Meditazione – Alla luce della Parola di Dio

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Meditazione – Alla luce della Parola di Dio

Meditazione – Alla luce della Parola di Dio

Missionarie della Divina Rivelazione

 

Con il salmo 35 oggi, in questo momento, ripetiamo anche noi con l’orante della Bibbia: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Ripetiamo nel nostro cuore quest’affermazione, ispirata dalla preghiera e dettata dalla fede, perché desideriamo vivere le ore del nostro ritiro mensile alla luce del Signore e della Sua parola di Verità e di Vita.

Com’è consolante rinnovare la nostra certezza nel fatto che il Signore è la Sorgente della nostra vita! Noi, assetati di vita, dobbiamo sempre tornare a Dio per trovare ciò che con tanta intensità cerchiamo ogni giorno. Andare altrove significherebbe allontanarsi dalla Sorgente e, pertanto, fare l’esperienza di quella drammatica aridità che caratterizza sempre l’esistenza umana, nella sua stolta pretesa di costruirsi potendo fare a meno di Dio.

D’altra parte, a noi sempre alla ricerca di una luce che sia in grado di sconfiggere le tenebre che spesso ci avvolgono, rammentare che il Signore è la Luce vera nella quale diviene possibile vedere la luce, osservare le realtà di questo mondo nel chiarore della Luce, è motivo di tanta gioia e di autentica esultanza nello spirito.

“E’ in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”.
Oggi, decliniamo l’affermazione del salmista con l’aiuto della liturgia domenicale; una liturgia ricca che, nei testi della preghiera e nei brani della parola di Dio, ha la forza dolcissima di metterci in relazione con la Sorgente della vita e con quella Luce che dona luce per il cammino che ci attende.

Si aprono davanti a noi come quattro finestre. L’aria che vi entra è particolarmente tersa. E’ l’aria tersa che proviene dall’eternità, dono dall’alto che solo può fare fiorire il terreno spesso incolto e arido che siamo noi.

1 – “Tutto posso in colui che mi dà la forza”

Riconosciamo, in questo breve testo, un passaggio della lettera di san Paolo ai Filippesi (4, 13). L’apostolo scrive la lettera quando si trova in prigione e ormai avverte avvicinarsi l’ora della morte. Eppure, nelle sue parole, si rinnova spesso l’invito alla gioia, l’esortazione a non angustiarsi, la sollecitazione a rimanere saldi nella speranza.

Qui, in particolare, Paolo afferma di aver fatto l’esperienza di una forza singolare, in virtù della quale può tutto. Ci interroghiamo sul contenuto di questa possibilità, che appare sovrumana e che viene dalla grazia di Dio.

  • Anzitutto l’apostolo può perseverare nella letizia del cuore. Non vi è forza avversa, né umana sciagura che abbia la capacità di sradicare dal cuore il motivo della gioia cristiana; neppure la prospettiva del dolore e della morte. Una tale gioia, infatti, ha il suo fondamento nella certezza di fede che Gesù è risorto e vivo, che Egli è il Signore della storia e della vita di ciascuno, che tutto ha un significato dentro un disegno divino di provvidenza e di amore e che siamo destinati ad abitare per sempre nei Cieli. In questa prospettiva, quale realtà umana, pur faticosa e oscura, può mettere a repentaglio la gioia? In altre parole, nulla e nessuno può separare l’apostolo dalla letizia in Cristo.
    La parola autobiografica di Paolo diventa esortazione rivolta anche a noi, oggi. A noi che, sovente, rimaniamo come schiacciati sotto il peso delle fatiche quotidiane, non ritrovando più la gioia, dal momento che perdiamo di vista Colui che ne è il motivo davvero fondante: Gesù. Interroghiamoci: non è, forse, vero che si spegne il sorriso sulle nostre labbra e viene meno la letizia nella nostra vita proprio perché Gesù rimane troppo sullo sfondo di ciò che avviene lungo il cammino delle nostre giornate? Ritrovare la presenza viva del Signore e la dolcezza della Sua compagnia fedele è il vero antidoto contro ogni possibile infelicità, timore e angustia.
    E non dimentichiamo: l’accoglienza del Signore nella nostra vita non ha coinciso con un comando a “dover essere” nella gioia, nonostante tutto. Il Signore, entrando nella nostra vita, ha invece “reso possibile” la gioia, nonostante tutto; perché “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Gesù Cristo è la possibilità della nostra gioia, è la stessa gioia a noi donata. Gesù è la gioia!
  • Nelle parole dell’apostolo possiamo anche riconoscere un altro suo tratto autobiografico. Egli è stato imprigionato a causa della fede. I poteri umani non hanno sopportato la sua predicazione e la sua testimonianza resa al Risorto. L’annuncio di Paolo, che è annuncio del Vangelo, non è andato nella direzione delle attese del mondo. Anzi, quelle attese le ha disconosciute, contraddette e messe in questione. Colui che è stato inviato presso i popoli pagani per annunciare la lieta notizia della salvezza non si è fermato davanti alle lusinghe del secolo presente che volevano, e sempre vogliono, in ogni modo, sentire un vangelo annacquato, rivisto alla luce del pensiero dominante, passato al vaglio prepotente dell’attualità effimera e reso alla fine insignificante.Anche in questo caso, la parola autobiografica di Paolo diventa esortazione rivolta a noi. Come ha potuto l’apostolo rimanere saldo nella testimonianza della fede, fino a sopportare la prigionia, l’emarginazione e la morte? Certo, in virtù della sua relazione intima e profondissima con quel Signore Gesù che è stato tutta la sua vita. Se, dunque, ci ritroviamo a volte come canne sbattute dal vento del pensiero mondano e, a fronte di questo pensiero, diventiamo timorosi e titubanti se non addirittura succubi, se il nostro dialogo con il mondo non è salvifico ma semplicemente arrendevole, questo avviene perché si è affievolita la nostra appartenenza vitale al Signore. Se l’idolo della popolarità e dell’apprezzamento altrui ci impedisce la libertà della parola evangelica, vuol dire che la bellezza della presenza di Cristo in noi va deturpandosi, perdendo la sua forza di attrazione sul nostro cuore.In effetti, la saldezza che ritroviamo in san Paolo, nei confronti dello spirito del tempo, può conservarla solo chi nell’intimo è una cosa sola con il Signore crocifisso e risorto. Se la paura dell’avversione del mondo, in ultima analisi, è la paura di perdere l’amore e la paura dell’incomprensione e della solitudine, l’unico possibile antidoto è dato dalla forza della presenza fedele di Gesù, che è l’Amore più grande, la comprensione più piena, la compagnia più pacificante. “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Gesù Cristo è la possibilità della nostra vera libertà nell’annuncio del Vangelo di salvezza.

2 – “Abiterò per sempre nella casa del Signore”

Il ritornello del salmo responsoriale con il quale abbiamo pregato nella celebrazione eucaristica odierna: “Abiterò per sempre nella casa del Signore”, dà voce al desiderio che accompagna tutta l’esperienza biblica di Dio.
Questo ritornello aiuta a interiorizzare le parole del salmo 23, splendida riflessione orante sulla bellezza del rimanere all’ombra della presenza amorevole di Dio, Buon Pastore delle nostre anime.
Proprio alla luce del salmo, possiamo ripetere il ritornello citato in modo tale che diventi per noi quasi una preghiera del cuore, che accompagna i nostri i passi e, un poco alla volta, ci conduce a gustare con sempre maggiore intensità il senso spirituale che vi è contenuto. Questo senso lo potremmo definire duplice.

  • Vi è, prima di tutto, un significato che attinge la nostra sfera personale. Abitare per sempre la casa del Signore, infatti, è l’ardente desiderio che è impresso in noi dal momento che il Signore è diventato il grande amore della nostra vita. L’amore chiede ed esige la coabitazione. E anela a una coabitazione che abbia la consistenza della definitività, del “per sempre”. Una tale definitività spalanca davanti a noi le porte del Paradiso, rammentandoci che siamo fatti per un “oltre” rispetto al tempo limitato che ci è dato di vivere su questa terra. In questo “oltre” è il meglio a cui sospiriamo. In questo “oltre” troviamo i criteri più veri per affrontare il pellegrinaggio terreno, per guardare ogni realtà di questo mondo con la sapienza che può venire solo da uno sguardo rivolto alle cose eterne.
    Rimanendo nella sfera personale, il desiderio di abitare la casa del Signore comporta la coltivazione fedele e puntuale della vita secondo lo Spirito. Stare nella casa del Signore significa permanere nella vita della grazia, nell’amicizia con Gesù, nell’esperienza esaltante del Suo amore incondizionato. Stare nella casa del Signore significa, anche, rinnovare ogni giorno il proposito di una vita santa, secondo il Vangelo in ogni suo aspetto. Stare nella casa del Signore significa, ancora, non accontentarsi della mediocrità spirituale, ma tenere viva la passione per la crescita quotidiana nella conoscenza e nell’amore di Cristo. Stare nella casa del Signore significa, infine, coltivare con cura la preghiera personale e liturgica, quale via privilegiata di immersione nel Cuore dell’Amato.
    “Abiterò per sempre nella casa del Signore”. Il desiderio qui espresso possa divenire realtà nell’ora presente della nostra vita e possa realizzarsi pienamente un giorno, quando il tempo, senza aurora e senza tramonto, entrerà nell’eternità di Dio.
  • Vi è, però, anche un significato che riguarda la nostra relazione con il mondo esterno e la storia nella quale la provvidenza di Dio ci ha collocato. Quanto, infatti, desideriamo per la nostra vita lo avvertiamo anche desiderabile per nostri fratelli e per le nostre sorelle. Sarebbe un segno poco rassicurante per la vitalità della nostra fede se questo desiderio non vi fosse o dovesse rimanere soffocato dalla presenza di altre presunte priorità.
    Portare Dio agli uomini, infatti, è la priorità delle priorità. Introdurre Dio in questo mondo come Colui che è sceso dal cielo per essere con noi e per noi: questo, alla fine, è il compito primario che discende dall’esperienza di una fede viva. Ciascuno di noi può fare molte cose e, a volte, deve anche farle. Ma quando cominciassimo a pensare che Dio non è così importante, che prima vi sono tanti altri problemi da risolvere, che potrebbe essere più opportuno dedicarci primariamente o esclusivamente alla promozione umana, questo sarebbe il segnale di un grave smarrimento spirituale. Dio è la vera necessità del mondo. Dio è il vero necessario per la vita degli uomini. Dove Dio scompare o viene relegato ai margini dell’esistenza, allora scompare anche l’uomo.
    “Abiterò per sempre nella casa del Signore”. Ciascuno di noi sa bene che nella casa del Signore non si può abitare da soli. Perché la nostra gioia sia piena e sia vera è necessario che in questa abitazione vi si entri con gli altri e, perlomeno, si faccia tutto il possibile perché questo si avveri. La gioia in Dio di tutti è la pienezza della gioia.

 

3 – “Non ci stanchiamo mai di operare il bene”

Nella Messa di questa Domenica, al momento della grande preghiera della Colletta, abbiamo pregato così: “Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, Signore, perché, sorretti dal tuo paterno aiuto, non ci stanchiamo mai di operare il bene”.

La conclusione della preghiera della Chiesa è per noi di grande stimolo. E lo è sotto un duplice punto di vista.

  • Anzitutto dal punto di vista della stanchezza, che nella nostra vita è sempre una possibilità come anche una tentazione. La tradizione spirituale, fin dal monachesimo antico, ha chiamato una tale stanchezza “accidia”. Di che cosa di tratta? Esattamente è quell’atteggiamento del cuore che rimane, in qualche modo, assopito, annoiato, indifferente, triste, pigro e, pertanto, incapace di camminare speditamente e con vigore nella via di Dio.
    Perché questo accade? Spesso è il risultato di una mediocrità spirituale che, a lungo tollerata, ha condotto a questa grave malattia dell’anima. Quando non si è vigilanti, quando si scende ordinariamente a patti con le mezze misure, quando la via della santità rimane sullo sfondo delle nostre priorità, allora un poco alla volta ma inesorabilmente si entra nel vizio dell’accidia.Questo vizio, però, può essere anche la conseguenza dell’esperienza del fallimento nella vita secondo lo Spirito. Un fallimento che tante volte prende forma nella ripetuta esperienza di propositi buoni che non si sono realizzati, di desideri alti che sono venuti meno, di speranze di progressi spirituali che si sono infrante, di programmi di santità che non hanno preso corpo come avremmo sperato. Guardando troppo ai propri fallimenti e troppo poco al Signore e al Suo amore, che sempre accoglie nel Suo abbraccio e rialza dalla caduta, si lascia spazio all’avvento dell’accidia.
    In fondo, un po’ tutti, forse, siamo accidiosi. O, perlomeno, tutti rischiamo di esserlo, dal momento che tutti possiamo cadere nell’errore di non combattere con prontamente e con decisione la mediocrità, come anche di guardare troppo a noi stessi, alla nostra miseria e meno a Dio e alla Sua infinita misericordia.Verifichiamo, pertanto, se e in quale misura l’accidia ha messo radici nella nostra vita. Affidiamo, poi, soprattutto alla preghiera la possibilità di vincere la nostra battaglia spirituale contro questo vizio: “Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, Signore, perché, sorretti dal tu paterno aiuto, non ci stanchiamo…”.
  • La preghiera della Chiesa, a cui stiamo facendo riferimento, termina con un’indicazione che completa la nostra domanda: “di operare il bene”. La stanchezza, infatti, e dunque l’accidia, va esattamente a colpire la nostra volontà di operare il bene.
    Il bene, come è ovvio, ha una connotazione molto ampia e può riguardare l’intero spettro della vita secondo il Vangelo. Oggi, però, vogliamo considerare il bene soprattutto in relazione alla vita fraterna e, di conseguenza, alla carità.Una grave stanchezza che può prendere tutti noi è proprio quella che ci pone in condizione di “gettare le armi” nel combattimento contro il nostro egoismo, il nostro orgoglio, la nostra pretesa di essere al centro delle attenzioni degli altri, di tutti. Quando abbiamo iniziato la sequela di Gesù e, più tardi, quando siamo entrati nella vita di consacrazione, eravamo ben consapevoli che la storia della nostra santità avrebbe coinciso con la storia della nostra carità. E con decisione generosa abbiamo intrapreso l’avventura del donarci agli altri secondo la misura dell’amore di Dio che a noi è stato donato.
    Inevitabili, però, sono state le nostre cadute. Come inevitabile è stata l’esperienza rinnovata della povertà del nostro amore e, insieme, della ricchezza – se così possiamo chiamarla – del nostro io, sempre risorgente con tutte le sue pretese. D’altra parte, i difetti altrui sono stati motivo a volte di grande delusione, altre volte di profonda sofferenza e, forse, anche di un sordo quanto pervicace risentimento mai estirpato dal cuore.
    E così, un po’ alla volta, siamo entrati nella triste convinzione che vivere la carità in comunità non è possibile, che l’altro con il suo bagaglio di difetti non è davvero amabile, che la mia persona non può più vivere nel nascondimento umile, nella dimenticanza di sé, nella donazione della propria vita senza alcun ritorno gratificante.La vita comunitaria, allora, ha smesso di essere il luogo nel quale il Signore mi ha chiamato perché io mi lasciassi lavorare da Lui per il tramite della sorella o del fratello, lo spazio della mia santificazione nella carità. E’ divenuto, tristemente, il luogo nel quale continuare a sopravvivere e lo spazio di un abbruttimento del cuore, dei sentimenti e della vita in genere.
    Verifichiamo, anche in questo caso, se le cose stanno in qualche modo così. E se fosse, prendiamo urgenti provvedimenti a partire dalla preghiera: “Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, Signore, perché, sorretti dal tu paterno aiuto, non ci stanchiamo di operare il bene”, non ci stanchiamo di vivere la carità nella quotidianità della nostra vita consacrata.
    Sarà bene ricordare che non può esservi santità senza carità, che non esiste una vera vita in Dio che non sia per ciò stesso anche una vita di donazione senza riserve e condizioni nell’amore fraterno. La santità senza la carità sarebbe una finzione e la vita in Dio senza donazione sarebbe una mera illusione.

 

4 – “Un banchetto di grasse vivande”

La suggestiva immagine del banchetto di grasse vivande la troviamo in una pagina di Isaia. Il profeta immagina il tempo in cui, finalmente, il Messia visiterà il suo popolo e troverà compimento l’attesa dei secoli. L’umanità potrà così sperimentare la bellezza della presenza del Salvatore, sorgente di pienezza di vita.

Sappiamo che, spesso, nella Bibbia il banchetto di nozze ha a che vedere con una vicenda di amore che ha lì il proprio compimento. Quando, dunque, il profeta usa l’immagine del banchetto fa intendere che la venuta del Messia segnerà il compimento di una storia di amore, una sorta di celebrazione nuziale tra Dio e l’umanità salvata.

Non a caso il Vangelo di questa Domenica paragona il regno dei cieli a una festa di nozze: “Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio” (Mt 22, 2) e chiede che i commensali invitati rivestano l’abito nuziale: “Il re entrò per vedere i commensali e scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale” (Mt 22, 11).

Da questo punto di vista, ancora una volta, ci viene ricordato che non è possibile vivere l’esperienza della fede al di fuori del contesto nuziale che, di quella fede, è il nucleo centrale, il cuore pulsante. Non possiamo mai dimenticare – come a volte siamo portati a fare – che la relazione con il Signore non può essere ridotta a un semplice codice di comportamento, o all’adesione a un ideale di vita, o a un cammino progressivo di perfezionamento affidato alle sole nostre forze. Sarebbe davvero troppo poco. E sarebbe anche errato, in quanto sganciato dalla sua radice viva e vivificante. Tale radice viva e vivificante è proprio la dimensione sponsale della fede, nella quale ci è dato di accogliere l’amore esorbitante di Dio e di rispondere a questo amore in virtù della grazia, che ha trasformato il nostro cuore rendendolo capace di amare.

E’ necessario che di continuo ci caliamo dentro questa realtà, tanto bella e preziosa quanto fragile e facile da dimenticare. La tentazione di noi tutti, infatti, è sempre quella di tornare a considerare la vita secondo il Vangelo alla stregua di uno sforzo volontaristico e di un semplice cammino di perfezionamento morale. Ma la vita secondo il Vangelo è molto di più ed è molto più esaltante, dal momento che si configura come il dono della salvezza fatto a noi dal Signore, perché la Sua vita possa divenire la nostra e, come dice san Paolo, il nostro vivere possa essere quello di Cristo, anzi Cristo stesso (cf Fil 1, 21).

Non perdiamo di vista, pertanto, che la nostra esistenza è chiamata a essere ogni giorno di più una storia nuziale, nella quale il primato è sempre dello Sposo divino che, con Sé stesso, ci dona ogni cosa, introducendoci nell’esperienza della vita salvata. Salvata perché da Lui amata fino alla morte e alla morte di croce, perché con Lui introdotta nell’abisso infinito della comunione trinitaria.

E’ bella, quindi, la vita di fede! E’ esaltante la vita di fede! E’ una grazia e una gioia senza fine la vita di fede! Così diversa – permettetemelo – da quella vita che a volte viviamo noi con pesantezza e che si esprime nell’opacità dei nostri volti, nella ripetitività stanca dei nostri gesti, nella triste abitudine al lamento, nella mancanza di slancio e di passione. Ma questa, purtroppo, è una vita vissuta con poca fede e dove Dio ha perso in noi lo splendore della Sua presenza.

Per tornare un istante a Isaia, ascoltiamo l’invito contenuto nel suo oracolo: “Rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza” (25, 9). Chi ha la fede è immerso in una gioia che non gli può essere tolta, perché ha ricevuto in dono di essere amato da quel Dio che è incondizionatamente buono e potente, il cui amore è assolutamente affidabile. Chi ha la fede è introdotto nel “banchetto di grasse vivande” delle nozze spirituali con il suo Signore. Chi ha la fede non conosce la rassegnazione, l’assenza di serena letizia, la mancanza di senso dell’umorismo (anche verso sé stesso) e la disillusione cinica.

Non è questa la fede che attrae? Non è questa le fede che, per via di attrazione, è capace di introdurre all’incontro con Gesù chi Gesù non lo ha conosciuto o lo ha abbandonato? Non è questa la fede feconda che comunica la bellezza del Signore, che annuncia l’amicizia del Signore con l’uomo, che rivela nel Signore l’unico vero alleato capace di salvare l’uomo e il mondo?

Di questa fede abbiamo tanto bisogno. Questa fede dobbiamo chiedere insistentemente nella preghiera. In questa fede dobbiamo aiutarci reciprocamente a crescere.

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Avevamo detto all’inizio della meditazione che avremmo aperto quattro finestre. Le finestre abbiamo cercato insieme di aprirle, l’aria tersa dello Spirito ha soffiato e soffia sul terreno della nostra vita. Lasciamoci ora “toccare” da quest’aria che viene dall’alto e ci conduce per le vie del Signore. Non abbiamo timore a permettere che questo “tocco” dello Spirito faccia emergere con chiarezza i disordini presenti nel nostro cuore. Non rimaniamo titubanti di fronte alle ispirazioni che questo stesso “tocco” divino ha suscitato e suscita in noi. Questa santa aria ci risanerà nel profondo. Questa santa aria metterà le ali al nostro cammino. Questa santa aria ci condurrà ancora una volta alla Sorgente della vita dove è la Luce che non conosce tramonto.