Meditazione – Lasciamo risuonare in noi l’eco del Natale

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Meditazione – Lasciamo risuonare in noi l’eco del Natale

Meditazione
Casa delle Missionarie della Divina Rivelazione
Roma

 

La Chiesa, nella sua materna saggezza, prolunga le più grandi festività dell’anno liturgico attraverso le “ottave”, otto giorni durante i quali continua a rendersi presente la grazia della grande festa che è stata celebrata. Così è avvenuto, di recente, in occasione del Santo Natale.

Oggi, ricorrenza del Battesimo del Signore, termina il tempo natalizio. Non abbiamo a disposizione un’ottava per questo. Ma è certo che non deve terminare la grazia straordinaria di questo tempo forte dell’anno liturgico. E non terminerà nella misura in cui l’eco di quanto abbiamo celebrato e vissuto nei giorni appena trascorsi rimarrà vivo in noi, continuando a essere luce per il nostro cammino, ispirazione per la nostra esistenza quotidiana. A tal fine abbiamo l’opportunità del ritiro spirituale mensile: ci sarà possibile prolungare la contemplazione del mistero dell’Incarnazione e, attraverso di essa, consentire al mistero di mettere radici sempre più profonde nel nostro cuore di discepoli.

Capiterà anche a noi ciò che succede a chi si pone più volte in ascolto di un brano musicale. Poco alla volta diventa capace di gustarne anche i particolari meno evidenti: quei particolari che forse, all’inizio, non erano stati capaci di attirare l’attenzione. Prolungare l’ascolto contemplativo del mistero significa cogliere anche la ricchezza del dettaglio, riuscendo a collocarlo nella completezza del quadro d’insieme.

Non a caso si è parlato di eco. Ci ritroviamo insieme come intenti all’ascolto di un’eco. E’ l’eco del mistero del Natale, un’eco bellissima che ci porta in dono il canto armonioso degli angeli di Betlemme, che annunciano la nascita del Bambino divino. Così ci sarà possibile ancora una volta entrare, in preda alla meraviglia e alla gioia, nel cuore di quella sinfonia celeste che è la storia della nostra salvezza, assaporandone qualche ulteriore dettaglio.

1. Vedere Dio
In virtù del mistero del Natale, all’uomo è data la grazia di vedere Dio. Ma, vedere Dio, è proprio possibile, potremmo domandarci? E si addice al mistero divino di rendersi visibile agli occhi dell’uomo?

Ascoltiamo quanto ha affermato il Santo Padre Benedetto XVI nel corso dell’udienza appena precedente il 25 dicembre dello scorso anno: “Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204. Qualche esegeta nota, poi, che in quel giorno si celebrava la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 avanti Cristo. La coincidenza delle due date verrebbe allora a significare che con Gesù, apparso come luce di Dio nella notte, si realizza veramente la consacrazione del tempio, l’Avvento di Dio su questa terra”.

Al di là del fatto che si debba prendere per buona la bella interpretazione esegetica citata dal Papa, rimane comunque vero un fatto: a Natale si realizza l’Avvento di Dio su questa terra. Da quel giorno l’uomo si scopre titolare di una dignità impensata e impensabile prima: può vedere Dio. Dove? Nel volto del Suo Figlio, nato per noi e per la nostra salvezza.

D’altra parte, quale fu il motivo per cui i pastori si misero in cammino verso il luogo in cui giaceva il bambino? E’ la pagina evangelica a ricordarlo: “Vediamo questo avvenimento”. Letteralmente il testo greco dice: Vediamo questa Parola, che lì è accaduta”. Ecco la novità del Natale: la Parola può essere guardata perché si è fatta carne. Possiamo guardare la Parola di Dio e, quindi, il mistero del Dio vivente.

Si comprende il motivo per cui la Chiesa, nel corso della sua storia, si è sempre opposta alle spinte iconoclaste, a quelle correnti di pensiero che fanno divieto di rappresentare il Signore e i diversi tratti del mistero divino. Nella fede cristiana non è l’uomo che pretende di dare forma al volto di Dio invisibile, ma è Dio stesso che dona all’uomo la forma umana del Suo volto. Non ha più motivo d’essere la richiesta rivolta dall’apostolo Filippo a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. E’ lo stesso Gesù, con la sua risposta, a ricordare che Dio si è reso visibile all’uomo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre?»” (Gv 14, 9).

Si impone, a questo punto, una domanda: quali conseguenze ha, per la nostra vita di fede, la visibilità di Dio? Cerchiamo di dare una risposta. E, a tal fine, ricorriamo a un brano della prima lettera di Giovanni, che abbiamo ascoltato il giorno dopo la solennità dell’Epifania: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (4, 2-3).

Siamo da Dio se riconosciamo Gesù venuto nella carne. La fede cristiana non rimane astratta, affidata a un Dio che, proprio perché lontano, irraggiungibile e invisibile, può essere manipolato a piacimento diventando, nei contenuti, una fede “fai da te”. No, la fede cristiana è ancorata alla visibilità di Dio, alla carne del Signore Gesù: alla visibilità e alla carne della Sua Parola, del Suo Corpo e del Suo Sangue dato a noi nell’Eucaristia, dei Suoi sacramenti, della Sua Chiesa. La nostra fede è vincolata, per amore e nell’amore, alla carne del Figlio di Dio e per questo trova l’espressione più autentica nell’obbedienza filiale alle molteplici presenze di Cristo nella carne, che ritroviamo nella nostra vita.

Per fare qualche esempio. Se dico di avere la fede, ma poi non rimango in ascolto attento della Parola del Signore come luce che guida il mio cammino, non sono da Dio, come direbbe San Giovanni. E se dico di avere la fede, ma poi non faccio dell’Eucaristia, della Riconciliazione e dei sacramenti, il mio nutrimento spirituale abituale, non sono da Dio. E se dico di avere la fede, ma non rimango in atteggiamento di pronta adesione nei confronti della Chiesa, del Papa e del suo magistero, non sono da Dio. E se dico di avere la fede, ma poi non esercito l’obbedienza verso coloro che la Provvidenza di Dio mi ha donato come Superiori, non sono da Dio. Potremmo prolungare ancora per molto l’elenco degli esempi che ci mostrano, per così dire, la “carnalità” della nostra fede. Si pensi ai fratelli nel bisogno che ci interpellano, alle ispirazioni interiori buone, agli imprevisti della vita… anche a tutto questo siamo vincolati, nella misura in cui vi riconosciamo la presenza e la visibilità di Dio per noi.

Ricordiamo senz’altro il vangelo ascoltato per la solennità dell’Epifania. Lì l’evangelista Matteo annota, a proposito dei Magi: “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono” (2, 11). Essi riconobbero, in quel bambino, il Dio di fronte al quale prostrarsi e al quale rendere il tributo dell’adorazione. Come i Magi, anche noi siamo invitati a riconoscere la presenza di Dio nella nostra vita, a riconoscerla sempre e ovunque, a non perdere di vista la concretezza con la quale il Signore si fa accanto a noi e compie la sua opera. Perché questo diventi realtà della nostra vita è indispensabile accogliere quella che potremmo chiamare “la via del bambino”: tornare evangelicamente piccoli per accorgerci di come nel “piccolo”, in ciò che è apparentemente tanto umano e quotidiano, si nasconde la gloria di Dio.

Ecco una prima nota del canto natalizio del quale siamo in ascolto! Lasciamo che la sua eco risuoni nel nostro cuore, assaporiamone tutta la bellezza e scopriamo qualche armonioso dettaglio fino ad ora rimasto a noi sconosciuto.

2. La vera umanità
I vangeli del Natale ci hanno narrato la nascita a Betlemme di Gesù. La fede ci ricorda che in quel bambino è entrato nella storia colui che è vero Dio e vero uomo. Il Figlio unigenito del Padre, senza lasciare la perfezione della Sua divinità, ha assunta perfettamente la nostra umanità. Mentre siamo in ginocchio davanti alla culla del divino bambino ci è donata, di conseguenza, una duplice rivelazione: il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo.

E’ importante che per un momento ci fermiamo a riflettere su questo fatto. Il volto del bambino di Betlemme ci apre un mondo prima sconosciuto sulla vita intima di Dio, un mondo stupendo che non si finirà mai di indagare con sufficiente attenzione di amore. Ma il volto di quel bambino ci apre anche un mondo prima sconosciuto sul vero volto dell’uomo, della nostra umanità. Gesù Cristo è l’uomo nuovo, è l’uomo, l’unico uomo che Dio da sempre ha pensato, progettato, voluto, amato. Pertanto, o la nostra umanità riflette in sé i tratti dell’umanità di Gesù, oppure la nostra è un’umanità fallita.

Chi dobbiamo essere? A che cosa dobbiamo aspirare? Quale è la nostra autentica realizzazione? Il mistero del Natale ci risponde senza ombra di dubbio con un nome: Gesù Cristo. Afferma Origene: “In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20)” (in Lc 22, 3).

Non ci diventa più chiaro il motivo per cui i cristiani di ogni tempo hanno desiderato imitare Gesù e a tal fine si sono impegnati in ogni modo? E non risulta naturale, di conseguenza, che il titolo più bello che si possa dare al discepolo del Signore sia quello di “altro Cristo”? Non ci può essere giorno, e in esso né energia, né desiderio, né programma in cui non si debba tendere all’imitazione di Cristo. Perché è proprio questo e solo questo il senso della nostra vita. Come d’altronde è questo il senso della vita di ogni uomo che viene al mondo.

Ciò che abbiamo affermato è molto, ma non ci basta. Vogliamo, infatti, avere almeno un dettaglio di quella perfetta umanità presente nel Figlio di Dio incarnato, imitando la quale realizziamo finalmente noi stessi. A tal fine ritorniamo per un momento al prologo di San Giovanni, la pagina iniziale del IV vangelo: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio” (1, 1). Non si finirà mai di meditare questo “inizio”. A noi, comunque, ora interessa solo un dettaglio della contemplazione giovannea: “… il Verbo era presso Dio…”. Con queste parole, l’evangelista intende dare rilievo all’atteggiamento che nell’eternità il Figlio assume nei confronti del Padre: è presso Dio, rivolto a Dio. Come a dire che il Figlio non fa altro che guardare il Padre, immergendosi in Lui perché, con Lui, è una cosa sola.

Se dalla contemplazione della vita intima di Dio passiamo ora a considerare che cosa le pagine evangeliche ci raccontano in merito all’atteggiamento del Figlio di Dio, fatto uomo in Gesù di Nazaret, scopriamo che non vi è differenza. Cristo rimane rivolto verso il Padre e immerso in lui, rimanendo con lui una cosa sola: “… io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14, 11); “Da me io non posso fare nulla… non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).

Così non vi è dubbio. L’umanità voluta da Dio, quell’umanità perfetta e vera che prende forma visibile in Gesù Cristo, vive rivolta a Dio, in atteggiamento costante di filiale obbedienza e abbandono, secondo un vincolo di amore che fa di due una realtà unica. Ecco perché lo sviluppo della nostra umanità, secondo il disegno di Dio, non può che realizzarsi nell’obbedienza e attraverso di essa. Dove c’è l’obbedienza del figlio, lì c’è lo spirito di Cristo e l’uomo trova compimento. Dove c’è la disobbedienza, lì non c’è lo spirito di Cristo e l’uomo rimane incompiuto, incomprensibile a se stesso.

La sfida quotidiana dell’obbedienza d’amore, dunque, nelle sue forme piccole e grandi, semplici e impegnative, è la sfida per la crescita dell’uomo vero in noi, dell’umanità secondo Cristo, l’unica che può renderci veramente felici.
Ecco una seconda nota del canto natalizio, sulla quale rimanere, meditare, pregare.

3. Gesù, l’atteso dalle genti
A una nota musicale ne succede subito un’altra, strettamente legata alla precedente, tanto da costituire con essa quasi un unico canto. Se in Cristo si rende presente nella storia l’unica vera umanità pensata da Dio, allora non c’è uomo che possa fare a meno di Gesù. E Gesù è l’atteso da tutte le genti, di ogni tempo e di ogni luogo.

La Chiesa, nel periodo liturgico del Natale, ce lo ha ricordato soprattutto nel giorno dell’Epifania, mistero della manifestazione di Cristo a tutte le genti. Vicino alla culla del divino bambino non accorrono solo i pastori, rappresentanti del popolo eletto e di quell’umanità che viveva nell’attesa consapevole del Salvatore. A quella culla si avvicinano anche i rappresentanti del mondo pagano, prima apparentemente ignaro dell’appuntamento messianico.

Ma ignaro davvero? Pensiamo per un momento alla stella di cui ci parla la pagina evangelica di Matteo. Rivolgendosi a Erode, i Magi domandano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (2, 2). Lasciamo da parte le discussioni, pur legittime, intorno all’identità astronomica della stella. Ciò che a noi interessa, e che è indubitabile, è il fatto che quella stella è stata come una luce interiore che ha guidato i Magi dall’oriente a Betlemme. Guardando la stella, possiamo pensare alla forza della verità scritta da Dio nel cuore di ogni uomo e capace di indirizzare anche la vita dei lontani, dei distratti, degli ignari al vero Dio.

In effetti, se l’uomo è stato pensato da Dio in Gesù Cristo, se l’umanità del Figlio di Dio è l’unica vera umanità nella quale ogni uomo può ritrovare se stesso, allora il mistero di Cristo è scritto nel cuore dell’umanità, come richiamo permanente e incancellabile che conduce alla culla del divino Bambino. Non c’è popolo, razza, cultura, continente, tempo prossimo o remoto della storia che possa fare a meno di ascoltare nella profondità del proprio essere quel richiamo divino che porta a Cristo.

Tutto questo è bellissimo e non può non suscitare in noi un rinnovato slancio pieno di fiducia e di speranza. Lo slancio, come è ovvio, è quello della missione. Si può forse lasciare senza risposta la domanda di salvezza e di vita che sale dall’umanità di ogni tempo e di ogni luogo? Possiamo noi, che per grazia abbiamo incontrato il divino bambino, esimerci da ricordare all’umanità che non c’è per lei salvezza al di fuori del Figlio di Dio fatto uomo? Quanto grande sarebbe il nostro egoismo se un simile slancio dovesse affievolirsi nella nostra vita! E la fede che abbiamo in dono non potrebbe più essere di nostro giovamento: perché non si può essere salvi da soli.

D’altra parte, allo slancio della missione non possono che accompagnarsi la fiducia e la speranza. Siamo inviati a parlare di Cristo e a dare testimonianza di Lui là dove Lui, pur misteriosamente, è già arrivato sempre prima di noi. Perché non c’è uomo che non sia stato pensato da Dio in Lui e per Lui.

Ritorniamo al vangelo di Matteo e alla vicenda dei Magi. Racconta ancora l’evangelista. “Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima” (2, 9-10). Quella gioia grandissima noi l’abbiamo provata. La stella, durante il nostro pellegrinaggio terreno, un giorno ha brillato sopra di noi, si è posata sul bambino di Betlemme e tutto è diventato luminoso. Il nostro desiderio, riascoltando quest’altra eco del tempo natalizio, è che ogni uomo, grazie anche a noi, possa accorgersi della stella luminosa e trovare la vera Vita, Cristo Gesù.
Non occorre, per questo, andare lontani. Ne siamo bene consapevoli. Nelle nostre case, nelle nostre strade, nei nostri quartieri, negli incontri quotidiani… lì è il luogo della missione che a tutti, nessuno escluso, è affidata.

4. Il mistero sponsale
Nei giorni appena precedenti al Natale, ancora nel tempo di Avvento, la Chiesa ci fa ascoltare una pagina del cantico dei Cantici. Il giorno esatto nel quale è prevista questa lettura è il 21 dicembre, quando ormai si è alle soglie della celebrazione del grande mistero.
Una domanda sorge spontanea: perché?

Nella solennità dell’Epifania la liturgia ci ricorda che in questo giorno celebriamo tre prodigi: “… oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza” (Antifona ai secondi Vespri dell’Epifania).
Un’altra domanda sorge spontanea: perché il riferimento alle nozze di Cana?

A entrambe le domande è necessario rispondere. Ma, in verità, le domande si riducono a una sola, perché la presenza del brano del Cantico dei Cantici come anche la presenza del riferimento a Cana sono riconducibili a un’unica ragione. Ci si prepara al Natale ormai prossimo pensando a una storia di amore, quella narrata nel Cantico. Si celebra il Natale e il tempo natalizio, orami alla sua conclusione liturgica, ancora pensando a una storia di amore, quella di Cana. Due episodi narrati quasi a costituire una cornice, all’interno della quale si pone il mistero dell’Incarnazione.

La risposta agli interrogativi si sta ormai affacciando alla nostra mente. Il mistero dell’Incarnazione è un mistero di amore sponsale, nel quale si realizza l’indissolubile unione tra Dio e l’uomo. A questo la liturgia ci ha preparato nel tempo di Avvento. A questo la liturgia ci riconduce il giorno dell’Epifania.
Nel bambino di Betlemme si consuma una vicenda di nozze, così che la culla è anche un talamo nuziale che celebra l’amore del Signore per noi. Si contemplerà mai abbastanza la bellezza di questo mistero?

L’apostolo Giovanni, lo sappiamo, nei suoi scritti si è fatto cantore dell’amore di Dio. Si racconta in proposito che, oramai avanti negli anni, il discepolo prediletto del Signore, visitando le comunità cristiane, non facesse che ripetere un’unica affermazione: “Dio è amore”. Alcuni tra i cristiani, col passare del tempo, cominciarono a trovare esagerata quella ripetitività. Tanto che un giorno qualcuno di loro si rivolse all’apostolo con fare rispettoso ma anche interrogativo: “Come mai, Giovanni, non fai che ripetere la stessa cosa, e cioè che Dio è amore?”. L’apostolo non si scompose e con grandissima dolcezza rispose. “Perché il Signore non mi ha detto altro che questo, perché il Signore non ha fatto altro che questo”.

Giovanni, sul finire della vita, aveva fatto sintesi del mistero di Dio in Cristo e a tutti desiderava trasmette quanto a lui era stato donato di capire: che la fede si risolve nell’amore di Dio per l’uomo e, dunque, nella risposta di amore dell’uomo a Dio.
Possa la nostra esperienza di fede essere la continuazione di quanto Giovanni ha compreso e vissuto. Possa risuonare continuamente in noi l’eco di questa stupenda nota del tempo natalizio.

5. La custodia di Maria
Per ben tre volte, nei giorni delle festività natalizie, ritorna l’annotazione puntuale degli evangelisti in merito all’atteggiamento tenuto dalla Madonna al verificarsi del grande mistero dell’Incarnazione e nel corso del suo sviluppo.

E’ Natale, liturgicamente, e la Chiesa offre al nostro ascolto la pagina del vangelo di Luca: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (2, 19). Ci spostiamo alla festa della Santa Famiglia, e la Chiesa ci fa ascoltare ancora il vangelo di Luca: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (2, 51). Giungiamo alla solennità della SS. Madre di Dio e, nuovamente, la Chiesa ci propone il brano natalizio di Luca: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suore cuore” (2, 19).

Non c’è dubbio: con la proposta ripetuta di questi brani evangelici la Chiesa intende mostrarci un atteggiamento spirituale da imitare e che è tipico della fede. Maria è l’esempio più alto della donna che vive di fede e che con sguardo contemplativo si sofferma a osservare gli avvenimenti della sua vita. Se un tal modo di fare non può che caratterizzare sempre l’esperienza spirituale del discepolo di Cristo, si può forse affermare che si addice in modo del tutto particolare al Santo Natale, per la peculiarità del mistero celebrato.
Ma ritorniamo alla vicenda di Maria. La Madre del Signore ascolta, osserva, si interroga. La sua è una vita di straordinaria fede: crede, crede nella penombra che si accompagna sempre all’agire di Dio nella vita dell’uomo, crede anche quando l’oscurità si fa più fitta e tenebrosa. Crede, e credendo porta nel proprio cuore tutto ciò che Le accade e che accade attorno a sé. Sa, infatti, che quanto al momento non risulta chiaro un poco alla volta si illuminerà: perché tutto ha un senso nel piano di Dio, anche quando questo senso non è svelato all’immediata comprensione dell’uomo.

E’ davvero interessante la descrizione fatta dall’evangelista: Maria custodiva tutto, non qualcosa soltanto. La sua attenzione era vivissima. E lo era per tutto, perché in tutto il Signore operava dispiegando l’opera della salvezza. E poi, ciò che custodiva lo meditava, poneva un fatto accanto ad un altro fatto, una parola assieme ad un’altra parola. Così, poco alla volta diventava più nitido, se pure sempre nella semi oscurità della fede, il disegno di amore di Dio.

Maria ci offre un esempio che siamo chiamati a imitare. E’ probabile che in parte già lo facciamo. La nostra meditazione quotidiana non è forse un custodire le parole di Dio al fine di capirle in ordine alla vita della fede? Ma ci è chiesto un passo ulteriore: quello in virtù del quale diventiamo capaci di allargare lo spazio della nostra meditazione all’intera giornata e all’intera vita. Meditiamo per un certo tempo, perché ogni tempo possa diventare meditazione. Meditiamo la parola biblica, perché ogni parola che il Signore pronuncia possa essere da noi ascoltata e capita.

Quanto abbiamo affermato di Maria ci riconduce al filo conduttore della nostra riflessione spirituale. Si è parlato di eco, di una sinfonia natalizia della quale rimanere in attento e meravigliato ascolto. Tutte quelle cose che la Madonna custodiva nel cuore erano proprio l’eco armonioso del mistero dell’Incarnazione, del quale Ella era allo stesso tempo spettatrice e protagonista. Quell’eco ha modellato la vita di fede di Maria, facendone un capolavoro. Quell’eco possa modellare anche la nostra vita di fede, così che la nostra identità di discepoli del Signore possa essere un’opera bella scaturita dall’accoglienza del mistero del Natale.