole scavargli la fossa, prenderlo in trappola! E’ il nemico dell’uomo (inteso in una varietà di modi) che fa di tutto per ferire e uccidere colui che ama Dio!

Soffermiamoci un momento per domandarci: chi è questo nemico che agisce così? Chi è in effetti questo nemico di cui parlano i salmi e questo nemico di cui parla l’Apostolo nella sua lettera? Paolo al versetto 12,  dopo aver parlato del diavolo, lo descrive in un modo interessante: “la nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. In radice c’è il nemico di Dio e dell’uomo, il diavolo, però come conseguenza dell’opera di questo grande nemico che cosa c’è? C’è quello che noi potremmo chiamare un clima, un’aria, un ambiente, una situazione che potremmo definire così: un insieme di forze potenti, un insieme di forze tenebrose, un insieme di forze maligne. Sono potenti queste forze, perché hanno la capacità di provocare effetto; sono tenebrose, perché conducono nell’oscurità, nella tenebra dove non si sa più dove bisogna andare. E’ come se queste forze facessero perdere di vista la meta, introducono in un tunnel da cui non si riesce a uscire, sono maligne, perché la finalità è quella di nuocere e fare del male. Dalla presenza del diavolo si scatenano nel mondo queste forze, forze potenti, forze tenebrose, forze maligne. Tutte queste forze possiamo probabilmente ricondurle ad un’immagine giovannea, quando Giovanni parla del mondo e ne parla in un modo specifico, non parla di quel mondo che va amato, non parla di quel mondo per il quale il Signore ha dato la vita ed è venuto per salvarlo, ma parla del mondo in quanto insieme di realtà che si oppongono all’amore di Dio, alla presenza di Dio e all’opera di Dio. Potremmo dire allora che il mondo è l’atmosfera, il mondo è un’aria, il mondo è un insieme di realtà, il mondo è una realtà dentro la quale viviamo, che ha origine dal nemico di Dio, ma che si propaga poi come un’aria che respiriamo. Questo mondo potremmo anche definirlo la mentalità secolare, la mentalità mondana, quella che spesso l’attuale Pontefice definisce mondanità, cioè la mentalità di non fede, contrapposta alla fede. Questa mentalità secolare di non fede ha delle caratteristiche precise: è nemica di Dio, anzitutto, e quindi è nemica dell’uomo, perché chi è nemico di Dio in verità è nemico anche dell’uomo. E’ nemica di Dio, perché in ogni modo cerca di scalzarlo dalla realtà della vita umana, ma è nemica dell’uomo perché vuole il male dell’uomo, vuole fargli male, vuole depistarlo, vuole fargli perdere l’orientamento, vuole condurlo per sentieri tenebrosi, vuole fargli compiere scelte che vanno contro se stesso. Questa è la mentalità mondana.

Ritorniamo su un fatto: trattandosi di un’aria nella quale noi siamo inseriti e viviamo, nessuno ne è protetto, perché quest’aria la respiriamo da quando ci svegliamo al mattino a quando andiamo a riposare. Il mondo non è semplicemente una realtà che è fuori di noi, il mondo è una realtà che è anche dentro di noi e che come l’aria è capace di insinuarsi in ogni fessura della nostra vita. Allora interroghiamoci in questi giorni: la mentalità mondana è entrata nella nostra vita? Forse la domanda giusta sarebbe chiederci non se è entrata – perché sul fatto che sia entrata penso non ci siano dubbi – ma piuttosto domandarci come è entrata, dove si sta manifestando, come è presente, in che modo inquina la mia esistenza, come mette a repentaglio la mia fede, in quale modo mi insidia.

Nel nostro tempo c’è forse una modalità specifica attraverso cui questa mentalità secolare si oppone alla nostra vita di fede e si insinua nelle pieghe della nostra quotidianità: è quella di venire a noi come falsa modalità di aggiornarci e di incontrare il nostro tempo e il nostro mondo. Dicevamo che il nostro nemico non procede mai per vie diritte, ma sempre per vie traverse e cerca in tutti i modi di fare che il male sia chiamato bene: noi troviamo un bene nel dire che ci aggiorniamo, che andiamo incontro al mondo, che cerchiamo di adeguarci alla realtà di questo nostro tempo … ma poi che cosa ne deriva? Che quel mondo verso il quale andiamo diventa nostro, che non diventa più un incontro di salvezza, ma diventa un incontro di assimilazione, non è più un incontro di testimonianza e di annuncio, ma è un incontro di annacquamento della nostra vita. Nella Chiesa e nella sua storia – perché noi non siamo i migliori, siamo semplicemente dei “nani sulle spalle dei giganti” che ci hanno preceduto – tante volte si è riproposto il problema del rapporto chiesa-mondo: non abbiamo inventato nulla e non siamo i primi della classe, anche se forse ogni epoca della storia vive questa tentazione, questo peccato. Nel rapporto chiesa-mondo la riforma è sempre stata vissuta non come un annacquamento con la mentalità secolare, ma come una radicalizzazione della vita evangelica: questo è l’aggiornamento nello spirito del Vangelo, questo è andare incontro al mondo secondo la mentalità del Signore, questo è diventare nuovi.

Mentre per le altre cose non dice questo, per la fede San Paolo dice che dobbiamo portare in mano sempre lo scudo, perché sempre siamo tentati e insidiati su questo punto. Ieri sera mentre ascoltavamo la vita di Sant’Alfonso ci è stato ricordato che i capisaldi della sua spiritualità furono l’Eucaristia, la Madonna e la carità, ma non furono semplicemente i suoi capisaldi, perché quando noi ripercorriamo le vicende della vita della Chiesa nel tempo e della storia della santità ci accorgiamo che alla fine i capisaldi sono sempre questi: la Madonna, l’Eucaristia e la carità. Lì giochiamo in ogni tempo la nostra vera riforma, lì giochiamo in ogni tempo questa sfida della fede! Credo proprio che periodicamente a livello personale e a livello comunitario dovremmo interrogarci, è urgente farlo, è importante farlo: come la mentalità mondana è entrata nella nostra vita? Come possiamo liberarci da essa? Dobbiamo farlo e dobbiamo farlo periodicamente, perché l’insinuarsi è continuo, è l’aria che respiriamo ogni giorno, le insidie non mancano mai sotto questo punto di vista!

Paolo presenta la fede sotto tre punti di vista:

  1. adesione personale al Signore: è un aspetto importante della fede, un aderire personale nell’amore al Signore Gesù, cioè è un incontro, una storia, una dedizione, una corrispondenza del cuore e della vita a Qualcuno che ci ha incontrato e dal quale siamo amati. E’ quello che tante volte ci è stato ricordato anche ultimamente durante il pontificato di Benedetto, quando non si stancava di dire che la fede non è un insieme di norme, di regole, un ideale di vita, ma è anzitutto un incontro, una scoperta, un’adesione della vita e del cuore al Signore che ci ha salvato, una storia di amicizia che ci ha completamente sconvolto la vita. Su questo dobbiamo continuamente ritornare perché anche se lo sappiamo e ne gustiamo la bellezza, la tentazione a considerare la fede come un ideale astratto e un insieme di norme da osservare è sempre lì latente, pronta a farci deviare da ciò che la fede è realmente. Chiediamoci se la nostra fede ha questi tratti caldi di amore vissuto, di dedizione personale, di apertura del cuore e della vita, di una storia che ogni giorno viviamo a tu per tu con il Signore!
  2. adesione alla Parola di Dio, a ciò che il Signore ci ha rivelato, alla Parola con la quale il Signore si rivolge a noi: certo, è un incontro personale, ma in questo incontro personale si apre un dialogo e in questo dialogo entro in relazione con la verità di Dio, cioè con un piano di salvezza, con un disegno di amore che si concretizza con uno stile di vita. Potremmo dire che se la fede è un atto di adorazione, cioè è un porsi alla sequela incondizionata perché amante di Dio, è allo stesso tempo anche adesione incondizionata alla Parola che Dio mi rivela, che mi sussurra all’orecchio, che mi imprime nel cuore. In questo senso la fede non è semplicemente un atto sentimentale emotivo, ma è un nuovo sguardo sulla vita. Come dicevano gli antichi, la fede è un occhio in più che noi abbiamo e attraverso il quale noi vediamo ogni cosa diversamente, quindi la fede è una mentalità nuova, è un pensiero nuovo, perché – dice Paolo – è il pensiero di Cristo che è diventato il nostro, è una cultura nuova, è un giudizio nuovo su tutto, non è uno scompartimento tra gli altri della nostra esperienza di vita, ma un abito nuovo che riguarda tutta la vita; è uno sguardo diverso che parte da Cristo e che coinvolge ogni esperienza del nostro quotidiano! Se dobbiamo interrogarci in merito al fatto che la nostra fede sia realmente una storia di amore bella e coinvolgente con il Signore, dobbiamo anche chiederci se la fede nella nostra vita sia effettivamente questo principio nuovo di pensiero, di riflessioni, di giudizio da cui sgorga il nostro vivere, da cui promanano le nostre scelte. Forse è proprio su questo aspetto della fede che più dobbiamo interrogarci per domandarci: io penso secondo Cristo o penso secondo il mondo? Penso a partire dal Vangelo o penso a partire da parole umane? Penso a partire dalla Parola di Dio o penso a partire da ciò che pensano i più? Il nostro è un pensiero originale, perché il pensiero di Cristo sul mondo e su tutte le questioni del mondo!
  3. mentalità di fede, o meglio spirito di fede, cioè un modo con il quale noi affrontiamo le vicende della vita, che poi discende da quell’incontro personale di amore e da quel modo nuovo di pensare di cui dicevamo prima. Quando la fede per noi è un incontro incondizionato di amore con Gesù e quando la fede per noi è la Parola di Dio che diventa la nostra parola e il nostro pensiero, allora noi viviamo con spirito di fede, cioè ci accorgiamo che Dio è ovunque. Diventa vera quella parola di Paolo che dice“tutto è grazia” e “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”; Paolo, nella lettera agli Efesini, parla di “spirito di sapienza e di rivelazione”, cioè una capacità nuova, che ci è data, di vedere come tutto nella vita è ordinato al nostro bene, alla nostra salvezza. Questa è la sapienza: la capacità di accorgerci che nulla è contro di noi, ma che tutto è per noi; che tutto discende dall’amore di Dio e che quindi tutto è ordinato al nostro bene più grande, ultimo, definitivo. E’ “spirito di rivelazione”, in virtù del quale noi scopriamo nelle vicende della nostra giornata e della nostra vita l’ombra provvidenziale di Dio che mai viene meno; questo non ci è rivelato dalla carne e dal sangue, ma ci è rivelato dall’alto, dalla fede.

Pietro di fronte alla domanda di Gesù là al Giordano riesce a dire: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”. lo dice lì avendo davanti un uomo, Gesù di Nazareth, e lo dice non a motivo della carne e del sangue – gli risponde Gesù – ma perché il Padre gliel’ha rivelato, cioè la fede. Lo spirito di rivelazione è proprio questo: saper scorgere nelle realtà umane la realtà divina, saper vedere dentro il visibile l’invisibile di Dio che è sempre all’opera e che è la realtà più profonda e più vera della vita. Ecco lo spirito di fede che discende da quell’ incontro di amore e da quell’ormai saper pensare secondo Cristo. Questo è lo scudo della fede, perché quando noi viviamo la fede come un incontro personale di amore, quando noi viviamo la fede come adesione alla parola di Dio e dunque al pensiero di Gesù, quando noi viviamo la fede come uno spirito di fede che ci aiuta a vedere tutto orientato a Dio e tutto nel progetto di amore di Dio su di noi, allora la mentalità secolare non entra nella nostra vita, allora il mondo non ha più  spazio, le insidie e le lusinghe del nemico non si infilano più nella nostra esistenza, perché abbiamo lo scudo della fede che ci protegge e sappiamo riconoscere che cos’è da Dio e cosa non è da Dio, che cos’è mentalità evangelica e cos’è mentalità mondana, che cos’è spirito di Dio e che cos’è spirito del mondo. Sappiamo discernere, ma lo sappiamo a partire da questo scudo della fede. Se questo scudo della fede non c’è non discerniamo più nulla, ragioniamo semplicemente secondo il mondo, pensiamo di fare discernimento e non facciamo altro che ingarbugliarci dentro la mentalità mondana, magari sicuri di essere nel giusto! Ecco perché la questione – lo vogliamo ridire ancora una volta – centrale della nostra vita sempre, oggi forse di più, è la fede e li dobbiamo continuamente tornare, senza stancarci di farlo.

A proposito dello spirito di fede, questo terzo elemento del nostro scudo a cui abbiamo fatto riferimento, ascoltiamo un racconto simpatico che ritroviamo nella tradizione spirituale russa. In questo racconto si parla di un monaco di nome Serafino: questo Serafino chiedeva con insistenza al Signore di poter prendere il suo posto sulla croce, perché con tanta buona volontà e con buoni sentimenti voleva condividere in tutto il ruolo di Gesù. Dopo averlo fatto un po’ attendere, un giorno il Crocifisso accettò, però ad un patto: Gesù disse a Serafino così: “Il patto è che tu, stando al mio posto sulla croce, rimanga zitto!”. Serafino, essendo monaco abituato al rigore e all’osservanza del silenzio, garantì tranquillamente al Signore: “Ma certo,io prenderò il tuo posto e vedrai che non dirò neanche una parola!”. Il Cristo scese dalla croce e vi salì Serafino, mettendosi al posto del Crocifisso che era in chiesa. Ad un certo punto entrò un uomo ricco a pregare e mentre pregava gli scivolò giù il sacchetto dei soldi, che erano molti. Si alzò per andarsene e Serafino, che aveva osservato la scena, avrebbe voluto dirgli che gli era caduto il sacchetto, però si era impegnato con il Signore a tacere e quindi si morse la lingua e tacque. Subito dopo entrò un uomo povero, cominciò a pregare, ma mentre pregava subito gli occhi gli caddero su quel sacchetto pieno di soldi. Si guardò intorno, vide che non c’era nessuno, prese il sacchetto, se lo mise in tasca e scappò. Anche in questo caso Serafino avrebbe voluto dirgli che non doveva prenderli, che non era corretto, quei soldi non erano suoi … ma si era impegnato con il Signore a stare zitto e anche questa volta si morse la lingua e riuscì a tacere. Entrò a questo punto un giovanotto che si mise con tanta devozione in ginocchio lì ai piedi del Crocifisso, chiedendo aiuto e protezione perché stava per mettersi in viaggio per mare e voleva essere aiutato. In quel mentre entrò l’uomo ricco con i gendarmi dicendo che aveva lasciato in chiesa il sacchetto con tanti soldi. Ora, l’unica persona presente in chiesa era quel giovanotto che stava pregando, così i gendarmi lo presero e lo arrestarono. A questo punto però era troppo e Serafino, pur mordendosi la lingua, non riuscì più a stare zitto. Allora intervenne e gridò: “E’ innocente!” e il crocifisso che parlò così salvò quel giovane, perché in forza di quella voce approfondirono le indagini e lasciarono andare il giovanotto che si imbarcò, avendolo trovato innocente. Arrestarono invece quello che aveva preso i soldi, che dovette restituirli all’uomo ricco.

Terminata la giornata, alla sera il Crocifisso Gesù aveva la faccia scura e riproverò seriamente Serafino: “Serafino, non va proprio bene per niente!” “Ma come, Signore?”  gli disse Serafino, e Gesù gli rispose: “Ti avevo detto di stare zitto!”. Serafino replicò: “Ma Signore, ho rimesso le cose a posto, ho fatto giustizia, ho salvato un innocente!” e il Signore allora gli disse: “No, Serafino, tu hai sbagliato tutto! Il tuo impegno era quello di tacere; me lo avevi detto, me lo avevi promesso e invece hai parlato e parlando – forse non te ne sei accorto – tu hai rovinato tutto il mio disegno di Provvidenza, perché quel ricco stava per fare un’opera cattiva con quei soldi e io glieli ho fatti perdere, quel povero ne aveva bisogno e io glieli ho fatti trovare, quel giovanotto ora sta naufragando in mare, mi aveva chiesto aiuto, se fosse andato in prigione avrebbe perso la nave e non sarebbe morto. Tu invece lo hai mandato libero, si è imbarcato e ora annega … Hai rovinato tutto, Serafino, non sei in grado di metterti al posto del Cristo, caro Serafino! Anche se sei un monaco avanzato nella spiritualità la Provvidenza di Dio guida le cose meglio di noi, anche quando sembra che vadano storte!”

Questo racconto della tradizione russa in modo simpatico e coinvolgente ci parla dello spirito di fede, cioè di quella capacità di saper guardare la realtà della vita e ogni circostanza della vita dal punto di vista di Dio, con quella capacità di sapienza che mette tutto in relazione all’opera di salvezza del Signore, con quello spirito di rivelazione che sa scoprire l’opera provvidente di Dio in tutto, anche quando immediatamente non sembra così …

LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Giovedì della XVII settimana, anni dispari: Geremia 18,1-6; Matteo 13,47-53
Rimaniamo in ascolto della Parola che il Signore oggi ci rivolge attraverso il suo profeta Geremia: Dio gli si fa vicino, gli parla e lo esorta ad alzarsi e a scendere per andare nella bottega del vasaio “dove – gli dice – ti parlerò”. Strano! Geremia viene invitato a lasciare la propria casa, a recarsi presso questa bottega e proprio in questa bottega Dio gli dice “lì ti parlerò”, non in casa, non in un luogo tipico della preghiera, ma nella bottega del vasaio.

In questo modo siamo aiutati a ricordare che il Signore ci può parlare ovunque e che dobbiamo rimanere sempre attenti e in ascolto del Signore, che non si stanca mai di rivolgerci la sua Parola, ma ce la rivolge come e quando vuole. Noi siamo tentati di imprigionare la libertà del Signore nel parlarci, perché abbiamo i nostri schemi, abbiamo i nostri programmi e abbiamo i nostri progetti: ma Dio è libero da questi schemi, da questi progetti, da questi pensieri!

Oggi questa pagina del profeta vuole ricordarci che siamo chiamati a entrare dentro la libertà di Dio, che è bella perché non è imprigionata ma è davvero libera! Il Signore ci parlerà forse nel momento della nostra preghiera, può darsi; il Signore ci parlerà nel momento del silenzio, può essere; ma il Signore potrebbe parlarci per strada, potrebbe parlarci attraverso un incontro che facciamo, potrebbe parlarci nell’imprevisto della giornata, potrebbe parlarci in quell’esperienza di gioia, ma anche in quell’esperienza di dolore. Il Signore ci parla sempre e la sua Parola – questo è qualcosa che dobbiamo ricordare continuamente – non ci è donata a intermittenza, ma ci è donata come una cascata che non si ferma mai. Siamo noi che siamo distratti, siamo noi che non siamo attenti, siamo noi che imprigionati dai nostri schemi rimaniamo incapaci di ascoltare quella voce che mai tace e che sempre parla, perché è una parola eterna che si riversa nella nostra vita!

Andando a questa esperienza di Geremia cerchiamo di entrare dentro l’annuncio bello che ci raggiunge: il Signore ci parla sempre, non si stanca mai di rivolgerci la sua Parola. Noi, acquisendo una più grande libertà, rimaniamo in ascolto sempre di questa Parola di vita e di salvezza che ci è donata con una fedeltà eterna. Chiediamo la grazia di questa capacità di ascolto! In una celebre pittura viene rappresentato un personaggio che ha in mano il libro della Scrittura e insieme ha delle orecchie giganti: perché? Perché noi dobbiamo essere tutti orecchie per la Parola di Dio, cioè sempre disponibili, pronti ad accogliere il dono di quella voce che accompagna fedelmente la nostra vita.

Geremia si reca nel negozio del vasaio e lì che cosa vede? Vede un artigiano che ha tra le proprie mani dell’argilla e con quell’argilla costruisce un vaso, ma non in un colpo solo! Ritornando più volte su quell’argilla la prende, la modifica, a volte non riesce il disegno perché l’argilla in qualche modo si oppone e allora il vasaio con perseveranza ancora continua la propria opera. Questa è la Parola che Dio rivolge a Geremia. Per dirgli cosa? Per dirgli che deve essere l’annunciatore di una verità bellissima: che il suo popolo è nelle mani di Dio, che queste mani non si stancano mai di plasmare il popolo e che anche se questo popolo ha dura cervice e si oppone, si ritrae, le mani di Dio continuano a plasmarlo fino a tanto che non ne verrà fuori un vaso stupendo!

Questo annuncio riguarda noi oggi, perché il Signore dice a noi questa notizia straordinariamente bella: “tu sei nelle mie mani e anche se a volte ti sottrai, a volte resisti, a volte scappi, sei sempre nelle mie mani e di tutto mi servo perché finalmente io possa riuscire con te a edificare una realtà bellissima e un capolavoro, così come desidero nel mio cuore e davanti ai miei occhi”. Bella è questa verità! Ci riempie di speranza, ci riempie di fiducia, ci riempie di gioia, perché ci ricorda che quelle mani ci tengono stretti a sé, quelle mani non si stancano mai di lavorarci, quelle mani ci amano e sono sempre al lavoro per edificare il capolavoro della nostra vita. Certo, dobbiamo rimanere dentro quelle mani!

In qualche modo qui la pagina di Geremia si collega al brano del Vangelo e a quell’immagine della rete che prende tutto, entra nel mare e trascina: noi dobbiamo rimanere dentro quella rete, lasciarci prendere dalla rete di Dio, lasciare che le sue mani belle lavorino su di noi!

Potremmo domandarci: come rimanere dentro queste mani? Come lasciarci prendere dalla rete del Signore lungo l’arco della giornata? In un’immagine molto suggestiva Albino Luciani – quando ancora era Patriarca di Venezia – diceva che tutta quanta la storia della salvezza, e quindi anche la storia di ciascuno di noi, può essere sintetizzata così: Dio che rincorre e noi che scappiamo! Ma nonostante che noi scappiamo Dio ci rincorre sempre … qual è il modo per fermarci e per far sì che questa rincorsa di Dio arrivi alla meta e che dunque queste mani davvero ci prendano e ci plasmino? Ricordando questo: Dio vuole plasmarci attraverso la quotidianità, Dio ci plasma attraverso la sua Parola, Dio ci plasma attraverso l’Eucaristia e attraverso l’incontro che abbiamo con Lui nella preghiera; Dio ci plasma attraverso i fratelli e le sorelle con le quali condividiamo il cammino; Dio ci plasma attraverso gli imprevisti della vita; Dio ci plasma attraverso le gioie e i dolori di una giornata; Dio ci plasma, con altre parole, attraverso tutto! E qui ritorniamo allo scudo della fede: come stare nelle mani del vasaio, lasciando queste mani ci plasmino attraverso tutto, perché questo quelle mani desiderano … Rimaniamo lì nelle mani, ricordando che tutto è segno di queste mani che operano, che tutto è rimando a queste mani che plasmano!

San Giovanni della Croce diceva che nella vita comune le sorelle e i fratelli, che ci vivono accanto, sono come lo scalpello di Dio attraverso cui Dio opera nella nostra vita, perché quella caratteristica, quel dono, quel difetto del fratello che mi vive accanto sono lo strumento di cui Dio si serve per realizzare l’opera d’arte che Egli ha in mente per me. Tutto è così nella vita, tutto è scalpello di Dio, tutto è il segno delle mani di Dio che opera e che lavorano per me e su di me!

Custodiamo nel cuore questo annuncio di cui oggi si è fatto portavoce il profeta e di cui oggi ci parla la parabola del Regno dei Cieli: custodiamola nel cuore e portiamola in mano, proprio come lo scudo della fede!

SECONDA MEDITAZIONE
Consegnarci con coraggio alla promessa scritta nella Parola di Dio
Abbiamo visto che San Paolo attribuisce una posizione centrale e anche particolarmente importante allo scudo della fede nel complesso dell’armatura di cui siamo chiamati a rivestirci nel nostro combattimento spirituale. Questa centralità e questa importanza l’abbiamo osservata anche a partire dal fatto che l’apostolo esprime con qualche parola in più le caratteristiche di questo scudo e di questa parte dell’armatura. Allora noi, per adeguarci alla mente di Paolo, vogliamo prolungare un momento la nostra riflessione e la nostra meditazione intorno allo scudo della fede servendoci di un brano della lettera agli Ebrei, che da un certo punto di vista sembra completare il discorso paolino della lettera agli Efesini.

Ai tre aspetti che noi abbiamo annotato riguardo alla fede – adesione personale al Signore, adesione alla sua Parola e sguardo con spirito di fede sulla realtà – si aggiunge quello che potremmo definire un quarto elemento e un quarto aspetto della fede: la fede che si butta, la fede come arte e capacità di consegnare se stessi con coraggio, la fede come gettare se stessi dentro la promessa che è scritta nella Parola stessa di Dio. In questo senso la lettera agli Ebrei ci mette in guardia contro il pericolo della diffidenza, che è esattamente l’insidia che si insinua in noi e che ci impedisce di essere coraggiosi nel buttarci e nel consegnarci senza condizioni e senza sicurezze là dove la Parola di Dio ci indica. A questo riguardo la lettera agli Ebrei (3,2) ci aiuta a riflettere tornando a una pagina dell’Antico Testamento: “Guardate perciò, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede, che si allontani dal Dio vivente. Siamo infatti diventati partecipi di Cristo a condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio. Chi furono quelli che dopo aver udito la sua voce si ribellarono? Non furono tutti quelli che erano usciti dall’Egitto sotto la guida di Mosè?” e nella prima lettera ai Corinzi Paolo sembra quasi riprendere in qualche modo quanto scritto nella lettera agli Ebrei e da un certo punto di vista approfondirlo: “Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto”.

Questi testi, che si richiamano a vicenda nel fare memoria di quanto accadde all’antico popolo, che cosa ci vogliono dire? Che la diffidenza verso Dio è stata un’esperienza di gente che era legata a Dio, non di gente che era lontana da Dio, di gente che aveva sperimentato le meraviglie di Dio, di gente che aveva toccato con mano l’opera di Dio nella propria vita. Eppure venne meno in loro la fiducia, furono colti dalla diffidenza e ciò avvenne in un modo del tutto particolare: poco prima di entrare nella terra promessa, per mancanza di fiducia gli Israeliti mandarono ambasciatori ed esploratori a vederla. Non si fidarono ad entrare – così come la Parola di Dio aveva loro indicato – e vollero rendersi conto di persona: allora cominciarono a temere, perché in quella terra videro cose terribili, spaventose, che facevano paura.

Dio rinnova l’invito al coraggio, eppure quegli uomini non vi entrano, mentre Dio invita ad entrare loro non entrano per timore, per paura. Molto spesso quello che hanno vissuto questi Israeliti al momento di fare il loro ingresso nella terra promessa è quello che capita di vivere a noi: anche noi siamo invitati da Dio ad entrare, ad andare, a lasciare, ma noi vogliamo avere sempre le idee chiare, vogliamo che tutto sia sotto controllo, vogliamo che non ci siano margini di insicurezza e non andiamo fino a quando non ci è tutto chiaro. E’ proprio qui il dramma della nostra fede, che non è più fiducia in quella Parola che ci è rivolta, ma è diffidenza verso quella Parola che ci è rivolta. Quando arriva il calcolo arriva la diffidenza, quando arriva il calcolo viene a mancare la fiducia e la fede, e questo non capita a coloro che ancora non hanno incontrato Dio, anzi, capita proprio a coloro che magari da tempo sperimentano la presenza di Dio. D’altronde, se noi andiamo indietro con la memoria e ricordiamo i passi che abbiamo compiuto all’inizio della nostra vita, ci rendiamo conto che probabilmente eravamo molto più coraggiosi, avevamo molta più fiducia, la nostra fede era senza calcolo, perciò abbiamo potuto lasciare quello che avevamo per le mani e incontrare e sperimentare la bellezza della promessa di Dio. Cammin facendo questa fiducia, questa fede, questo coraggio possono essere venuti meno, sono cominciati i calcoli, è entrata nel cuore la diffidenza …

Ci viene allora ricordato che la sfida della fede è una sfida che ci accompagna per tutto il percorso della vita, perché in fondo la possibilità di dire “sì” senza condizioni o quella di obiettare facendo i calcoli si ripropone ad ogni passaggio della nostra vita, ad ogni incontro con la Parola di Dio. Ogni qualvolta il Signore si pone davanti a noi e ci indica la strada sempre si ripropone la sfida: una fede autentica o una diffidenza che ci impedisce il cammino …

Che cosa capitò a quel popolo, nel momento in cui la diffidenza prese il sopravvento? Il testo biblico tristemente descrive così: “Le loro ossa coprirono il deserto, perché nessuno di quegli uomini poté entrare dentro la terra della promessa”. Il magnifico progetto di Dio per loro non poté realizzarsi, erano stati diffidenti, avevano mancato di fede. Erano lì, avevano la terra a portata di mano, eppure non poterono entrarvi per quella diffidenza, per quella sfiducia.

Anche noi siamo spesso in quelle condizioni, siamo lì alla terra promessa, la promessa di Dio l’abbiamo a portata di mano, è lì davanti a noi, eppure non la sperimentiamo, non la vediamo, non vi entriamo perché siamo diffidenti e preferiamo affidarci alle nostre paure, preferiamo tenere conto dei nostri calcoli …

Questo perché accade? Ritorniamo ad un pensiero che è importante nella nostra storia spirituale: accade perché non siamo realmente convinti che Dio ci ami e che la sua Parola è realmente alleata della nostra vita. Non ne siamo convinti, perché se ne fossimo convinti, cadrebbero diffidenze e paure, se ne fossimo convinti non staremmo a fare i calcoli … Perché i santi hanno visto la loro vita fiorire di bellezza? Perché hanno prestato fede alla promessa di Dio, perché davanti alle sollecitazioni della sua Parola non hanno calcolato, quella Parola l’hanno abbracciata per quello che significava loro in quel momento, hanno dato seguito alle indicazioni che ricevevano, e allora sono entrati nella terra della promessa e la loro vita ha sperimentato la bellezza di quella terra!

La nostra vita non fiorisce perché non crediamo all’amore, la nostra vita non fiorisce perché non prestiamo fede a quella Parola amante che vuole darci tutti i suoi doni, ma che noi non vogliamo, che teniamo distanti da noi. Esaminiamo la nostra vita per vedere quali diffidenze l’accompagnano; esaminiamo la nostra vita per considerare quali paure si affacciano dentro di noi; consideriamo la nostra vita per vedere quanto davvero crediamo all’amore di Dio e quanto ci relazioniamo alla sua Parola dicendo “Qui sta la vita per me, qui la promessa di gioia per me, qui sono nascosti i tesori più belli che il Signore ha in serbo per me!”. Proviamo a pensare cosa ci capita quando ascoltiamo una Parola del Signore dalla quale sentiamo provenire un invito a qualcosa di più? Siamo subito sulla difensiva, andiamo a cercare le ragioni per le quali possiamo tirarci indietro, cerchiamo i motivi giusti in base ai quali rimanere tranquilli nel cuore e poter così dire “Beh, questa non è per me, non mi riguarda o perlomeno non mi riguarda adesso, ci penserò più avanti …”. Il primo pensiero non è “devo gettarmi là dove la Parola mi indica”, ma il primo pensiero è “devo difendermi da questa Parola” … diffidiamo dell’amore di Dio …

Mentre ci verifichiamo, vogliamo anche domandare la grazia di poter rimanere incantati dalla bellezza che quella Parola porta con sé; la grazia di poter rimanere affascinati da quel volto di amore che continua a inseguirmi e a propormi strade belle di vita, perché strade di santità; la grazia di portare così fissa negli occhi la bellezza della promessa di quella terra, da non avere timore di altro e di nulla.

La lettera agli Ebrei dopo aver parlato della diffidenza da cui deriva la sterilità della vita si sofferma anche a considerare la bellezza della fede vissuta, da cui deriva la fecondità di una vita: diffidenza della fede significa sterilità, coraggio nella fede significa fecondità! Nel capitolo 11 si passano in rassegna alcuni grandi personaggi dell’Antico Testamento, con il desiderio di mostrare come in loro la fede vissuta è diventata sorgente di fecondità, di opere grandi, di bellezza di vita.

  • Il primo personaggio che la lettera agli Ebrei ci pone dinanzi è Abele, del quale l’autore di questa lettera dice: “Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino”. Perché migliore? Perché Abele guardava all’offerta che stava facendo senza rincrescimento per quello che perdeva, ma con la gioia di poter donare qualcosa di suo e di sé a Dio, a differenza di Caino. Viene quindi messa in risalto che cosa? Una caratteristica della fede che già abbiamo considerato: Abele va al di là della realtà immediata, guarda oltre, fissa lo sguardo in Dio, va al di là di quell’offerta materiale che lascia per Dio, perché sa chi è Dio per il quale offre, anche se non lo vede sa che è per Lui, Abele guarda oltre con fiducia.
  • Il secondo personaggio biblico è Noè. Dice la lettera agli Ebrei: “Avvertito di cose che non si vedevano, costruì con pio timore un’arca e con questa fede condannò il mondo”. Molto bella questa espressione che la lettera agli Ebrei usa per descrivere la fede di Noè! Anzitutto viene avvertito di cose che non si vedevano: Noè non sapeva se quello che Dio gli diceva era vero, gli parlava di un diluvio, di un’acqua che avrebbe travolto la terra, ma non lo vedeva, non lo sapeva. Di questa Parola si è fidato e si è fidato contro tutti e contro tutto, perché non gli si prestava fede e per questo – dice la lettera agli Ebrei – condannò il mondo, stando a quello che dicevamo oggi condannò la mondanità, la mentalità secolare. Si è fidato di ciò che non vedeva, perché era Dio: fidandosi ha condannato il mondo, condannandolo prima di tutto dentro di sé.
  • Il terzo personaggio è Mosè: ci viene presentato come l’uomo che non ha paura degli uomini e che accetta anche l’insulto pur di essere fedele alla Parola che Dio gli rivolge. Dice la lettera agli Ebrei a proposito di Mosè: “Per la fede rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato”.

Perché Mosè ha potuto prendere questa decisione? Nello spirito della lettera agli Ebrei è perché guardava al di là della realtà immediata, di ciò che era apparenza. Infatti la lettera agli Ebrei usa una bellissima espressione per Mosè, che quasi fa sintesi di quello che abbiamo detto in questi giorni: “Rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile”.

Questa è la fede: vivere vedendo l’invisibile, decidere come vedendo l’invisibile, scegliere vedendo l’invisibile, dare le priorità considerando l’invisibile.

Questi personaggi, che vengono ricordati dalla lettera agli Ebrei proprio per questo loro guardare oltre, proprio per questo avere lo sguardo fisso nell’invisibile, proprio per questa loro fiducia a tutta prova nella promessa di Dio, nella Parola di Dio, hanno fatto grandi cose: la loro vita è diventata feconda ed è fiorita, perché hanno costruito la vita non sul visibile – l’avrebbero perduta, come l’antico popolo ai confini della terra promessa – ma sull’invisibile e allora la vita l’hanno trovata, la loro vita è fiorita! Se noi costruiamo la vita sulla fede, la nostra fede fa diventare bella la vita, ma se noi costruiamo la nostra vita sulla diffidenza, quella diffidenza ci farà morire ai margini della bellezza della promessa di Dio, non potendovi mai entrare.

Questo diviene proprio una contraddizione se ci pensiamo, perché noi viviamo, abbiamo deciso di vivere un giorno per l’invisibile, per la promessa di Dio, per quella terra che ancora non vediamo. e poi? Portiamo avanti la vita e moriamo avendo vissuto al di fuori di quello che era il senso della nostra vita. E’ proprio vero che siamo capaci di tutto, anche di queste radicali contraddizioni, a motivo delle quali rimaniamo sempre tristi, alla fine non realizzati.

Il realizzarsi infatti non è fare quello che si vuole, realizzarsi nella vita non è portare a compimento le nostre caratteristiche umane! Il realizzarsi nella vita è vivere di fede e dare fiducia alla promessa di Dio, è buttarsi tra le braccia di Dio ascoltando la sua Parola. Questo è il realizzarsi, altrimenti parliamo di una realizzazione che è mondana, inseguiamo una realizzazione che è mondana e che non troveremo mai, rimanendo sempre non realizzati e sempre tristi, sempre esiliati! L’unica nostra vera realizzazione, che ci riempirà il cuore e farà fiorire la vita a beneficio del mondo, sarà quella che avremo ottenuto nel mondo quando ci saremmo buttati dentro la Parola di Dio, quando saremo entrati senza vedere nella terra promessa, quando avremo tolto tutti i nostri calcoli umani e ci saremo consegnati all’amore di Dio: quella sarà la realizzazione autentica della nostra vita!

Questa è la fede, che nello sguardo della lettera agli Ebrei rende feconda la vita, facendo realizzare opere grandi e permettendo di sopportare prove grandi. Così si esprime l’autore della lettera sempre al capitolo 11 a proposito di coloro che vissero di fede: !Trovarono forza nella debolezza. Furono torturati, subirono scherni, flagelli, catene, prigionia, furono lapidati, torturati, uccisi di spada, andarono in giro bisognosi, tribolati, maltrattati”. Perché? Perché credevano all’invisibile, altrimenti sarebbero stati i più stolti tra gli uomini! Hanno affrontato questo e, potremmo dire, hanno vissuto anche il martirio perché credevano alla promessa di Dio, credevano al Risorto vivente, credevano alla terra della promessa!

Noi a volte rischiamo di vivere tutto questo – le tribolazioni, le difficoltà, le fatiche, le incomprensioni, i dolori della vita – senza un perché. Perché le abbracciamo? Perché noi abbiamo creduto all’amore, perché crediamo alla promessa di Dio, altrimenti perché?

E’ certo che nella misura in cui la fede è grande aumenta la capacità di questo darsi che diventa un donarsi per amore, qualunque cosa questo donarsi debba o possa comportare. Se viene meno la fede, le fatiche nostre di ogni giorno, i problemi nostri di ogni giorno, i dolori nostri di ogni giorno sono la più grande stoltezza che possiamo vivere. Ma se la fede è grande, questo diventa il modo per dire che il Signore è davvero il centro della vita e che anche lì la vita ha un senso, fiorisce ed è un amore vero, nel quale ci consegniamo all’amore di Dio.

L’elmo della salvezza
La lettera agli Ebrei ci ha aiutato, potremmo dire, a completare il quadro dello scudo della fede. Questo pomeriggio vogliamo considerare anche un’altra arma che fa parte dell’armatura che vogliamo ricevere dal Signore, per poter affrontare il combattimento spirituale: è quella che San Paolo, tornando alla lettera agli Efesini, indica come “elmo della salvezza” dicendo “Prendete l’elmo della salvezza”. Ci domandiamo, come abbiamo fatto anche le altre volte, che significato ha questa espressione paolina e anche qui ci accorgiamo che l’apostolo ha preso a prestito questa espressione dal libro di Isaia, che al capitolo 59,17 scrive così: “Dio si è rivestito di giustizia come di corazza e sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza, ha indossato le vesti della vendetta, si è avvolto di zelo come di un manto”.

In questo brano del profeta Isaia che cosa si presenta? L’azione di Dio che mette a posto le cose, che fa giustizia, che pone sul proprio capo l’elmo della salvezza, cioè si prepara a giudicare, a salvare, a distinguere il bene dal male e a portare la salvezza al suo popolo. Rivestire l’elmo della salvezza diventa il segno dell’intervento di Dio che sistema ciò che non è in ordine.

Facendo riferimento a questo passaggio di Isaia, l’esortazione di questa lettera agli Efesini sembra voler dire allora che il cristiano è chiamato a rendersi partecipe di quest’opera di salvezza di Dio. C’è però un particolare che forse ci può aiutare e che riguarda l’originale di quel verbo che in italiano è tradotto “comprendete”: letteralmente il verbo dovrebbe essere tradotto “ricevete l’elmo della salvezza”, cioè mettetevi in condizioni di ricevere questo elmo, di rivestire questo elmo di salvezza. In questo senso l’azione salvifica é di Dio e l’uomo è chiamato ad accoglierla nella propria vita. Qui allora l’apostolo Paolo vuole sottolineare che dobbiamo ricevere dal Signore la sua opera di salvezza, la sua azione salvifica. Questo elmo di salvezza é un’immagine simbolica attraverso la quale ci è detta l’opera di Dio e per approfondire il significato di questa espressione ci serviamo di due altri passaggi tratti rispettivamente dalla lettera agli Efesini e dalla lettera ai Filippesi:

  • 3,14-19: “Il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e possiate conoscere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità dell’amore di Cristo”, in altri termini, “lasciatevi invadere da questo amore di Cristo che è la vostra salvezza”. L’amore di Cristo, da cui siamo chiamati a lasciarci invadere, è un amore che supera ogni conoscenza. Noi conosciamo l’amore del Signore, conosciamo il piano di Dio attraverso il quale Egli ha voluto condurci a salvezza, salvarci dal peccato, dalla morte, dal male dell’insignificanza, però è come se qui Paolo dicesse che c’è una conoscenza ancora più grande dell’amore di Dio in Cristo, che noi possiamo sperimentare: é quando realmente il cuore rimane impresso da questo amore, scosso da questo amore, ormai per sempre toccato da questo amore.
    L’elmo della salvezza, da questo punto di vista, è l’amore di Gesù che davvero è diventato un tutt’uno con noi. Quell’amore che abbiamo sperimentato nella preghiera, che abbiamo sperimentato attraverso le vicende della vita, quell’amore per il quale possiamo dire “Tu sei tutto per me! ti ho davvero incontrato, ti ho davvero visto, ti ho davvero ascoltato, ti ho davvero accolto nella mia vita!”, questo è l’amore che supera ogni conoscenza, perché non è semplicemente una conoscenza teorica, ma è un’esperienza vissuta che ha lasciato e che lascia traccia di sé dentro di noi.
    C’è una bellissima frase che un autore abbastanza noto, Jan Dobraczyński, mette in bocca ad un personaggio biblico raccontando la storia di Mosè: “Io ti amo oltre la vita”. Quando noi possiamo dire a Gesù che lo amiamo oltre la vita, lo amiamo oltre la nostra vita, non soltanto perché il nostro amore va e si perde nell’eternità – nella quale speriamo di incontrarlo per sempre – ma anche perché ora il nostro amore passa l’amore per la nostra vita, allora siamo in quello che dice san Paolo, l’amore che supera ogni conoscenza. Certo, quest’amore è un dono, però é anche il frutto di un nostro donarci, di un nostro perderci, di un nostro affidarci quotidiano, di un nostro rinnovare i sentimenti verso il nostro Signore, della volontà di amarlo, del nostro chiedere il dono di un amore sempre più grande! Quando siamo dentro questo amore noi abbiamo l’elmo della salvezza, che ci mette al riparo dalle insidie del diavolo!!
    Quest’oggi e in questi giorni stiamo davanti a Gesù, avremo l’occasione per farlo di nuovo oggi, avremo l’occasione particolare per farlo durante la notte: diciamoglielo – perché, in qualche modo, il cuore possa seguire alle parole – “Io ti amo oltre la vita, voglio amarti oltre la vita, toccami il cuore perché possa conoscere questo tuo amore che supera ogni conoscenza, fammi sentire quell’amore infinito che solo tu sai donare al cuore dell’uomo!”. Questo sia la nostra preghiera oggi, una immersione vera in quell’amore che supera ogni conoscenza. Lasciamo che il Signore ci doni questo elmo della salvezza, non abbiamo paura, non temiamolo!
  • Filippesi 3,7-11: “Possiate conoscere Lui, Gesù, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze”. In fondo Paolo vuol dire quella stessa cosa che ha detto nella lettera agli Efesini, seppur con altre parole: “lasciatevi invadere dalla salvezza”, cioè dalla morte e risurrezione del Signore. Paolo parla della salvezza come di un lasciarsi toccare e raggiungere dalla morte e risurrezione di Gesù: anche qui, in fondo, si tratta di domandare la grazia che la morte e la risurrezione del Signore non siano soltanto parole, non siano semplicemente qualcosa che conosciamo con gli occhi dell’intelligenza, ma siano qualcosa tramite cui entriamo con la vita dentro la morte di Gesù, dentro la risurrezione di Gesù, dentro quel passaggio di salvezza che Gesù ha compiuto e vissuto per me, ma perché io poi lo facessi con Lui!

Teniamo presenti due aspetti:

  • noi possiamo entrare dentro la morte di Gesù quando partecipiamo intimamente alle sue sofferenze, e questa partecipazione intima alle sofferenze di Gesù Paolo, per accenno, la chiama “forza nella debolezza” e“umiliazione”. In effetti, tutte le volte che noi siamo deboli, sotto ogni punto di vista, tutte le volte nelle quali sperimentiamo la nostra fragilità, la nostra fatica, il nostro non farcela fisicamente o psicologicamente, noi entriamo dentro la debolezza di Cristo, la sua stessa passione, comunichiamo alla sua sofferenza, alla sua povertà umana. Quando il corpo si fa pesante, quando la psiche è turbata, quando il fisico è martoriato, noi entriamo dentro la debolezza di Cristo, la facciamo nostra, la sperimentiamo. Noi con fede siamo così chiamati a vivere la debolezza nella nostra vita ed è per questo che la debolezza diventa forza, perché non è nostra, è quella di Gesù! Dicevamo ieri delle nostre gocce di sangue collocate dentro il sangue di Gesù, nel suo calice: quando le nostre debolezze quotidiane diventano un’unica cosa con la debolezza di Cristo, ecco che entriamo dentro la sua passione e la sua morte, ci rivestiamo dell’elmo della salvezza.
  • Tra queste debolezze ha un particolare posto l’umiliazione: in verità già la nostra debolezza è umiliante, ma poi la vita ci riserva tante umiliazioni, prima fra tutte, forse, quella per la quale ci accorgiamo a un certo punto che noi non possiamo fare nulla, che tutto riceviamo, nulla è davvero nelle nostre mani; soprattutto quando ci rivolgiamo alla salvezza, ci accorgiamo che i nostri sogni di protagonismo si infrangono contro la nostra irrimediabile povertà … Questa è una grande umiliazione, quella radicale, ma poi ci sono tante altre umiliazioni che la vita ci porta a sperimentare: molte le viviamo noi in prima persona, molte sono gli altri che ce le procurano, ce ne sono tante, eppure quando viviamo dentro questa umiliazione noi dovremmo ricordare che entriamo dentro la passione e la morte di Gesù, che “umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di Croce”.

Ecco come per noi tutto ciò che è debolezza, tutto ciò che è umiliazione diventa rivestire l’elmo della salvezza, perché significa vivere tutto questo dentro l’esperienza di Gesù. Però, se noi possiamo entrare dentro la passione e la morte del Signore, noi possiamo anche lasciarci raggiungere dalla potenza della sua risurrezione. Questo che cosa significa? Che noi dobbiamo osservare, guardare, gustare e poi davvero entrare dentro tutte le manifestazioni di Cristo risorto nella nostra vita, e ce ne sono tante! Per tutto quello che in noi – direbbe San Paolo ai Galati – è amore, dedizione, pace e serenità, gioia, prontezza, tutto questo è manifestazione della potenza di Cristo risorto! Quello che in noi è vita di grazia, quello che in noi è bellezza, quello che in noi è risposta alla chiamata di Dio, quello che in noi è desiderio di santità, tutto questo è la potenza di Cristo risorto all’opera, e quando dentro di noi o attorno a noi vediamo fiorire la vita, la fede, la speranza, la carità  è come se vedessimo Cristo risorto operante, il suo Spirito vivente che soffia e produce frutto! Certo, noi siamo immersi dentro la debolezza di Gesù, siamo immersi dentro la morte di Gesù, siamo immersi dentro la passione di Gesù, però non dimentichiamo che siamo immersi dentro la potenza di Cristo risorto, che oggi opera in noi, fuori di noi, in tutto!

Noi dovremmo, a volte, fermarci e contemplare gli altri e noi stessi e quando ci accorgiamo di qualcosa di bello che fiorisce dire “Guarda la forza della risurrezione di Cristo, guarda che cosa sta operando, Gesù è vivo!”. Pensate che cosa è oggi la chiamata alla sequela di Gesù, se non una manifestazione della potenza di Cristo risorto, una manifestazione straordinaria della potenza di Gesù risorto! Entriamo, dunque, dentro la passione, la morte e la risurrezione di Gesù: nella misura in cui noi ci entriamo dentro, ecco che ci lasciamo rivestire dall’elmo della salvezza, da quella parte di armatura che ci aiuta, ci salva, ci sostiene nel nostro combattimento spirituale, perché senza dubbio là dove l’amore di Cristo è sperimentato, là dove ci uniamo alla morte di Gesù, là dove entriamo dentro la risurrezione di Gesù siamo protetti da qualunque insidia e da qualunque attacco! Lasciamo, allora, che questa potenza dell’amore di Cristo, questa forza della morte e risurrezione del Signore vengano in noi e costituiscano l’arma!!

In questa notte di Adorazione – mentre staremo davanti a Colui che è risorto da morte, davanti a Colui che ci mostra i segni della sua passione e anche la gloria della sua risurrezione – domandiamo la grazia di questo amore appassionato scritto nel nostro cuore e anche la grazia di saper rimanere dentro la passione di Gesù e la sua risurrezione.

 LITURGIA DELLE ORE – COMPIETA
Le tre cause principali dello stato di desolazione
Nella riflessione di questa sera concludiamo l’esame della preghiera che fa Sant’Ignazio negli Esercizi: in questo esame abbiamo considerato soltanto alcune regole, alcune considerazioni, alcune raccomandazioni, per iniziare seppur brevemente questa sera a considerare la preghiera così come ce la presenta San Paolo, perché tra le armi che costituiscono l’armatura del cristiano, in vista del combattimento spirituale, San Paolo enumera anche la preghiera secondo un’accezione particolare che vedremo. Questo ci aiuterà anche ad entrare in questa grande preghiera della notte che faremo davanti al Signore.

Dopo aver delineato i tratti di quella che Ignazio chiama la desolazione spirituale, quindi il tempo della prova – quello che abbiamo detto essere un tempo di oscurità, anche di sbandamento, di fantasie pericolose – Ignazio enumera tre cause principali a motivo delle quali spesso entriamo dentro lo stato della desolazione:

  1. “perché siamo tiepidi, pigri o negligenti negli esercizi e nella vita spirituale”.Considerando questa prima causa, colui che vive lo stato della desolazione è causa esso stesso di questa desolazione, è dunque una desolazione colpevole, si è allontanato da quella che Ignazio chiama consolazione dello spirito per motivi legati alla sua trascuratezza nella vita di preghiera, così come nel cammino spirituale in generale. Il fatto però che la causa siamo noi non deve rattristarci – dice Ignazio – anzi, nel momento in cui noi ci accorgiamo di essere causa di questa desolazione dobbiamo prendere spunto dal lì per iniziare immediatamente un itinerario di conversione, di cambiamento, e anche quando la causa di questo stato sono io non mi devo deprimere, non devo perdere fiducia e forza, anzi, nel momento in cui ne divento consapevole devo rialzarmi immediatamente per un cammino di conversione e di revisione profonda della mia preghiera, della mia vita spirituale, di come sto camminando dietro al Signore. Anche in questo caso – dice Ignazio – la caduta diventa una grazia, perché mi permette di riprendere il cammino con rinnovato impegno ed entusiasmo. Comunque sia, quando ci troviamo nella desolazione la prima domanda che dobbiamo porci è “sono io la causa dello stato in cui mi trovo? é la mia vita tiepida la causa della mia prova? il motivo di questo mio stato interiore é la mia pigrizia, la mia negligenza nel rapporto col Signore, nell’esperienza della preghiera, nella generosità a seguire la parola di Dio?”
  2. talora non è per negligenza nostra, ma perché il Signore vuole provare quanto valore abbiamo e fino a dove siamo capaci di andare avanti nel suo servizio e nella sua lode senza grandi aiuti di consolazioni e di grazie”, in altre parole qui Sant’Ignazio dice: puoi trovarti nello stato di desolazione anche perché il Signore ti ci fa entrare, volendo provare quanto davvero tu lo ami, quanto tu realmente gli vuoi bene! Al riguardo Ignazio ricorda le parole che Pietro rivolge a Gesù, quando Gesù gli dice “Tu non potrai seguirmi, per adesso, là dove sto per andare” e Pietro – seppure senza tanta verità, ma con il cuore – dice a Gesù “Io ti seguirò fino alla morte, ti seguirò dovunque andrai!”. Lo stato di desolazione nel quale per prova il Signore ci mette è quasi perché il Signore vuole sentirsi dire da noi quello: “Signore, io ti seguirò fino alla morte, ti seguirò dovunque andrai!” É l’occasione che ci dà per compiere un atto di amore grande!
    Parlavamo oggi di quell’amore che supera ogni conoscenza, che deve diventare esperienza della vita e un tratto del nostro cuore: ecco, nella preghiera quando siamo nell’oscurità della prova abbiamo esattamente l’occasione per vivere concretamente questo amore oltre la vita e dire al Signore “non ti vedo, mi pare che tu non ci sia, non capisco nulla di quello che Tu mi dici, sono nell’oscurità, ma io ti seguirò fino alla morte, dovunque andrai!”. Ecco l’esperienza dell’amore che trafigge il cuore!
  3. questo avviene perché non cadiamo in qualche superbia o vanagloria, attribuendo a noi una devozione o una consolazione spirituale che invece non dipende da noie non è nostra”. Tutti abbiamo fatto l’esperienza di vivere dei momenti belli, di preghiera, dei momenti in cui ci sentiamo buoni davanti al Signore, forse un pochino anche ci sentiamo santi a volte, e allora ecco la grazia della desolazione, che viene a ricordarci che ogni forma di orgoglio e di vanagloria è proprio fuori luogo, perché tutto quello che noi abbiamo e sperimentiamo non è nostro, non è opera nostra, non è merito nostro, ma è tutta grazia ed è tutto dono di Dio. È come se attraverso quello stato di desolazione il Signore venisse a dire: “Ehi, guarda che non sei tu, sono io! guarda che non sei tu che con la tua bravura hai raggiunto questo gusto della vita spirituale e questa gioia della preghiera, sono io che te l’ho dato, e come te l’ho dato te lo tolgo!”.

Dunque una causa che Ignazio enumera è quella del preservarci dalla superbia e dalla vanagloria. E così anche nella preghiera possiamo fare quell’esperienza di grazia per la quale dobbiamo dire “tutto è da Te Signore, tutto è grazia tua, io senza di Te sono nulla e sono perduto!”. E’ bene che quando ci sentiamo orgogliosi sperimentiamo la tenebra della desolazione, perché in quel modo possiamo dire: “In verità, Signore, senza di Te sono perduto, intervieni Tu, liberami da questo stato, senza di Te non posso uscirne!”.

Ecco le tre cause che Sant’Ignazio ci dona a proposito della desolazione, per cui è interessante che a seconda di quello che viviamo nella preghiera ci domandiamo anche “perché sono in un tempo di oscurità? la causa sono io? forse ero orgoglioso e il Signore vuole farmi toccare con mano la mia povertà? oppure vuole sollecitare in me un atto di amore più vero, più grande, più totalitario?”. Così anche la desolazione diventa un grande momento di grazia e come sempre quando viviamo ogni cosa davanti a Dio ogni cosa porta in sé un bene, e un bene più grande per noi, tanto grande è la fantasia con la quale il Signore ci ama e con la quale vuole raggiungerci ovunque e sempre! Essere nelle mani di Dio è essere delle mani amanti che non ci lasciano mai e che fanno percepire questo amore ovunque, in ogni circostanza e sempre, anche se a noi non pare … ma la fede ce lo fa scoprire!

Per venire ad iniziare la riflessione su quanto invece San Paolo dice nella lettera agli Efesini 6, ci introduciamo lasciando Sant’Ignazio ma portando con noi qualcosa che leggiamo nella sua vita, in una parola che egli dice a uno dei suoi primi amici nella compagnia, Lainez, in un momento in cui stava riflettendo e pensando; per lui probabilmente era anche un tempo di prova, come tutti i grandi fondatori ad un certo punto della vita si è trovato in situazioni difficili, e dice: “Se tutto quello che ho pianificato fallisse, se tutti i miei desideri fossero frustrati e tutte le mie battaglie dovessero risultare vane, un quarto d’ora di preghiera mi riconcilierebbe e mi lascerebbe allegro compagno”. Ecco la forza della preghiera nella vita di un santo, ma ecco anche la forza della preghiera nella nostra vita: anche se tutto dovesse essere oscuro, un quarto d’ora di preghiera mi riconcilierebbe e mi lascerebbe allegro come prima! Sarebbe proprio bello se nella nostra esperienza quotidiana questo potesse verificarsi, e forse anche si è verificato: abbiamo avuto delle giornate in cui eravamo magari depressi perché le cose non andavano bene, il cuore era in tumulto per difficoltà, problemi o anche per una esperienza di nostra povertà e di caduta, la preghiera davanti al Signore probabilmente ci ha riconciliato, ridonato pace, dato nuovo slancio … è sempre così quando la preghiera è vera. Chiediamo la grazia che possa essere sempre così per noi!

Preghiere e suppliche nello Spirito
Portati per mano da Sant’Ignazio, questa sera iniziamo a riflettere sulla parola dell’Apostolo Paolo, che al versetto 18 enumera un’altra arma a completamento dell’armatura: “pregate, inoltre, incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello spirito”; iniziamo dalle due parole con le quali San Paolo accenna al tema della preghiera: preghiere e suppliche.

  • La prima parola, quella che è più abituale sulle nostre labbra, è il termine che ordinariamente indica il nostro rivolgerci a Dio, il nostro dialogo con Dio, il nostro parlare con Lui, il ritrovarci a tu per tu con il Signore, per ascoltarlo e per rivolgergli la nostra parola: questo è il termine preghieracosì come lo usa Paolo.
  • C’è poi anche questo secondo termine che sembra completare l’ambito e il tema della preghiera nella prospettiva paolina ed è il termine supplica: questa parola ricorre altre volte nel Nuovo Testamento e spesso è unita alla parola digiuno, quindi fa riferimento a momenti di preghiera particolarmente intensa, particolarmente fervorosa, la stessa parola supplicadice qualcosa di particolarmente intenso, che non è soltanto il dialogo tranquillo tra il Signore che parla e noi che rispondiamo o presentiamo a Lui la nostra vita, ma qualcosa di più sofferto, di sperimentato in profondità, più sentito, potremmo dire che è quella che nella biografia di Madeleine Delbrel che abbiamo ascoltato è stata definita la preghiera con il cuore in perdita, dove davvero c’è il cuore, c’è l’intelligenza, c’è l’emozione, c’è l’affetto, c’è la nostra vita, che è in gioco davanti a Dio. Pensando alla preghiera della notte che ci aspetta, sarebbe bello che fosse preghiera, ma fosse anche supplica, cioè preghiera con il cuore in perdita, dove davvero tutta la nostra vita entra e si dispone davanti al Signore.

Così San Paolo dicendo preghiera e supplica intende sottolineare la complessità della preghiera nella nostra vita, però poi aggiunge qualcosa, perché dice “pregate con ogni sorta di preghiere e suppliche incessantemente”: questo della preghiera incessante è qualcosa che ritorna anche nei Vangeli, perché è Gesù stesso che insegnando la preghiera dice: “bisogna pregare sempre senza stancarsi mai.” E allora è d’obbligo domandarci che cosa significa preghiera incessante, che cosa vuol dire pregare sempre senza stancarsi mai. C’è chi ha interpretato questa affermazione dicendo che questo pregare incessantemente in verità forse si può rendere con una preghiera che trova ogni occasione buona, cioè che si mescola alle situazioni della vita, e dunque che incorpora le vicende della giornata – come d’altronde per esempio ci fa fare la Liturgia delle Ore – quindi una preghiera che si rinnova durante la giornata e ci aiuta a mantenere vivo il ricordo di Dio pur nelle vicende, negli impegni, nei lavori, nell’apostolato … insomma, in ciò di cui è fatta la giornata.

Qualcun altro, soprattutto nella tradizione russa, ha interpretato in senso rigoroso questa preghiera incessante: tutti quanti noi conosciamo la storia del pellegrino russo e la vicenda di questo pellegrino, che si domanda che cosa vuol dire pregare sempre, senza stancarsi mai, che cos’è questa preghiera incessante che Gesù richiede e che Paolo presenta agli Efesini. Il pellegrino chiede a diversi asceti, a diversi maestri dello spirito, e finalmente gli viene suggerita la famosa preghiera del cuore: “Gesù, Signore, figlio di Dio, abbi pietà di me!”, una preghiera che non si smette mai di pronunciare, fino a tanto che diventa una cosa sola col battito del cuore, una cosa sola con il proprio respiro, e così diventa incessante la preghiera dell’orante. Certo, è un’altra possibilità e un’altra modalità, anche perché la preghiera incessante penso possa essere vissuta in tante modalità diverse tra di loro, complementari e certamente arricchenti, anche a seconda dello stato di vita che ciascuno vive.

C’è però anche un’altra possibilità che i maestri di spirito hanno considerato: ovvero partire dall’essenza della preghiera, perché la preghiera è unione con Dio, cioè fare in modo che la nostra volontà sia sempre fissa in Dio, e sia sempre di più una cosa sola con Dio: nel momento in cui si realizza questa comunione profonda di volontà, di intenti, di desideri, ecco che la preghiera è incessante, perché siamo una cosa sola con il cuore del Signore, il battito del cuore è il battito del cuore di Gesù, il nostro respiro è il respiro di Gesù, del suo Spirito. Forse siamo chiamati proprio a questo: diventare preghiera, come dicevano che divenne San Francesco, non perché pregasse continuamente come nella preghiera del cuore, ma perché era diventato egli stesso preghiera, in quanto non c’era nulla nella sua vita che fosse al di fuori della volontà di Dio, che fosse altro rispetto al desiderio di Dio, e allora era preghiera, cioè era offerta di sé, era una vivente oblazione rivolta al Signore!

Questo, al di là del fatto che sia una modalità, ci porta al cuore comunque della preghiera incessante, perché a nulla varrebbe di tanto in tanto fermarsi e pregare per cercare di inglobare tutto nella nostra preghiera, a nulla varrebbe ripetere incessantemente il nome di Gesù, se non ci fosse questa comunione di amore vera, intensa tra il nostro cuore e il cuore del Signore. E allora pregate, supplicate incessantemente, cioè facendo diventare una cosa sola la vostra vita con la vita di Gesù!

Infine, prima di concludere per questa sera, un ultimo invito che San Paolo fa è quello della perseveranza o anche della vigilanza: suppliche, preghiere, incessantemente, con perseveranza, con vigilanza. La perseveranza e la vigilanza ci porta sicuramente anche al pensiero di un tempo sottratto al sonno: è una tradizione antica della spiritualità cristiana passare la sera, la notte in preghiera, occupare un tempo della notte pregando, è quello che cercheremo di fare questa notte; dunque persevereremo, veglieremo, accogliendo l’invito di Paolo. Credo che sia importante che la nostra vita di preghiera conosca anche questi momenti di perseveranza forte, di veglia incisiva, perché ci aiutano a ricordare che la preghiera ha davvero il primo posto nella nostra vita e che vale la pena anche privarci di qualcosa di così importante come il sonno per stare davanti al Signore!

Oltre a questo significato, però certamente ce n’è uno anche più metaforico, spirituale: la veglia e la perseveranza ricordano un tempo quieto, cioè un tempo nel quale finalmente ci sottraiamo ad altre preoccupazioni, ad altri impegni, un tempo nel quale nella pace possiamo dedicarci al Signore della nostra vita. Questo significa anche che per la preghiera si conserva il tempo migliore, non il tempo peggiore della giornata: anche qui dobbiamo esaminarci, perché spesso ci capita di dire “beh, terminata la giornata pregherò, terminati quegli impegni pregherò …”. Questo significa mettere la preghiera come appendice di tutto il resto, e dunque lasciare a Dio il tempo peggiore, invece la preghiera ha il tempo migliore, la primizia del nostro tempo, che vuol dire il tempo nel quale noi immaginiamo di poter essere più tranquilli e quieti nella pace per dedicarci al Signore. Poi è chiaro che si farà quello che si può, ma il punto di partenza deve essere che a Dio do il meglio del mio tempo, a Dio do la primizia della mia giornata. D’altra parte, vegliare significa anche vigilare su come preghiamo, ovvero stare attenti che la frequenza della preghiera non si trasformi in abitudine stanca, non diventi un trascinarci in qualcosa che facciamo tanto per farlo, per obbligo, per consuetudine, ma che non è più assaporato, vero, preso in mano e vissuto realmente con il cuore e con la mente con tutto noi stessi.

Infine la perseveranza richiama una lotta con noi stessi, cioè una lotta contro la nostra incapacità ad essere fedeli, una lotta contro le variazioni di umore, di sentimento che noi viviamo, una lotta contro quella instabilità del cuore che tante volte ci caratterizza. Perseverare, vegliare significa esattamente lottare con animo coraggioso perché la stabilità dell’amore vinca sulla instabilità dell’emotività e del sentimento. Ecco dunque l’inizio di questa raccomandazione che Paolo fa circa l’arma della preghiera, che vogliamo portare con noi: certamente nella preghiera di questa notte avremo la possibilità di sperimentare la preghiera come dialogo a tu per tu, tra innamorati, Gesù con me, io con Gesù, faccia a faccia; avremo l’opportunità di sperimentare la preghiera come una supplica, cioè una preghiera con il cuore in perdita nella quale siamo davanti al Signore noi con tutto noi stessi, dove mettiamo tutta la nostra umanità, dove davvero supplichiamo, moriamo lì davanti al Signore, diamo la vita, la spendiamo per stare lì davanti al Signore; avremo questa notte l’occasione di vegliare, cioè affermare che Dio viene prima anche dei nostri bisogni primari qual è il sonno. Avremo l’occasione per affermare che la preghiera non è un’abitudine, ma è qualcosa che noi scegliamo ogni giorno e ogni volta, per essere sempre più come il Signore ci vuole; avremo l’occasione per perseverare, cioè per vincere l’instabilità della nostra emotività; avremo l’occasione per fare in modo che la nostra vita possa fare un passo avanti in quell’essere preghiera incessante, cioè dove noi ci trasformiamo nella preghiera.

Concludo ricordando un simpatico episodio accaduto a un missionario in Nuova Guinea: da poco era arrivato in questa missione e gli capitò che uno di coloro che recentemente erano stati battezzati – quindi un nuovo cristiano, neofita – dopo aver partecipato alla Messa, si fermò ritto in piedi davanti al tabernacolo. Questa cosa però non capitò una sola volta, capitò diverse volte, perché tutte le volte in cui partecipava alla Messa poi si fermava in piedi e rimaneva davanti al tabernacolo in un modo un po’ strano, cioè senza il vestito, a torso nudo, lì davanti al Signore. Allora dopo un po’ di volte che vide questa scena il missionario si avvicinò a questo suo neofita, giovane cristiano, e incuriosito gli chiese “perché fai così?” e questo giovane cristiano gli rispose “perché voglio che la mia anima si scaldi al sole!”.

Ecco, noi questa notte vogliamo in qualche modo fare la stessa esperienza di quel giovane cristiano, vogliamo stare qui davanti a Gesù, certi che stargli davanti ci scalda il cuore, ci illumina il cuore, ci trasforma il cuore: non dovremmo mai dimenticare che l’Adorazione è una grazia in sé, perché stare davanti a Gesù, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, significa rimanere impressi dallo splendore della sua bellezza e del suo amore. Con questa consapevolezza di fede, che è anche tanto gioiosa, viviamo la nostra Adorazione notturna!

 

PRIMA MEDITAZIONE
La spada dello Spirito
Per l’ultima volta in questa giornata riascoltiamo insieme il brano di Paolo agli Efesini, ricordandoci sempre quella attenzione di amore che desideriamo avere durante questo ascolto: come certamente abbiamo avuto modo di considerare in questi giorni, leggendo e ascoltando e meditando questo brano di San Paolo ci siamo resi conto della passione del cuore dell’apostolo, che conclude la lettera ai cristiani di Efeso – nella quale si è soffermato a contemplare il mistero del Signore e della salvezza e ha anche messo in guardia dai pericoli che sono presenti nel cammino, nel percorso dell’adesione a Dio – proprio col cuore in mano e dà quelle raccomandazioni attraverso le quali desidera che questa Chiesa di Efeso possa proseguire nella sicurezza e nella pace il cammino che ha intrapreso.

Noi vogliamo raccogliere dal cuore dell’apostolo e dalla sua passione di amore per la Chiesa di Efeso l’eco del cuore di Dio e della sua passione di amore per noi, perché questa parola così sentita dell’apostolo è la parola sentita con la quale Dio ci raccomanda “guarda che il cammino è fatto di combattimento, hai bisogno della mia armatura, non perderla mai di vista, portala con te, mettila su di te, difenditi così e rimani in piedi!”. Molto bella questa parola che San Paolo dice durante questa ultima esortazione agli Efesini, “perché possiate rimanere in piedi”. Che cosa rappresenta biblicamente questa postura “in piedi”? E’ l’uomo risorto, l’uomo rinato alla nuova vita, l’uomo che ha ricevuto la grazia della vita di Gesù in sé, e allora Paolo supplica “rimanete in piedi”, rimanete risorti, rimanete nel dono inestimabile che avete ricevuto: dunque “rivestitevi dell’armatura di Dio – è il Signore che lo dice a noi – rimanete in piedi, rimanente risorti con me, rivestitevi del dono che io faccio a voi di questa armatura, è il mio dono perché possiate vivere da risorti e rimanere in piedi da risorti fino all’ultimo giorno delle vostra vita e del vostro cammino in questo mondo!”. È come un testamento spirituale di Paolo ed è come la parola bella che il Signore oggi dice a ciascuno di noi!

Questa mattina ci soffermiamo su un altro pezzo dell’armatura ed è quello che Paolo definisce “la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio”. Anche in questo caso, come per le parti precedenti dell’armatura, ci domandiamo che cosa vuol dire Paolo con questa espressione “la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio”: anche queste parole, come già ne abbiamo visto altre, probabilmente vengono prese dall’apostolo dall’Antico Testamento e ancora una volta dal profeta Isaia. Infatti al capitolo 49 e al versetto 2 – siamo nel secondo canto del servo di Jahvè – il servo parla così: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha detto mio servo sei tu, Israele, sul quale manifesterò la mia Gloria”. Chi parla è questo servo un po’ misterioso che troviamo nel libro di Isaia, e questo servo appare come colui che ha una bocca simile a spada, cioè ha sulla bocca una parola che è efficace, una parola tagliente, diremmo noi, cioè una parola che va a fondo, entra in profondità, va a fondo nelle cose. Che si tratti di questo genere di efficacia – cioè di una parola che è tagliente, che affonda la lama, che entra dentro – appare ancora più chiaro attraverso un altro brano di Isaia al capitolo 11 al versetto 4, dove si parla del germoglio di Iesse su cui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza, e poi si dice “giudicherà con giustizia i poveri, fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà, la sua parola sarà una verga che percuoterà il violento”, si parla di una parola che è tipica di un giudice forte, giusto, che sa dare a ciascuno il suo.

Dunque si tratta di una parola che entra dentro, che è penetrante, che è tagliente, che giudica, che dice quello che è bene e quello che è male, dunque queste indicazioni dell’Antico Testamento ci fanno pensare ad una parola particolarmente forte e in questa sua forza anche efficace. Ma certo non si tratta di una parola umana, quanto piuttosto della Parola di Dio, la Parola che Dio dice in noi, è questa sua Parola che è forte, è questa sua Parola che è efficace, e dunque Paolo quando ci esorta a rivestirci della Parola di Dio che è la spada dello spirito ci esorta a rivestirci di questa Parola divina che è spada per la nostra vita, perché riesce a mettere a fuoco ciò che è da Dio e ciò che non è da Dio, divide, separa e dunque anche purifica. Ci domandiamo in quale modo la Parola di Dio può effettivamente nel concreto della nostra vita essere la spada dello spirito e al riguardo ci poniamo tre domande, rispondendo alle quali forse troveremo qualche indicazione utile.

Che cos’è la Parola di Dio?
Non è una domanda inutile, perché noi spesso parliamo di Parola di Dio, ma forse non sempre diciamo questa espressione con la chiarezza dovuta e con la consapevolezza vera di che cos’è la Parola di Dio, perché noi immediatamente siamo portati ad applicare questa terminologia a qualcosa di molto concreto – per esempio la Scrittura – ma non è giusto fare questa equiparazione tra Parola di Dio e Scrittura perché non si tratta di questo, la Parola di Dio è qualcosa di più, e allora cerchiamo di considerare davvero quale sia l’immensità di questa Parola di cui spesso parliamo, per ritrovarla in tutta la sua bellezza, in tutta la sua portata.

Prima di tutto Parola di Dio è il Logos cioè il Verbo di Dio, quello che dall’eternità è rivolto al Padre: dunque l’eterno Verbo, il vivente, dal quale tutto discende e dal quale tutto deriva è la Parola eterna del Padre che dà vita al mondo, che crea il mondo, che sostiene il mondo, che ora sostiene e dà vita alla nostra umanità, alla nostra storia, dunque Parola di Dio è anzitutto il Verbo eterno rivolto al Padre, Parola creatrice, e dunque quella Parola che è scritta dentro la creazione, perché la creazione è Parola di Dio in atto.

Se noi viviamo, se noi respiriamo, se noi esistiamo è perché c’è questa Parola creatrice che continuamente ci fa essere, che ci dà vita! Tutto è stato fatto per mezzo di questa Parola e in vista di questa Parola che è il Verbo, il figlio eterno di Dio. Dunque è importante che iniziamo da qui quando diciamo “Parola di Dio”. Certo questa Parola che è eterna, creatrice, che sostiene il mondo diventa poi parola anche pronunciata, potremmo dire sillabata nella storia. Dio invia questa sua Parola, manda il suo messaggio, e dunque Parola di Dio diventano anche le parole pronunciate nella storia dei Profeti Geremia, Isaia, Ezechiele, ma questa Parola non è un discorso come lo intendiamo noi, è una Parola efficace, che realizza ciò che pronuncia, che fa ciò che dice, trasforma ciò che tocca, cambia ciò su cui si posa, non lascia mai le cose come le ha trovate, perché deriva dal Verbo di Dio, da questa Parola creatrice e trasformante, è una emanazione di quella Parola eterna e dunque ne conserva tutta la forza, tutta l’efficacia, tutta la potenza creatrice e di rinnovamento. Questa Parola profetica e di tutti gli uomini che sono parte della Storia della Salvezza ad un certo momento per ispirazione di Dio viene messa in un libro, e abbiamo la Bibbia, la Scrittura, quella che con più facilità noi siamo soliti chiamare Parola di Dio, quella che San Bernardo con un’immagine molto suggestiva chiama Verbo abbreviato. Allora come la parola profetica è un riflesso della Parola eterna, così la Scrittura è un riflesso di questa Parola eterna, del Verbo eterno di Dio, e la forza di questa parola è il fatto che discende dalla Parola creatrice, dal Verbo eterno di Dio: non si tratta soltanto di una lettera scritta, non è questa la cosa importante, la cosa importante è Chi ci sta dietro, cioè la forza di Dio che la pronuncia. Questa Parola raggiunge ad un certo momento della storia il suo culmine ed è quando il Verbo si fa carne: a questo punto Gesù – quella Parola eterna che era stata poi pronunciata attraverso la bocca dei Profeti, che è stata messa per iscritto nella Bibbia per ispirazione dall’alto – si fa carne, si rende visibile, assume un volto, Gesù è la Parola definitiva donata al mondo. Dunque per noi Parola non è un libro, Parola è una Persona, Parola è un Vivente, Parola è un Volto, il valore del libro non è in sé, ma nel fatto che è mezzo, via, strumento di incontro con Colui che pronuncia quella Parola, Gesù, il risorto, il vivente, il Verbo eterno di Dio fatto carne. Noi non adoriamo la Parola, noi adoriamo il Verbo di Dio fatto carne, Parola vivente di Dio! Non ci inginocchiamo davanti a un libro, ci inginocchiamo davanti a Colui che è all’origine di quel libro!

La medesima Parola di Gesù vivente che si presenta a noi attraverso la Scrittura vive anche nella Chiesa: il Nuovo Testamento, che noi chiamiamo Parola di Dio, è anche la predicazione apostolica, anche questa è Parola di Dio, dietro la predicazione apostolica sta il Verbo eterno, il Verbo fatto carne, la Parola vivente, che usa anche questa via e questo strumento per arrivare a noi, è il Verbo eterno che ci raggiunge in molteplici modi, anche attraverso la predicazione della Chiesa, quella predicazione iniziale che è entrata a far parte del corpo della Scrittura e quella predicazione continua che è la tradizione vivente e che trova un suo punto fermo nell’insegnamento della Chiesa e nel suo magistero. Anche lì noi ascoltiamo Dio che parla!

Questa Parola eterna di Dio, che attraverso tante modalità raggiunge la vita di ciascuno di noi, trova una via di espressione anche nella vita dei Santi, in coloro che sono riconosciuti dottori della chiesa e maestri di dottrina e di vita spirituale, anche lì la Parola si abbrevia, rimanendo espressione del Verbo eterno di Dio e diventando per noi Parola di Dio oggi, così come anche quelle ispirazioni, che noi ascoltiamo nel cuore in quanto corrispondenti alla volontà di Dio sulla nostra vita, anche quella è Parola di Dio detta a noi!

Il complesso di queste realtà ci mette in comunicazione con la Parola di Dio, tutto questo è Parola di Dio, e allora capiamo perché la nostra vita non può crescere, germogliare, vivere, se non vivendo di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio, questa Parola che ci raggiunge in molteplici modi, che avvolge la nostra vita, perché quel Verbo eterno si immerge nella storia, si incrocia col nostro cammino, riempie di sé la nostra giornata! Si tratta di mettersi in ascolto … ecco perché la nostra vita è obbedienza (dal latino ob-audire) a Dio che parla in molteplici modi: vivere cristianamente significa ascoltare quel Vivente, che non smette di parlarci in ogni modo nella nostra vita e nella nostra giornata! Ecco dunque che cos’è Parola di Dio, ed ecco allora forse da qui derivare un modo nuovo di entrare in relazione con la Parola di Dio, che certo trova un punto determinante e privilegiato nell’ascolto della Scrittura e del Vangelo, ma che deve anche comporsi con l’ascolto dell’insegnamento della Chiesa, con l’ascolto della vita dei Santi, con l’ascolto dei maestri di vita spirituale e dei dottori, con l’ascolto del cuore, con l’ascolto stesso della vita, in modo tale che realmente possiamo dire che siamo ascoltatori del Signore che ci parla! D’altronde quella complessità di manifestazioni, che la Parola di Dio ha, ci aiuta a fare in modo che il nostro ascoltare la Parola evangelica della Scrittura non divenga soggettivo, e dunque errato, perché soltanto nel complesso della Parola, così come viene a noi, il mio ascolto della Parola scritta diventa un ascolto ecclesiale, dunque un ascolto autentico, dove non corro il rischio di assoggettare la Parola all’emotività del cuore, alla soggettività della mia vita …

Perché la Parola di Dio viene definita da San Paolo “spada dello Spirito”?
Come mai questo paragone nella Parola paolina? In verità è Gesù che parla di spada, quando nel Vangelo noi ascoltiamo il Signore dire “non sono venuto a portare la pace ma la spada”. Allora forse per capire la Parola di San Paolo dobbiamo prima capire meglio che cosa intende Gesù, quando dice di essere venuto a portare la spada e non la pace. Gesù con questa espressione vuol dire che è venuto a distinguere, a dividere, a separare, la sua non è una pace dove tutto rimane com’è, la sua è una pace che è il frutto della divisione tra bene e male, è frutto di un giudizio tra ciò che appartiene a Dio e ciò che gli è contrario, è l’esito di un combattimento anche accanito, per cui il male è debellato e allontanato: questa è la pace evangelica, questa è la pace di Gesù!

Noi sappiamo che il regno di Dio è una mescolanza di bene e di male e sappiamo che il nostro cuore è mescolanza di bene e di male: Gesù viene con la spada perché sia possibile a noi distinguere ciò che è da Dio e ciò che non è da Dio. Ecco perché Paolo dice che la Parola di Dio è una spada, cioè è quella Parola che entra in noi per dividere, per giudicare, per distinguere per fare pace attraverso questa demolizione di quanto in noi non è da Dio.

Così Paolo viene a ricordarci che l’ascolto della Parola del Signore non è soltanto un’esperienza di luce che illumina e di dolcezza che si gusta, ma è anche esperienza di un’amarezza a motivo di un combattimento che ci è richiesto, perché la Parola pone alla luce tutto il male che è dentro di noi, e tutto ciò che forse fino ad allora non avevamo ancora visto, e che invece riusciamo a vedere e dunque possiamo estirpare e sradicare dal nostro cuore.

Questa dimensione della Parola come spada è quella che potremmo anche definire la capacità di discrezione, cioè la capacità di discernere, che la Parola di Dio ha nella nostra vita; questa dimensione di discernimento, o discrezione, viene sviluppata nella lettera agli Ebrei, una lettera che abbiamo già citato nei giorni scorsi e che è strettamente imparentata con il corpo Paolino. Oggi la riprendiamo in mano al capitolo 4 là dove parla proprio della Parola in quanto spada che discerne, lama che divide.

Al versetto 7, riprendendo un’espressione dell’Antico Testamento afferma: “oggi se udite la sua voce non indurite i vostri cuori”, e poi al versetto 12 “infatti la Parola di Dio è viva efficace è più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, scruta i sentimenti e i pensieri del cuore, non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a Lui noi dobbiamo rendere conto”: troviamo qui la descrizione di quanto Paolo sintetizza con quella sua definizione la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio.

Fermiamoci un istante su questa descrizione della lettera agli Ebrei, dove anzitutto si parla di un “oggi”, adesso, mentre ascoltiamo, e questo è importante che ce lo ricordiamo, perché l’oggi di Dio che parla è decisivo per vivere il rapporto con la Parola del Signore, come un rapporto personale, con il Vivente che è Gesù, presente e vivo. Quando io ascolto la sua Parola nella Chiesa, quando mi metto davanti a questa Parola nelle varie modalità attraverso le quali mi raggiunge, è proprio Lui che adesso – potrei vedere le labbra muoversi! – mi sta parlando personalmente. Dovremmo richiamare più volte alla nostra attenzione questo oggi, perché la tentazione o il pericolo ricorrente nella nostra vita è di prestare ascolto a quella Parola come a una parola fredda, del passato, o di un libro qualunque, e invece no! Perché lì davvero io ascolto la voce di Gesù per me adesso, quelle labbra si muovono, mi sta parlando Lui, è il Suo cuore che batte per me, in quella Parola proprio ora ho davanti a me Gesù, mi sta interpellando, mi sta pronunciando parole di Amore, mi sta riprendendo, mi sta entrando nel cuore per discernere, per farmi capire ciò che è da Lui e ciò che non è da Lui, adesso, oggi, ora!

In questo brano della lettera agli Ebrei con termini molto efficaci è espressa la capacità di penetrazione che ha questa Parola nella nostra vita e nel nostro cuore: infatti sembra di vedere la scena di un chirurgo, che con il suo bisturi incide la carne viva del malato, anzi, ancora di più, perché questa Parola penetra ancora più in profondità, arriva e vede là dove il bisturi del chirurgo non arriva e non vede, e anzitutto ci invita attraverso questo processo di distinzione – giudizio – divisione a distinguere bene ciò che sono i semplici slanci – legati alle emozioni o alla passione di un momento – da quello che invece è autentica passione per Dio, zelo per Dio, amore di Dio.

C’è sempre questa dimensione duplice nella nostra vita e nella nostra preghiera: la preghiera che è emozionale e la preghiera che è segno di un amore, la preghiera emotiva  – che oggi c’è e domani non c’è – e la preghiera che affonda le radici in un amore autentico, fedele, perseverante, volitivo. La Parola ci aiuta a capire che cosa è presente nel cuore: se una semplice emozione passeggera o un amore autentico, che è pronto a donarsi senza riserve, in altre parole se nella preghiera stiamo cercando noi stessi, la nostra gratificazione, il nostro gusto, o se stiamo davvero cercando Dio.

La Parola entra, penetra, discerne, giudica, e così ci aiuta ad andare per la via retta, quella dell’amore autentico; ci aiuta a distinguere tra giunture e midolla, dice la lettera agli Ebrei: le giunture sono ciò che tiene insieme il nostro sistema, la nostra struttura, senza giunture non sta su un corpo, una realtà; le midolla invece sono ciò che riempie la struttura. In questo senso la lettera agli Ebrei vuole dirci che la Parola di Dio entra in noi per distinguere

  • che cosa nell’esperienza della preghiera è sostanziale, necessario, strutturale – che non deve cadere mai – rispetto a ciò che è soltanto riempitivo, gusto personale, che può esserci e non esserci e che comunque può conoscere ancora maturazione
  • che cosa nell’esperienza della preghiera è sostanza rispetto a ciò che nell’esperienza della preghiera è invece accidente
  • che cosa nella nostra vita con Dio è sostanza è che cosa è accidente, passeggero
  • che cosa realmente è amore di Dio e che cosa invece sentimento, che viene e che va, che non è strutturale nel nostro rapporto col Signore
  • i sentimenti e i pensieri, ossia – tenendo conto dei termini usati e della loro radice greca –   le fantasie, che non hanno riscontro nella realtà e che semplicemente ci portano altrove distraendoci, e ciò che invece è diventato in noi il pensiero di Cristo, reale pensiero nella nostra vita
  • che cosa è amore vero rispetto a ciò che non lo è.

In altri termini la Lettera agli Ebrei, attraverso queste diverse immagini, vuole dirci: “guarda che la Parola del Signore entra in te, penetra in te, ti incide il cuore, perché vuole aiutarti a capire che cosa nella tua preghiera, nella tua vita, nelle tue scelte, nel tuo pensare è realmente Amore di Dio e ciò che lo è soltanto apparentemente amore di Dio. Ciò che in te è ancora ricerca di te stesso e ciò che in te è davvero donazione autentica, ciò che è in fondo un ripiegamento, da ciò che è una estasi cioè un’uscita da te, per andare a Dio e agli altri, ti aiuta perché tu non viva di inganni, ti aiuta perché la preghiera non sia un monologo, ti aiuta perché la tua vita spirituale non sia un andare verso di te, invece che un andare verso Dio e nel dono della tua vita, questa è la radice della Pace autentica, che la spada tagliente realizza nella nostra vita. In fondo perché? Perché questa Parola, dietro la quale noi sentiamo la voce del vivente, di Gesù, ci mette davanti a Lui e quando siamo davvero davanti a Lui, quando guardiamo lui quando fissiamo gli occhi su di lui, quando contempliamo le piaghe del suo costato, le ferite del suo corpo, quando insomma ci incontriamo faccia a faccia con il risorto vivo, allora non possiamo nasconderci dietro illusioni, fantasie, imbrogli, viene alla luce la verità della nostra vita.

Ritorniamo ad un aspetto del nostro cammino, cui abbiamo già accennato parlando della fede: se la nostra vita di fede diventa piano piano una relazione con un ideale, con un insieme di norme, di leggi, con una parola scritta, ma che non ha anima, ci è facile manipolare, perché possiamo sempre manipolare una norma, un ideale, una parola scritta, possiamo sempre adattarla a nostro piacimento, trovare le vie di fuga, le scappatoie, i modi per addomesticarla, ma se siamo davanti a un volto vivo questo non succede, se fissiamo negli occhi Gesù questo non può capitare, se siamo dentro le piaghe del Signore questo non può avvenire. Ecco perché è importante che recuperiamo sempre la dimensione personale della fede, e anche parlando di Parola, la dimensione del tu a tu con la Parola vivente che si rende presente in quelle vie di Parola: la Parola vivente è Lui, allora non scappiamo, non possiamo fuggire, non possiamo nasconderci. Per questo, credo, il grande San Giovanni della Croce diceva una cosa a proposito di una dimensione specifica della vita spirituale: un suo figlio spirituale gli domandava “come posso capire se quella relazione di amicizia che ho, con (era una religiosa, mi sembra) viene da Dio o non viene da Dio?”. San Giovanni della Croce rispondeva così: “mettiti davanti a Gesù, guardalo in volto, fissalo negli occhi, entra nel suo costato … se quando sei lì quel pensiero non ti turba, non ti fa arrossire, non ti toglie la pace, forse quel tuo affetto è buono”. Non di fronte alla norma, perché la norma la raggiro; non di fronte alla legge, perché la legge la uso come voglio; non di fronte a un ideale, perché un ideale lo sfiguro, ma di fronte a un vivente, e quel volto mi rimanda alla verità sulla mia vita, e non scappo …

Come lasciarci raggiungere, penetrare, dividere, giudicare dalla Parola del Signore?
Qui ci viene in aiuto direttamente San Paolo attraverso il brano di un’altra sua lettera, quella ai Colossesi capitolo 3 versetto 16: non ci sorprendano questi riferimenti della Scrittura che ci portano a volte momentaneamente al di fuori del brano che costituisce l’oggetto della nostra meditazione, perché – come ci hanno insegnato i grandi maestri – la Scrittura si legge con la Scrittura, la Parola si illumina con la Parola, ed è quello che stiamo cercando di fare anche noi in questi giorni e che dovremmo fare sempre.

Ecco che cosa dice San Paolo: “la Parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente, ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza cantando a Dio di cuore con gratitudine salmi inni e cantici spirituali”. A partire da questa frase della lettera ai Colossesi possiamo dire così: possiamo lasciarci raggiungere davvero dividere, giudicare, sanare dalla Parola di Dio quando questa Parola è sulle nostre labbra e quando la custodiamo nei nostri cuori. Allora proviamo a dire qualcosa di queste due vie che ci vengono consegnate.

La Parola di Dio sulle labbra
Una prima via per poter entrare in relazione con quel Vivente che ci parla continuamente è quella di avere sulle labbra la Parola di Dio. Questo lo facciamo abbastanza, perché durante una giornata molte volte questa Parola risuona sulle nostre labbra: la Liturgia delle Ore, le pagine della Scrittura, i salmi, le vite dei Santi, l’insegnamento della Chiesa … sulle nostre labbra in effetti c’è questa Parola, tuttavia dobbiamo pensare che avere sulle labbra la Parola debba significare che queste labbra non siano distratte, ma siano attente. Dovremmo in qualche modo anche noi rifare l’esperienza di San Francesco, che quando aveva sulle labbra il nome di Gesù poi leccava le labbra per gustare la dolcezza di quella parola. Ecco, avere sulle labbra la Parola significa gustare la dolcezza di quella Parola, leccarsi le labbra, cioè fare in modo che non sia semplicemente sulle labbra, ma che queste labbra la dicano, la pronuncino, la cantino col cuore, col gusto, con l’attenzione, con la partecipazione, con la consapevolezza di quello che stanno dicendo. Può capitare che sulle nostre labbra scorrano moltissime parole, ma appunto scorrano come fa l’acqua su un tessuto impermeabile: allora non può questa Parola diventare spada dello Spirito, lo diventa quando queste labbra assaporano la Parola che attraversa le labbra. Noi sappiamo come gli antichi – avendo l’abitudine non di scrivere, ma di parlare, cantare, raccontare – avessero la Parola del Signore spesso sulle labbra e come riuscissero a partire da quella Parola – che ormai era così familiare perché più volte letta, ascoltata, cantata, trasmessa – per comporre in proprio qualcosa che ne derivava: il Magnificat della Madonna è la composizione di versi della Scrittura, la Madonna quando inizia a cantare trovandosi in casa della cugina Elisabetta canta con la Parola di Dio, non con la Parola già costituita ma con una Parola che lei compone, un cantico che si compone di parole che tante volte hanno risuonato sulle sue labbra e che sono diventate parte della sua vita, e dunque parla con quelle parole e costruisce un cantico. Sarebbe interessante che di tanto in tanto anche noi provassimo a rivolgersi al Signore con parole sue, che mettiamo insieme per dare forma a un nostro canto, ad un nostro cantico, a una nostra elaborazione fatta di Parola, perché diventi parola rivolta a Dio. Questo forse ci aiuterebbe a far sì che quella Parola che attraversa le labbra le attraversi con l’accompagnamento di quella partecipazione, di quel gusto, di quella consapevolezza che è tanto necessaria!

Si racconta che nella diocesi in cui era Vescovo San Giovanni Crisostomo dopo un po’ di anni da quando era presente questo grande Vescovo ormai anche al mercato la gente parlava con la Parola di Dio. Tanto egli l’aveva fatta risuonare tra i suoi, tanto aveva cercato di inculcare l’amore di questa Parola che addirittura ormai al mercato la gente parlava l’uno con l’altro attraverso la Parola di Dio. E di un santo medievale si diceva che parlasse con la biblioteca del cuore, dove in quella biblioteca ormai era ben sedimentata la Parola del signore che era risuonata sulle sue labbra. Ecco, nella misura in cui sulle nostre labbra risuona spesso, continuamente, con la partecipazione vera la Parola del Signore, questa Parola diventa spada dello Spirito, che ci aiuta a discernere ciò che è da Dio e ciò che non è da Dio.

La Parola di Dio nel cuore
Questa Parola che entra nel cuore è una Parola che, come faceva la Madonna, dobbiamo custodire gelosamente. “Meditava tutte queste cose”: dobbiamo prendere esempio da Maria, soprattutto perché i Vangeli ci fanno intendere che la Madonna non sempre capiva subito che cosa accadesse, non soltanto a volte non capiva le parole di Gesù, dell’Angelo, di Dio, ma non capiva la Parola nei fatti della sua esistenza – per dire ancora una volta la complessità e la bellezza dell’ampiezza della Parola di Dio – non capiva e custodiva; per lei non capire non significava scartare, significava custodire in attesa di capire: sapeva che quella era Parola di Dio, dunque sapeva che a quella Parola doveva comunque affidarsi, non capiva, ma si affidava. Noi spesso quando non capiamo scartiamo, oppure quando non capiamo abbassiamo e addomestichiamo, perché c’è il non capire che è proprio un non capire, ma c’è un non capire in rapporto alla propria vita perdendo quella Parola come troppo esigente, troppo alta rispetto a quello che stiamo vivendo. Può darsi che in quel momento non sia per noi, ma dobbiamo comunque rimanerci aggrappati, in attesa di capire che cosa quella Parola ha da dirci in modo compiuto e più chiaro. La Parola del Signore diventa spada dello Spirito quando abbiamo la pazienza di custodirla nel cuore, sempre: siamo chiamati a diventare uno scrigno di Parola!

Nella preghiera di oggi mi pare che, rimanendo su questo richiamo dell’apostolo Paolo, dobbiamo chiedere proprio la grazia di poter essere nella nostra vita ascoltatori di Dio, che parla sempre in ogni modo, in tanti modi, e la grazia che questa Parola verso la quale siamo protesi con amore e con desiderio possa svolgere liberamente il proprio compito di spada che taglia, divide, giudica e discerne, per poter sempre meglio capire che cosa Dio vuole da me, dove Dio vuole che io vada.

Ho citato in questi giorni il libro di Jan Dobraczyński sulla storia di Mosè: in quel testo c’è un dialogo molto bello tra Mosè e Giosuè, dove l’antico condottiero del popolo di Dio si rivolge al giovane, che presto dovrà prendere il suo posto, mettendolo in guardia dal fatto che ancora non è capace di ascoltare fino in fondo la voce di Dio che gli parla nel cuore, e gli dice questo: “abbi pazienza, sii perseverante, protenditi con tutto te stesso verso questa Parola ascoltandola, perché ancora non hai imparato a porre i tuoi piedi sulle orme dell’Eterno”. Ecco, il nostro rapporto con la Parola spada dello Spirito deve tendere lì, a mettere sempre di più i nostri piedi sulle orme dell’Eterno e quindi a fare in modo che la nostra via sia la sua in modo sempre più corrispondente, pieno e vero: allora chiediamo questa grazia in un modo particolare!

Nel pomeriggio avremo l’opportunità di vivere alcune ore in quello che possiamo chiamare un piccolo nostro deserto, non avremo momenti di incontro, né di meditazione, né di preghiera insieme, ma ciascuno nelle ore pomeridiane potrà vivere da solo a tu per tu con il Signore proprio per fare questa piccola ma sempre bella esperienza del solo a solo con Dio, del deserto di altre presenze, di altre parole, di altri rumori … Che sia deserto vero e non sia invece una perdita del nostro tempo, che sia un deserto autentico dove vogliamo stare con Dio e basta, anche per fare sintesi di questi giorni, fare il punto e soprattutto progettare davanti al Signore. Non è pensabile che torniamo alle nostre case e alle nostre occupazioni uguali rispetto a quando siamo arrivati qui, sarebbe una disfatta troppo triste, non può non cambiare nulla e non possiamo tornare nelle nostre case e alle nostre occupazioni semplicemente dicendo in modo astratto “ah, cambierò vita” … non serve a niente, perché non cambierò nulla, dopodomani sarò da capo! Dobbiamo invece tornare alle nostre occupazioni, alla nostra vita di ogni giorno, nelle nostre case con la concretezza di qualcosa che realmente cambia, cambia nel modo, cambia nello stile, cambia nei miei programmi … chi ci vede tornare deve capire che qualcosa è cambiato, anche esternamente, e poi certo soprattutto interiormente, ma io devo capire dove il Signore mi ha portato a cambiare in questi giorni e devo progettare di vivere in modo diverso nei giorni che mi accompagnano. Se tornassimo a casa così come siamo, semplicemente affermando “Voglio cambiare”, avremmo perso 5 giorni della nostra vita, e non penso che li vogliamo perdere: siamo qui per vivere con serietà, come facciamo sempre, il nostro incontro con il Signore, per vivere autenticamente nella fede la nostra vita consacrata, espressione di questa verità e di questa serietà. La volontà autentica di cambiamento e di conversione deve essere concreta, scritta nella vita, scritta nelle decisioni, scritta nei programmi, scritta in alcuni impegni quotidiani, scritta non nell’aria ma nella carne delle nostre vite!

LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Venerdì della XVII settimana, anni pari: Geremia 26,1-9; Matteo 13,54-58
La pagina del profeta Geremia e il brano del Vangelo di San Matteo sono accomunati da alcuni particolari. In entrambe queste pagine si parla della Parola del Signore che risuona là per mezzo del profeta Geremia, qua direttamente attraverso la voce di Gesù. In entrambi questi brani la Parola risuona in un luogo sacro, cioè in un luogo della presenza di Dio: per Geremia nel tempio, nel caso di Gesù nella sinagoga. E ancora in entrambi questi brani la Parola che risuona non è accolta, anzi è scacciata via.

Questo quadro, che costituisce un parallelo tra i due brani della Scrittura, ci aiuta a mettere a fuoco un particolare importante: questa Parola, che risuona e che non è accolta, risuona nel luogo in cui Dio stesso abita e non è accolta da coloro che si trovano nel luogo in cui Dio abita. Sono dunque due pagine che non riguardano estranei, non riguardano uomini e donne lontani da Dio, non riguardano un popolo che non ha la fede, ma riguardano gente che appartiene a Dio, che è stata da lui chiamata, che vive abitualmente la propria relazione con il Signore. Allora queste pagine riguardano noi e la Parola che noi qui ascoltiamo, che è direttamente indirizzata a noi.

Noi possiamo tranquillamente rispecchiarci in quel popolo che era nel tempio e che dice a Geremia e attraverso Geremia la stessa Parola che risuona: “Tu devi morire”. E noi possiamo tranquillamente immedesimarci in quegli uomini che erano nella sinagoga e che ascoltando Gesù parlare – perciò in relazione con la Parola vivente del Signore – dicono: “Ma che cosa viene a dirci questo!? Che se ne vada!”.

Potrebbe sembrare un po’ duro questo metterci così strettamente in relazione con quel popolo antico e con gli abitanti di Nazareth, ma in verità non è così duro, perché non è difficile ritrovare nella nostra vita, a volte, la stessa esperienza di quel popolo e di quella gente di Nazareth, perché è capitato anche a noi di dire: “Devi morire, stai zitta, vattene! Vattene da me, mi dai fastidio! Questo tuo risuonare mette in crisi! Vattene via, muori dentro il mio cuore!” ed è capitato anche a noi, di tanto in tanto, di rivolgerci più o meno espressamente alla Parola ascoltata dicendo: “Ma cosa mi vieni a dire? Ma che cosa me ne faccio? C’è ben altro, c’è altro a cui devo dare ascolto! E’ un’altra la strada che devo percorrere! Chi sei tu?”

In questo modo la Parola che anche oggi ascoltiamo ci permette di prolungare per un momento la meditazione di questa mattina e di individuare due modalità molto concrete attraverso le quali noi impediamo alla Parola di essere spada dello Spirito per la nostra vita:

  • Questo popolo antico è nel tempio come noi tante volte siamo in chiesa e ascoltiamo lì la Parola che ci viene rivolta: che cosa facciamo per impedire a questa Parola di essere spada dello Spirito? Non ammettiamo che venga a contraddirci, non sopportiamo che venga a mettere in luce il male che è in noi, non vediamo di buon occhio che ci metta a nudo scoprendo le nostre miserie, le nostre piaghe, le nostre infedeltà, i nostri tradimenti, non ci va bene che ci venga a farci del male. Allora dicendo “Devi morire, taci, non parlarne più!” impediamo a questa Parola di essere spada salutare dello Spirito per la nostra vita: dobbiamo ammettere che è proprio così; forse in modo non così lampante, chiaro, forte, però in modo più sottile è così. Impedisco a quella Parola di dirmi tutto quello che ha da dire perché ne ho timore, ne ho paura, la schivo perché altrimenti mette a nudo la mia povertà, la ascolto solo fino a un certo punto, perché se scendo in profondità e lascio che entri davvero dentro di me, ecco che mi scopre nel mio nascondermi a Dio e a me stesso.
    Domandiamo la grazia di permettere alla Parola di Dio di essere spada dello Spirito lasciando che svolga il suo compito senza che glielo impediamo, lasciamo che entri in noi con tutta la sua forza e capacità di dividere e discernere, chiediamo la grazia di essere coraggiosi nel lasciarci mettere nella luce vera da questa Parola. Forse ancora adesso, forse ancora oggi noi viviamo con una maschera nel cuore e cerchiamo in tutti i modi di non chiamare per nome le cose come sono: facciamo finta o non ci pensiamo o diamo un’identità diversa a ciò che in verità è peccato, per la nostra infedeltà e mediocrità. Lasciamo invece che il Signore con la sua Parola entri nel cuore e ci faccia vedere, ci faccia toccare con mano, ci aiuti realmente a cambiare!
  • La gente di Nazareth impedisce a quella Parola di risuonare con tutta la sua portata e con tutta la sua forza, non dicendo “Devi morire” ma dicendo “Ma è proprio questa la Parola di Dio?”. Viene il dubbio, perché è talmente vicina, è talmente prossima, è talmente concreta che non sembra vera. C’è una pre-comprensione, un pregiudizio: la Parola viene a me come voglio io, la Parola viene a me quando voglio io, la Parola viene a me nei modi in cui io intendo che venga e non accetto che possa sorprendermi. La Parola di Dio è impedita a compiere il proprio compito di spada, perché non c’è la disponibilità a lasciarsi sorprendere da questa stessa Parola: “E’ proprio possibile che sia questa? E’ proprio possibile che venga a me così? E’ proprio possibile che entri nel mio cuore attraverso questa strada imprevista che non avevo messo in conto?”.
    Ecco, noi tante volte, come coloro che erano dentro la sinagoga, abbiamo un nostro modo di pensare la Parola del Signore e la costringiamo a questo nostro modo così povero, non le permettiamo di essere libera, di venire come vuole, di andare dove vuole, di venire a modo suo e di portarci per vie sue, cerchiamo di inscatolarla. Perché? Perché non vogliamo essere distolti dalle nostre sicurezze, non vogliamo essere portati via dalla nostra pigrizia, non sopportiamo che venga ad indicarci orizzonti più alti rispetto a quelli a cui ormai ci siamo ormai abituati. E allora non la riconosciamo, la respingiamo e non le permettiamo di essere spada dello Spirito.
    Chiediamo allora anche la grazia di essere davvero liberi davanti a Dio che ci parla, di essere pronti ad una imprevedibilità della sua Parola, di non costringerla nei nostri schemi, ma di essere sempre realmente aperti, pronti all’imprevedibile e all’imprevisto di Dio. Queste due grazie ci accompagnino, chiediamo queste due grazie perché realmente, come dice San Paolo, la Parola possa essere spada e possiamo così essere armati dell’arma che ci protegge nel combattimento e nel cammino della vita.

LITURGIA DELLE ORE – COMPIETA
La preghiera come arma
Ho la speranza che il tempo del deserto sia stato fruttuoso e che abbia fatto fiorire tanto desiderio di una sequela rinnovata del Signore e anche tanti propositi concreti per la nostra vita.

Questa sera riprendiamo, ancora una volta e per l’ultima, il tema della preghiera: l’abbiamo affrontato considerando l’insegnamento di Sant’Ignazio, che ci aiuta a discernere nell’ambito della preghiera quello che viviamo secondo Dio e quello che invece è un ostacolo, un’insidia da respingere; abbiamo considerato anche le indicazioni che dà l’apostolo Paolo nel brano della lettera agli Efesini, indicando la preghiera come una delle armi che ci sono affidate perché possiamo combattere la nostra lotta spirituale quotidiana.

Tra gli elementi che San Paolo sottolinea, scrivendo agli Efesini, ieri sera abbiamo considerato il termine preghiera e il termine supplica, che insieme vengono a delineare un po’ la ricchezza complessa del nostro stare davanti a Dio. Poi abbiamo ancora sottolineato il tema della vigilanza ed il tema della perseveranza, perché Paolo parla proprio così: vigilando a questo scopo con ogni perseveranza.

Ci rimane da dire qualcosa di alcune altre indicazioni che Paolo dà quando illustra la preghiera come arma dell’armatura.

1. La prima di queste, la preghiera di cui parla l’apostolo, è la preghiera nello Spirito Santo: anche in questo caso, come in questi giorni abbiamo cercato di fare, ci domandiamo che significato ha questa espressione; vediamo due testi importanti che forse ci possono aiutare.

  • Il primo è dal Vangelo di San Giovanni, al capitolo 4, che ci pone davanti ad un incontro importante, quello che Gesù ha con la donna di Samaria: durante quel dialogo Gesù parla proprio in questi termini, perché afferma che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Questo pregare in spirito e verità certamente ha a che fare con lo Spirito Santo e ci viene a dire che l’elemento centrale della preghiera è proprio il fatto che avvenga nello Spirito Santo. Poi ci possono essere altri elementi, ma la parola che Gesù rivolge alla samaritana intende sottolineare come l’autentica preghiera è quella che avviene nello spirito, cioè nello Spirito Santo. Non è che qui si descriva qualcosa in più, però si fa un’affermazione importante, che ancora di più ci incuriosisce circa il significato di questa parola: la precisazione importante è che la preghiera è tale quando è nello Spirito, altrimenti rischia di essere una preghiera superficiale; noi dovremmo dire, addirittura, che non è una preghiera cristiana quella che non avviene nello Spirito Santo, addirittura forse un monologo e non un dialogo.
  • Il secondo testo che ci aiuta è la lettera ai Romani al capitolo 8, 23- 26, che non soltanto insiste sulla importanza della preghiera nello spirito, ma dice a noi qualche cosa di più entrando nel significato di questa espressione: “Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli”.
    Questo Spirito Santo, nel quale noi siamo invitati a pregare, è quello Spirito del quale possediamo le primizie, ma non ancora completamente il dono. Lo Spirito pone in noi una primizia, cioè un assaggio, un inizio, che però prevede un compimento, una pienezza. Pregare nello Spirito, probabilmente, viene a suggerirci che la preghiera diventa una preghiera di desiderio, una preghiera che si carica di nostalgia, una preghiera che assapora e gusta un incontro, ma che tiene aperto un grande desiderio di un faccia a faccia definitivo che ancora non c’è. In altre parole, la preghiera nello Spirito Santo è quella che ci fa assaporare la bellezza di essere figli amati, ma che nello stesso tempo lascia aperte le porte del cuore sull’esperienza definitiva di questa figliolanza, che attendiamo e che speriamo dall’eternità di Dio; possiamo altrimenti dire che la preghiera nello Spirito Santo è quella che ci fa desiderare. D’altronde, Sant’Agostino quando parla della preghiera dice proprio questo: “se tu desideri, preghi”. Cosa vuol dire Agostino? Che se tu desideri, perché lo Spirito Santo mette dentro di te questo desiderio, tu preghi e preghi nello Spirito Santo. Possiamo dire che riconosciamo la preghiera nello Spirito proprio da questo desiderio mai sopito che è presente nel nostro cuore, che alla fine è un desiderio di Dio in pienezza, incontrato, desiderato e ancora desiderato.
    La preghiera nello Spirito, pertanto, è la preghiera di un cuore caldo, toccato dall’amore, ma desideroso ancora di più amore. Ecco perché anche la preghiera autentica è una preghiera che si autoalimenta, perché quando la preghiera è vera desidera pregare ancora di più e quando la preghiera è autentica è esperienza di un cuore in cammino, che vuole di più, che vuole andare avanti, per cui c’è un richiamo reciproco tra preghiera e cammino di santità. La preghiera nello Spirito Santo fa così desiderare un’esperienza piena del volto del Signore, è dunque anche quella che mette in cammino e in movimento la nostra vita verso la pienezza della fede, cioè per un cammino di santità sempre più intenso e più vero!

2. Un secondo elemento della preghiera nello Spirito Santoè ancora la lettera ai Romani a suggerircelo, quando dice che lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza (siamo ai versetti 26-27), perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili: “Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri nello Spirito, perché intercede per i credenti secondo i disegni di Dio”.

Che cosa c’è qui di importante per noi? Si suppone una nostra debolezza. Che cos’è questa debolezza? E’ la difficoltà che noi incontriamo e viviamo nella preghiera, una difficoltà che sperimentiamo sempre perché a volte la preghiera è arida, perché a volte la preghiera significa fatica, perché la preghiera chiede un raccoglimento che spesso non abbiamo, addirittura la debolezza si manifesta anche nella difficoltà a capire che cosa effettivamente dobbiamo domandare e se la nostra preghiera è una preghiera secondo Dio, nella quale desideriamo con tutto noi stessi uniformarci alla volontà di Dio oppure è una preghiera che tende a trascinare Dio verso di noi. Ecco la nostra debolezza nella preghiera, ed è in questa debolezza che lo Spirito Santo entra a darci sostegno e a darci forza, perché la preghiera che noi facciamo nello Spirito e alla luce dello Spirito è quella preghiera nella quale noi superiamo e vinciamo questa nostra debolezza, perché cerchiamo sempre e solo quello che Dio vuole, è la preghiera nella quale noi desideriamo in tutto uniformarci al disegno di Dio su di noi, è quella preghiera nella quale crediamo dentro un desiderio grande di essere là dove Dio ci chiede e di essere come Dio ci vuole. Questa è la preghiera nello Spirito, cioè la preghiera nella quale lo Spirito ci conduce a desiderare questa piena uniformità e questa piena adesione al disegno di Dio su di noi.

3. Proseguiamo il nostro cammino e chiediamoci che cosa significa che lo Spirito ci viene in aiuto: questo termine aiutoè un termine che ritroviamo altre volte nei Vangeli e nella Scrittura, a volte con una sottolineatura un pochino differente, ma anche molto bella. Lo troviamo, per esempio, nel Vangelo di Marta e Maria, quando le due sorelle accolgono Gesù nella loro casa e ad un certo punto Marta chiede aiuto: è proprio questo stesso verbo che viene usato, è l’aiuto che Marta chiede per essere salvata da una situazione per lei insostenibile, perché non ce la fa a realizzare tutti i lavori che vorrebbe realizzare e allora chiede aiuto. Poi, però, abbiamo anche un’altra sottolineatura del termine aiuto, quella che troviamo per esempio nella lettera agli Ebrei 2,16 oppure nel Magnificat della Madonna, dove il termine aiuto viene ad assumere il significato di prendersi cura di qualcuno. Anche Paolo negli Atti, quando termina il suo discorso a Efeso, proprio usando questa parola intende esprimere il prendersi cura.

Allora dire che lo Spirito Santo viene in aiuto nel momento in cui preghiamo significa dire che lo Spirito Santo si prende cura di noi, ha questo atteggiamento materno che già abbiamo ricordato in questi giorni ed è molto bello. Pregare nello Spirito Santo significa, dunque, invocare lo Spirito perché si prenda cura di noi e questo prendersi cura ha una particolarità, perché lo Spirito Santo si prende cura nel senso che viene a pregare in noi, viene a darci la sua voce, viene a mettere dentro di noi i suoi gemiti. Ecco perché la preghiera cristiana, in fondo, non è la preghiera nostra, del nostro cuore, ma è la preghiera dello Spirito che geme dentro di noi, che parla dentro di noi, che anima il nostro cuore e la nostra vita. Non siamo noi, è lo Spirito in noi ed è in questo senso che si prende cura, perché noi da soli non potremmo pregare, da soli non avremmo il desiderio vivo di vivere un incontro e di viverlo in pienezza, da soli non potremmo vivere quell’esperienza – tipicamente dello Spirito – per la quale noi desideriamo in tutto e per tutto unirci alla volontà di Dio ed essere una cosa sola con Lui. E’ lo Spirito che si prende cura e anima il nostro cuore, perché viva la preghiera come un grido di desiderio e come una volontà di uniformarsi in tutto all’Amato.

Questa è la preghiera nello Spirito Santo e così lo Spirito viene in aiuto e si prende cura di noi e della nostra preghiera. Ecco perché la nostra preghiera dovrebbe sempre cominciare invocando lo Spirito Santo ed ecco perché la nostra preghiera dovrebbe essere addirittura, in qualche modo, un ascolto di quello che lo Spirito sta facendo dentro di noi, di quello che sta mormorando dentro di noi. Ricordate Ignazio di Antiochia, quando parla di “un’acqua viva” che mormora dentro il cuore: è la preghiera dello Spirito Santo, Ignazio sta ascoltando la voce dello Spirito che gli dice di andare per essere martirizzato, è lo Spirito Santo che gli suggerisce la parola, che gli mette il desiderio, che gli imprime la volontà di essere totalmente del Signore! La nostra preghiera o è questo o non è: ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito, dobbiamo renderci consapevoli che è dentro il nostro cuore, dobbiamo sentire che sta animando la nostra voce, dobbiamo avvertire che è Lui il protagonista del nostro dialogo con Dio Padre, con Gesù, con il mistero Trinitario, con il Signore!

Questo l’apostolo vuole dirci quando viene a indicarci la preghiera come armatura, parte dell’armatura nel combattimento spirituale. Ho un’armatura potente, perché la preghiera nello Spirito Santo ci mantiene al riparo proprio da quelle insidie a motivo delle quali la preghiera diventa un’illusione in quanto semplicemente un monologo, una ricerca di noi stessi, un cercare conferme della nostra mediocrità, un rendere povera quella Parola della quale siamo in ascolto. Ecco la preghiera nello Spirito, arma che ci viene posta nelle mani per il nostro combattimento.

4. Terminiamo con il riferimento ad un’ultima indicazione che l’apostolo ci dona: parlando della preghiera conclude dicendo che dobbiamo innalzare ogni sorta di preghiere e suppliche nello Spirito, vigilando con ogni perseveranza, e aggiunge di pregare per tutti i santi. La preghiera non può non avere questa caratteristica apostolica, la preghiera è sempre anche apostolica, perché è la preghiera di chi si pone davanti a Dio portando con sé volti, necessità, problemi, il mondo intero, la Chiesa intera! Non può non essere così la preghiera cristiana: la nostra preghiera non è mai semplicemente un tu a tu, ma un tu a tu dove il nostro tuè inserito dentro un noi con il quale siamo solidali e che ci portiamo appresso! Quando preghiamo portiamo davanti a Dio tutto e tutti: la preghiera liturgica ce lo insegna e la preghiera personale deve andare alla scuola di quella preghiera anche per questo. E’ importante allora domandarci quanto la nostra preghiera sia realmente apostolica, quanto i bisogni che ci vengono affidati, le richieste di aiuto che ci vengono presentate, le suppliche che vengono davanti a noi davvero noi le portiamo davanti a Dio! Quante persone ci chiedono la preghiera, quanta gente incontriamo che, con verità, chiede a noi di ricordarla davanti al Signore, ci affida un’intenzione, una malattia, un dolore, un problema di fede che riguarda loro, gli altri … Non dobbiamo essere superficiali, il nostro dire “ti ricordo”, non deve essere un dire “ti ricordo” tanto per averlo detto, ma deve essere autentico, quello di un cuore apostolico e di chi sa di essere sempre davanti a Dio con tutte queste richieste! Non è male – pur non potendolo fare sempre o per tutti – portare davanti al Signore volti concreti, bisogni concreti, richieste concrete che ci sono state fatte. Non è che abbia bisogno il Signore di questo, ma ne abbiamo bisogno noi, perché la nostra preghiera sia realmente apostolica. Questa è una parte dell’armatura, perché la preghiera in questo senso ci difende nel combattimento che siamo chiamati a vivere ogni giorno, mentre la preghiera non apostolica rischia di diventare una preghiera ripiegata su di sé!

Dal cuore indurito al cuore liquefatto
Abbiamo concluso l’insegnamento dell’apostolo per quanto riguarda la preghiera come parte dell’armatura. Vorrei terminare la riflessione di questa sera con un riferimento ad una parola che direttamente non abbiamo ricordato in questi giorni, ma che di fatto è ritornata spesso come sfondo di alcuni testi che abbiamo ascoltato. Era una parola che nella Bibbia ricorre molte volte ed è la parola cuore indurito.

Che cosa significa cuore indurito? E’ quel cuore che – a motivo della sua non risposta al Signore, a motivo della sua poca fede, a motivo della sua mediocrità, a motivo dei no ripetuti e reiterati di fronte alla chiamata di Dio, a motivo delle orecchie chiuse di fronte alla voce del Signore che interpella, che interroga, che chiama – si indurisce, si pietrifica in una situazione che non cambia e che non vuole cambiare. Ogni tanto viviamo questa esperienza di avere un cuore indurito, cioè un cuore che non è più plasmabile da Dio, un cuore che non è più lì pronto ad essere manipolato dalle mani del Signore, ma un cuore che ormai si è intestardito nelle proprie posizioni e nel proprio punto di vista, non si lascia modificare, non si lascia cambiare, non si lascia modellare: è il cuore che sembra dire “per me va bene così, è giusto così, non ho altro da fare, la mia posizione è corretta, gli altri sbagliano”, è un cuore indurito che non accetta più il richiamo di Dio, la voce di Dio.

Può darsi che agli Esercizi, di tanto in tanto, noi entriamo con il cuore indurito, può darsi che questo cuore permanga tale durante gli Esercizi … chiediamo la grazia che, alla conclusione di un corso di Esercizi, questo cuore non sia più indurito, ma – come dice San Francesco di Sales – sia un cuore liquefatto. Bella questa espressione di San Francesco di Sales, che dice di un cuore totalmente disponibile perché è liquefatto, è nelle mani di Dio, pronto ad essere plasmato, ad essere cambiato, ad essere trasformato come Lui vuole. Basta con la nostra testardaggine, basta con la nostra cocciutaggine, basta con il dire che ho ragione io, basta con l’affermare che non ho più niente da fare, basta con il dire che la via è questa e non ce n’è un’altra, basta!!!

Non possiamo essere induriti, dobbiamo essere liquefatti nelle mani di Dio, altrimenti che cos’è la nostra vita? O siamo liquefatti nelle mani di Dio – e la nostra vita è bellissima perché costruita e plasmata dal Signore – oppure la nostra vita è un danno per noi e per gli altri. E’ un danno se abbiamo il cuore indurito, è un danno per noi perché non siamo quello che dobbiamo essere e che potremmo essere, dunque, rimaniamo degli infelici per tutta la vita; diventiamo un danno per gli altri perché non siamo quello che il Signore ci ha chiamato ad essere nella Chiesa e nel mondo!

Domandiamo la grazia di un cuore liquefatto: tutti abbiamo i nostri indurimenti, la vita a volte ci porta a questi indurimenti, però almeno quando siamo lì davanti al Signore e lo guardiamo negli occhi – se lo guardiamo con verità, se affondiamo le mani con verità nelle sue ferite, se con verità fissiamo il nostro volto sul suo – non possiamo non dire “Signore dammi un cuore liquefatto, che sia nelle tue mani”. Lo dobbiamo dire! Chiediamo davvero questa grazia per il tempo che stiamo vivendo insieme e che abbiamo vissuto.

Concludo dicendo che ci permettiamo di aggiungere a Paolo un piccolo elemento dell’armatura e questo elemento è la Madonna: domani avremo modo di incontrarci con lei in modo del tutto particolare per la festa della Madonna della Neve e a Lei vogliamo consacrarci. Questo sarà il modo più bello per prenderla con noi come parte importantissima della nostra armatura nel combattimento spirituale! Vogliamo consacrare la nostra vita, vogliamo consacrare i nostri propositi di questi giorni, vogliamo consacrare la vita che ci attende certi di una cosa, che Lei le insidie del nemico le schiaccia sempre: ne parla la Scrittura – “le insidierà il calcagno” – ma quel calcagno e quelle insidie le ha sempre schiacciate.

Se portiamo con noi Maria, se ci consacriamo a Maria siamo certi che la nostra armatura non ci abbandonerà mai e siamo certi che vinceremo la nostra battaglia! Allora a Lei davvero affidiamo e consacriamo la vita e chiediamole di aiutarci in questo combattimento per la vita, che è il combattimento per la santità e il combattimento perché Dio sia sempre il primo nel nostro cuore, nei nostri pensieri e nei nostri progetti!

Gli Esercizi finiscono domani, vorrei ricordarlo anche per coloro che andranno stasera a fare le prove di canto: il tempo degli Esercizi è tutto tempo di Grazia e il Signore può concederci una grazia particolare anche nell’ultimo secondo, però dobbiamo viverlo con fede! Gli Esercizi finiranno domani con la Messa e allora ,anche se con qualche impegno, vogliamo mantenerci nel clima degli Esercizi proprio fino a domani, perché ci fidiamo di Dio e sappiamo che i regali ce li fa quando meno ce lo aspettiamo!

Buona continuazione di Esercizi fino a domani: preghiamo reciprocamente, davvero, per un frutto bello e duraturo di questi giorni!

LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Celebrazione della Festa di Nostra Signora della Neve
Noi che concludiamo questi Esercizi Spirituali davanti al Signore e sotto lo sguardo di Maria chiediamo la sua protezione e soprattutto l’aiuto nel cammino della vita che ci attende; tutti insieme ci ritroviamo qui davanti al Signore e alla Madonna per celebrare questa bella festa di Nostra Signora della Neve.

In questo momento vogliamo rimanere in ascolto della Parola del Signore per portarla con noi, custodirla nel cuore, certi che questa Parola illumina la vita, la sostiene, è lampada ai nostri passi. Nella pagina del Vangelo abbiamo ascoltato il racconto dell’intervento dell’angelo della vita di Giuseppe in un momento un po’ difficile, perché Giuseppe si trova in imbarazzo nei confronti di Maria: che cosa dice l’angelo a Giuseppe? “Non temere di prendere con te Maria”. Oggi sentiamo rivolta a ciascuno di noi questa parola angelica, é l’angelo stesso che viene a dirci: “Non temere di prendere con te Maria”, è l’angelo che bussa alle porte del nostro cuore e ci suggerisce: “Prendi con te la Madonna, riprendila con te, non ti allontanare da lei”. In fondo in queste parole noi sentiamo l’eco della Parola stessa di Gesù che tutti ricordiamo bene, quando dalla Croce poco prima di morire si rivolge a Giovanni e gli dice: “Ecco la tua madre: prendila con te, non lasciarla mai”. Ecco, noi oggi celebriamo questa bella festa mariana proprio ascoltando dal Signore stesso l’invito: “Prendi con te la Madonna, prendi con te mia madre, non abbandonare mai Maria!”.

Certo, in qualche modo questa parola e questo invito non ci bastano: la Parola stessa che abbiamo ascoltato ci aiuta a capire alcuni motivi dell’importanza del prendere con noi la Madonna, del non lasciarla mai, di rimanere stretti lì, accanto a lei. Abbiamo ascoltato nella pagina della Genesi che dopo il grande primo peccato – quel dramma, quella tragedia – Dio si rivolge all’uomo, alla donna e si rivolge anche al serpente, cioè al diavolo tentatore, e gli dice: “Porrò inimicizia tra te e la donna, tu proverai a insidiarla, ma lei ti schiaccerà”. Questa Parola ci illumina perché ci fa capire un primo motivo dell’importanza di prendere con noi Maria, perché Maria ci aiuta nel combattimento quotidiano contro il male, il peccato e tutto ciò che dal male e dal peccato discende: il dolore interiore, il dolore fisico, la malattia, i problemi della vita, le fatiche. Prendiamo con noi la Madonna proprio perché ci sia di aiuto nello schiacciare la testa a colui che insidia la nostra vita anzitutto col peccato e con il male, che sono il vero dramma dei nostri giorni, ma poi con tutto ciò che dal peccato e dal male discende, ogni forma di dolore, di fatica, di travaglio, di problema: lei è con noi e ci aiuta a vivere tutto questo, a sostenerlo nel cammino della vita. Chi di noi non si è rivolto alla Madonna in un momento di difficoltà, chi di noi non ha chiesto alla Madonna di intervenire per farci superare una caduta morale, chi di noi non si è rivolto alla Madonna per chiedergli aiuto in un momento di dolore fisico, chi di noi non ha chiesto il sostegno di Maria in un momento di ansia, di paura, pensando al domani, al futuro? Noi prendiamo con noi Maria perché Maria è questo aiuto e questo sostegno decisivo nel cammino della vita, è colei che combatte al nostro fianco per schiacciare la testa del serpente, cioè del male in ogni sua forma nella nostra vita di ogni giorno.

C’è un episodio interessante che riguarda la vita di un santuario celebre, nel quale i pellegrini e i fedeli erano e sono soliti lasciare gli ex voto, cioè i ricordi di una grazia ricevuta. In questo santuario tra molti ex voto che ricordano una particolare grazia ce n’è uno un po’ originale, perché accanto a questo ex voto vi è una scritta e questa scritta dice: “Grazie, Maria, perché non mi hai esaudito”. Perché c’è questa scritta? Perché quel fedele ha capito in un secondo momento che la Madonna non è vero che non lo avevo ascoltato, ma in quel momento aveva fatto bene a non esaudire la richiesta perché c’era qualcosa di più importante, una grazia più grande riservata a quella persona. Ricordiamo questo perché? Può darsi che in qualche occasione dobbiamo dire “Maria, ma perché non mi hai ascoltato?”, e forse dobbiamo ricordarci che lei ci ascolta sempre, ma ci ascolta venendo incontro a noi per il nostro bene vero, più grande: allora non temiamo di stare con la Madonna, di prenderla con noi, di rivolgerci a lei in tutti i travagli della vita, siamo certi che lei ci ascolta, siamo certi che lei ci esaudisce, siamo certi che lei ci aiuta in vista del nostro bene autentico,  della nostra gioia vera, della nostra salvezza.

C’è però un altro motivo per cui dobbiamo prendere con noi Maria e non lasciarla mai, ce lo ricorda proprio la pagina del Vangelo alla quale ritorniamo per un momento: dopo aver detto “Non temere di prendere con te Maria” l’angelo dice “Infatti concepirà un figlio che sarà chiamato l’Emmanuele, Dio con noi”, cioè in lei prenderà carne il Figlio di Dio, lei porterà in sé Gesù, e lei donerà Gesù al mondo. Allora perché non dobbiamo temere di prendere con noi Maria? Anzi, perché dobbiamo prenderla con noi? Perché la Madonna ci consegna sempre Gesù, perché la Madonna ci porta sempre a Gesù, perché quando guardiamo lei, quando preghiamo lei, quando stiamo con lei, siamo certi di essere condotti nelle braccia e nel cuore di Dio. Ecco perché è decisivo stare con la Madonna, accoglierla nella nostra casa, tenerla stretta a noi, perché quando questo accade noi siamo portati per mano nelle braccia del Signore e nel cuore del Signore.

C’era un Santo che si esprimeva così: Quando tu guardi gli occhi di Maria ti accorgi che quegli occhi si rivolgono verso Gesù e ti indicano lui. Quando stiamo davanti alla Madonna, lei ci porta là nelle braccia del Signore e questa è la cosa più importante e più bella della vita. Ma poi vogliamo ricordare un altro motivo dell’importanza di prendere con noi la Madonna legato alla festa della Madonna della Neve che stiamo celebrando. Il fatto stesso della neve ci parla di un candore, di una purezza, di uno splendore: Maria è questo candore, questo splendore, questa purezza, tanto che una grande santa mistica ha definito la Madonna mistica città di Dio per affermare quanto è bella la Madonna e quanto è luminoso il suo splendore. C’è un bel canto, che anche durante gli Esercizi abbiamo indirizzato alla Madonna, in cui si dice che la Madonna è una goccia di Paradiso nella nostra vita: è così, la Madonna è una goccia di Paradiso perché quando noi guardiamo la Madonna ci sentiamo presi da una nostalgia e da una malinconia per le cose belle, dalla nostalgia e dalla malinconia di un mondo diverso, dalla nostalgia e dalla malinconia di una vita forse diversa anche da quella che viviamo, più pura, più luminosa, più bella, più santa, più secondo il volere di Dio, più immersa nel bene. Ecco, quando prendiamo con noi Maria non ci manca mai questa goccia di Paradiso, che ci ricorda le cose veramente belle della vita che sono nel mondo di Dio e ci ricorda che siamo incamminati là e che il nostro cuore non è nella gioia vera se non pensa che siamo incamminati là, se non pensa a questa Patria che ci attende, se non pensa al Paradiso che è la meta della nostra vita.

Abbiamo ricordato tre motivi per i quali è importante rispondere all’appello dell’angelo che dice “Non temere di prendere con te Maria” e, ancora di più, accogliere la Parola di Gesù che dice “Questa è la tua mamma, tienila con te”:

  • con lei possiamo affrontare il combattimento quotidiano contro il male, certi che ci starà vicino, ci aiuterà e ci esaudirà
  • con lei siamo certi che il cammino della nostra vita va verso il Signore, è con il Signore, lei ce lo indica e ci porta a lui
  • con lei sperimentiamo la gioia del Paradiso e del mondo di Dio, proviamo nostalgia per le cose belle, delle quali ogni tanto ci dimentichiamo.

Vogliamo concludere con un pensiero che riguarda il mondo di fuori: noi siamo qui per incontrare il Signore, guardare la Madonna e vivere questo ristoro del cuore che l’incontro ci dà, però siamo anche qui pensando a ciò che sta fuori e allora chiediamo alla Madonna di poter essere, come lei, una goccia di Paradiso. Il mondo ha bisogno di gocce di Paradiso, per poter fare l’esperienza della bellezza di Dio, per poter avvertire il richiamo delle cose di Dio, per poter abbandonare strade che portano verso il nulla e il buio, per poter ritrovare la gioia dello stare col Signore nella vita. Allora se oggi diciamo Maria, voglio prenderti con me di nuovo, voglio stare con te per i motivi che la Parola del Signore mi ha ricordato, oggi chiediamole anche questa grazia: Stando con te, aiuta anche me a diventare un po’ goccia di Paradiso e fa’ in modo che la mia vita possa essere goccia di Paradiso nell’ambiente in cui vivo, nella mia famiglia, nel mondo in cui sono chiamato a stare.