Meditazione – In cammino verso la patria

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Meditazione – In cammino verso la patria

Meditazione – In cammino verso la patria

Monache Benedettine del Santo Volto
Ritiro mensile, novembre 2020

 

La legge della preghiera è la legge della fede
“Lex orandi, lex credendi”. La dizione completa e originale di questo antico assioma, attribuito a san Prospero di Aquitania, risulta essere la seguente: “Legem credendi lex statuat supplicandi” (“La legge della preghiera stabilisca la legge della fede”).
Per quale motivo abbiamo ricordato l’antico assioma, nel momento in cui ci apprestiamo a meditare sul nostro cammino terreno orientato verso la Patria? Perché ogni nostra meditazione non può fare a meno di attingere al dato della fede, professato e celebrato in liturgia dalla Chiesa.
Stiamo vivendo gli ultimi giorni di un anno liturgico, giorni segnati dal richiamo alla vigilanza, dal pensiero della morte e del giudizio, dalla fede nella vita eterna e nella risurrezione, dall’attesa del ritorno glorioso del Signore. Quanto la liturgia ci dona di vivere altro non è che la declinazione orante di quello che affermiamo, in sintesi, nella professione della nostra fede, nella sua parte conclusiva. Ricordiamolo, nella duplice formulazione del Simbolo Apostolico e del Simbolo Niceno Costantinopolitano: “Credo… la risurrezione della carne, la vita eterna”. “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.
A questa sintesi del dato della nostra fede aderiamo con tutto il cuore. Eppure la nostra intelligenza chiede un approfondimento, la possibilità di contemplare le realtà ultime della vita scorgendovi qualche cosa di più, sollevando almeno parzialmente un velo su ciò che costituisce il destino eterno del nostro pellegrinaggio terreno. Al riguardo, sant’Agostino affermava: “Credo ut intelligam, intelligam ut credo” (“Credo per capire, capisco per credere”); e sant’Anselmo di Aosta, variando le parole del Vescovo di Ippona, scriveva: “Fides quaerens intellectum, intellectus quaerens fidem” (“La fede richiede l’intelletto, l’intelletto richiede la fede”).
Tutti noi, senza eccezione, possiamo e dobbiamo fare nostre le affermazioni di questi due grandi santi e teologi. E, pertanto, scrutare con amore e nella preghiera il disegno salvifico di Dio sulla fine della nostra vita terrena, traendone conseguenze per la nostra quotidianità. In altre parole, dalla meditazione sulle realtà ultime non può che scaturire un modo nuovo di camminare per le strade del mondo e una più grande speranza nel percorrere il breve tempo della nostra esistenza.

Il tempo è breve: la morte
Non è certo una scoperta. E’ un dato, a tutti evidente. Il tempo è breve e la conclusione di questo tempo è la morte. Se ci fermiamo a considerare l’esperienza umana della morte, lo facciamo solo in ragione del fatto che per noi morire significa passare ad altra vita.
In virtù della fede, la conclusione del cammino terreno non corrisponde alla fine di tutto, non si identifica con un muro invalicabile oltre il quale vi è il nulla e l’oscurità temibile dell’annientamento totale. La morte, invece, è passaggio, via allo spalancarsi di tutta intera la verità sulla vita umana personale e collettiva, splendore di luce che attraversa tutti gli enigmi della storia rendendoli intellegibili, inizio di un mondo nuovo in cui la regalità di Cristo Salvatore si manifesterà gloriosa nel segno dell’amore senza fine.
La morte, così attesa, diviene motivo di vigilanza. A quel momento, infatti, è necessario arrivare preparati. Per questo motivo, negli ultimi giorni dell’anno liturgico l’invito a vigilare si rinnova, sia nella preghiera della Chiesa sia nella parola di Dio che accompagna questo tempo.
Che cosa significa, però, vigilare? Dal momento che si tratta dell’incombere della morte, potremmo essere tentati di intendere la vigilanza come determinata dalla paura di ciò che ci attende. Ma sarebbe troppo poco. E’ indubbio che l’atto del vigilare è sostenuto anche dal timore del giorno nel quale si dovrà rendere conto della vita. Ma è anche certo che la vigilanza nella fede si caratterizza soprattutto per il desiderio di approdare all’altra riva del tempo, quella dell’incontro definitivo con il Signore, cercato e amato durante il pellegrinaggio terreno e, finalmente, contemplato faccia a faccia per un’eternità felice nell’amore.
Il pensiero della morte, pertanto, deve indurre a una vita sempre più conforme alla vita del mondo che verrà, alla volontà di Dio quale significato pieno dell’esistenza, alla santità quale anticipazione in terra della gloria del Cielo.
Per noi, ricordare la morte sarà l’opportunità di grazia per ridestarci dal torpore spirituale che a volte ci avvolge, per procedere senza indugio nella sequela di Gesù, per usare con saggezza il tempo, ogni volta in cui potremo essere tentati di perderlo stoltamente.
Riportiamo alla memoria un episodio della vita del beato Pio IX. Si racconta che, un giorno, un principe ebbe la grazia di confessarsi dal Papa. Il Beato lo confessò con grande cura trovandolo ben preparato. Nel dargli la penitenza, però, si accorse che il penitente faceva difficoltà, sia riguardo alla penitenza del digiuno, sia a quella della preghiera più lunga, sia a quella di un pellegrinaggio. Al Papa, allora, venne in mente una penitenza piuttosto curiosa: consegnò al penitente un anello d’oro su cui erano incise due parole “Memento mori” (“Ricordati che devi morire”), con l’obbligo di portarlo al dito e leggere quelle due parole almeno al mattino, dicendo: “Morire…ecco la mia sorte!…Mi salverò?”. Il penitente fu ben contento di una penitenza così lieve, ringraziò il Papa e gli promise che senz’altro l’avrebbe fatta. Bastarono quelle due parole, lette la mattina e la sera, a spingerlo pian piano a una conversione radicale di vita, fatta di preghiera e penitenza. Difatti, alcuni anni dopo, incontrandosi di nuovo con il Papa, il principe gli ricordò: “Santità, io sono il penitente dell’anello… Da quella confessione fino a oggi non ho commesso nessun peccato mortale: il pensiero della morte mi fa superare qualunque tentazione”.

Il giudizio particolare
Attraversata la soglia della morte, così ci ricorda la nostra fede, ci attende il giudizio di Dio. La morte, infatti, segna la conclusione del tempo delle scelte e immette in una condizione definitiva di accoglienza o rifiuto dell’amore del Signore.
Come ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica “Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede” (n. 1021).
Al numero successivo, sempre il Catechismo aggiunge: “Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre (n. 1022)”.
Al riguardo, i santi hanno spesso esplicitato il contenuto fondamentale di questo giudizio, sulla base dei racconti evangelici. San Giovanni della Croce, ad esempio, scrive: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (Parole di luce e di amore, 57).
Che cosa comporta, per noi, il pensiero del giudizio particolare? Che cosa ne consegue per la nostra vita di fede?
Se consideriamo con attenzione la realtà del giudizio, secondo l’insegnamento della Chiesa, ci accorgiamo che, in realtà, un tale giudizio abbiamo la possibilità, in qualche modo, di anticiparlo già nel corso della vita e, a dire la verità, anche quotidianamente. Che cosa è, infatti, l’esame di coscienza, se non un’anticipazione del giudizio del Signore, che noi proviamo a formulare su noi stessi stando davanti a Dio e alla Sua parola?
In questa luce, forse si apre davanti a noi un modo diverso e più fecondo di vivere ogni giorno l’esame di coscienza personale. Questo non dovrà configurarsi semplicemente come un ripiegamento sterile su sé stessi, quasi un guardarsi allo specchio spiritualmente al fine di vedere ciò che è conforme alla nostra immagine di perfezione e ciò che non lo è. L’esame di coscienza sarà, piuttosto, il momento nel quale sostare davanti al Signore, in ascolto della Sua parola e contemplando il Suo amore crocifisso, al fine di valutare se la nostra vita sta camminando nella logica della carità oppure no, se l’alleanza sponsale con Gesù la stiamo vivendo nella fedeltà e nello slancio gioioso, oppure nel tradimento e senza una vera partecipazione del cuore.
In altri termini, il tempo dell’esame di coscienza potrà divenire per noi il tempo nel quale farci giudicare dal Signore nella verità, lasciandoci interpellare dal Suo amore di misericordia, che sempre ci dona la gioia del Suo perdono e la grazia di ricominciare quando a Lui ricorriamo con fiducia e umiltà.
Siamo, dunque, oggi, giudici attenti e sinceri di noi stessi davanti a Dio, per disporci, domani, a ricevere il giudizio di Dio nella verità del Suo abbraccio d’amore.
In merito al giudizio particolare, può essere di aiuto ricordare l’esperienza di santa Gelasia. Si dice che Gelasia fosse la più celebre cantante e ballerina di Antiochia che, per la sua condotta, era di scandalo a tutta la città. Un giorno la curiosità la spinse a entrare in una chiesa. Il predicatore stava parlando del giudizio di Dio. La descrizione viva del terribile incontro fra Dio giudice e la povera creatura peccatrice colpì profondamente la giovane Pelagia, instillandole un timore così salutare che, al termine della predica, in lacrime, si gettò ai piedi del predicatore pregandolo di volerla preparare al Battesimo. Sconvolta e sinceramente pentita, distribuì tutte le sue ricchezze ai poveri e volle ritirarsi sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme, dove visse per molti anni una vita di aspra penitenza, in riparazione degli scandali dati, accompagnata dalla lunga e fervida preghiera. Il pensiero del giudizio di Dio ne aveva fatta una santa.

Il Purgatorio
Che cosa afferma la Chiesa in merito alla purificazione finale? Ecco come si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica, dando voce alla Tradizione ecclesiale: “Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo” (n. 1030).
La nostra fede, di conseguenza, attesta che esiste uno stato di purificazione, che le anime in stato di purificazione possono essere aiutate a purificarsi in virtù della comunione dei santi, che una volta terminata la purificazione le anime sono ammesse immediatamente alla visione beatifica di Dio.
La verità del Purgatorio ha, sulla nostra vita spirituale, almeno due conseguenze importanti.

  • La prima. A noi è data la possibilità di esercitare una squisita e delicatissima carità: quella di aiutare le anime “purganti” a compiere l’itinerario verso la pienezza della gioia in Dio. E’ lecito affermare che la nostra carità non sarebbe completa se non comportasse anche quest’opera di vera fraternità, per il tramite della preghiera – soprattutto la Santa Messa – , della penitenza e delle opere buone destinate al suffragio.
    E’ ottima abitudine, pertanto, stabilire un legame di grazia con le anime del Purgatorio, vivendo anche in questo ambito la consolante verità della comunione dei santi, in virtù della quale, in Cristo, siamo tutti un unico Corpo. Un Corpo nel quale gli uni gli altri abbiamo la possibilità di aiutarci e sostenerci nel cammino verso Dio, attingendo a quei beni spirituali che sono all’origine della comunione tra i vivi e i defunti.
    Può essere interessante ricordare, in proposito, un episodio della vita di san Pio da Pietrelcina. Il professore Gerardo de Caro, uno dei figli spirituali più vicini a padre Pio, una sera del 1943 ebbe un colloquio con il Santo sulle anime purganti. Il professore si rese ben conto che padre Pio aveva una conoscenza esatta delle anime che vanno in Purgatorio dopo la morte e anche della durata delle pene che la divina bontà assegna per sanzione delle offese recate a Dio, fino allo stato di perfetta purificazione, per trasportare quelle anime nella beatitudine del Paradiso. In quell’incontro il professore approfittò per raccomandare a padre Pio l’anima di uno scrittore preferito, ma piuttosto equivoco (senza dire il nome dello scrittore). Padre Pio si fece rosso in viso e manifestò il suo dolore, avendo inteso subito chi fosse quello scrittore, e disse: “Ha amato troppo le creature”. E alla richiesta, più con lo sguardo che con le parole, del tempo che avrebbe dovuto rimanere in Purgatorio, il Padre rispose al professore: Resterà almeno 100 anni in Purgatorio!”. E poi aggiunse”: “Bisogna pregare per le anime del Purgatorio”.
  • La seconda. Ciò che vivono le anime del Purgatorio trova un riflesso singolare nella esperienza spirituale di noi, ancora viandanti nel cammino verso la Patria. Di che cosa si tratta? Una pagina di santa Caterina da Genova, che ha scritto uno splendido Trattato sul Purgatorio, può illuminare la nostra meditazione. Scrive la Santa: “Tutta la pena delle anime consiste in questo: poiché Dio mostra loro nella propria luce quelle cose, esse si trovano impedite nell’assecondare l’attrazione divina, cioè lo sguardo che Dio rivolge loro per attirarle a sé. Alla luce divina esse si vedono appesantite, mentre per istinto vorrebbero essere senza impedimento per poter essere attirate da quel divino sguardo. Non soffrono per la loro pena, che di per sé è già grandissima, ma soffrono per la condizione in cui si trovano, contraria al volere di Dio: che invece vedono chiaramente infiammato dal massimo e puro amore verso di loro da attirarle così fortemente con quel suo sguardo unitivo, che sembra non avere altra preoccupazione se non questa. Perciò l’anima, di fronte a questo, se trovasse un altro purgatorio che la potesse liberare più velocemente da quell’impedimento, ci si butterebbe, tanto è la potenza dell’amore che l’anima prova, simile a quello di Dio”.
    L’anima purgante, dunque, ormai è tutta presa dalla volontà di Dio che la vuole con Sé, ma è anche consapevole che questo non le è ancora possibile per ciò che in lei rimane di contraddizione con Dio a motivo del peccato. E così anela a vivere la pena per poter al più presto conseguire la piena comunione con il suo Signore.
    Un’immagine di tale esperienza la troviamo nella vita dei santi, quando essi avvertono la distanza che ancora li separa dal Signore e, di conseguenza, accolgono con gioia ogni pena della vita, vivendo anche un volontario stile penitenziale, al fine di accorciare i tempi della comunione piena con Dio.
    Chiediamo la grazia di poter anche noi provare nel cuore un tale desiderio ardente del Signore, così da essere disposti a tutto pur di purificare in profondità la nostra vita, al fine di approdare felicemente a quelle che san Giovanni, nell’Apocalisse, chiama le nozze dell’Agnello. Possa essere ben vivo in noi un’anima sponsale, che anela in ogni modo all’unione definitiva con il suo Sposo divino.

L’inferno
Ci rivolgiamo ancora al Catechismo della Chiesa Cattolica per mettere bene a fuoco ciò che professiamo nella nostra fede a proposito dell’inferno: “Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola inferno” (n. 1033).
Anche alla realtà dell’inferno dobbiamo volgere lo sguardo, per osservare con grande tristezza la condizione in cui si trovano, dopo la morte e per l’eternità, coloro che, nella loro vita, sono vissuti nella dimenticanza di Dio e nel disprezzo delle Sue leggi. Una tale condizione non è dovuta alla condanna inferta da Dio. E’ l’uomo peccatore che, rifiutando di pentirsi del male compiuto, si condanna volontariamente all’inferno, ovvero a essere eternamente lontano da Dio. In questo senso riconosciamo che l’esistenza dell’inferno non contraddice in alcun modo l’amore infinito di Dio. E’ l’uomo, infatti, che liberamente e ostinatamente lo sceglie per sé.
Quando il nostro sguardo si rivolge alla realtà dell’eterna condanna, ne consegue una capacità singolare di avvertire il dramma terribile del peccato, quale ribellione a Dio e al Suo amore. Da questo punto di vista, diventa salutare per la nostra vita di fede sostare di tanto in tanto sulla condizione eterna di lontananza dal Signore. Ne ricaveremo un orrore più grande della colpa, un desiderio rinnovato di vita secondo il Vangelo, una consapevolezza ritrovata di come il male che colpisce l’anima sia la vera tragedia della storia umana, personale e collettiva.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori riferisce il seguente episodio. Nella grande e celebre università di Parigi avvenne che uno dei suoi più qualificati studiosi e professori morisse all’improvviso. Il Vescovo, suo grande amico, ne rimase molto colpito e si pose subito a pregare con fervore per suffragare quell’anima. Una notte, però, mentre il Vescovo pregava per quel defunto, vide proprio l’amico davanti a sé, con la faccia disperata tra le fiamme ardenti. Il Vescovo comprese subito che si trovava all’inferno e volle fargli alcune domande, dicendogli: “All’inferno ti ricordi ancora delle scienze per le quali eri così famoso durante la vita terrena?”. Quasi con rabbia, l’amico gli rispose subito: “Ma che scienze e scienze!… In compagnia dei demoni abbiamo ben altro a cui pensare! Questi spiriti malvagi non ci danno un momento di tregua e ci impediscono di pensare a qualunque altra cosa che non siano le nostre colpe e le nostre pene. Queste sono già tremende e spaventose, ma i demoni ce le inaspriscono in modo da alimentare in noi una continua disperazione!”.
Non sappiamo con sicurezza quanto il racconto di sant’Alfonso sia il resoconto di un fatto davvero accaduto. Certo è che aiuta tutti noi ad avere uno giudizio diverso sulla vita, su ciò che è importante e ciò che non lo è, sulle realtà per le quali vale la pena vivere e quelle, invece, che non sono così indispensabili come sembrano.
D’altra parte, ed è bene non dimenticarlo, il pensiero dell’inferno può sostenerci in modo salutare nei momenti della debolezza, quelli che tutti abbiamo nel corso della vita. Momenti nei quali siamo sedotti dalla tentazione al male e avvertiamo che quanto contraddice la volontà di Dio diventa falsamente desiderabile. E’ il tempo della prova e dell’inganno del tentatore, quando può capitare che riportare alla memoria la realtà dell’eterna condanna sia a beneficio di una più grande saggezza nelle nostre decisioni e nelle nostre scelte.

Il Cielo
Il panorama relativo alla nostra condizione futura si riveste di luce abbagliante e gioiosa quando si alza il sipario sulla realtà del Cielo, “Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati”, come la definisce il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1024).
E’ il Cielo il destino di eterna felicità riservato a coloro che, in Cristo, hanno accolto la vita nuova dei figli di Dio. “La vita, infatti, è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo, là c’è la vita, là c’è il Regno” (Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, 10, 121).
Frutto di una rivelazione divina, questo stupendo mistero di comunione con Dio va al di là di ogni possibilità di comprensione e di descrizione, al di là di ciò che l’uomo intende per felicità.
Forse, solo l’esperienza spirituale e mistica dei santi può comunicarci una pallida idea dell’eterna bellezza del Cielo. Ascoltiamone alcuni.
Anzitutto, santa Teresa del Bambino Gesù:Il mio cuore è calmo come un lago tranquillo o come un cielo sereno; non ho rimpianti per la vita di questo mondo; il mio cuore ha sete delle acque della vita eterna. Ancora un poco e l’anima mia lascerà la terra, finirà il suo esilio, terminerà il suo combattimento. Salgo al cielo, raggiungo la patria, colgo la palma della vittoria! Fra poco entrerò nel soggiorno degli eletti, contemplerò bellezze che l’occhio dell’uomo non ha veduto mai, udrò armonie che l’orecchio mai udì, godrò gioie che il cuore non ha gustato mai… Eccomi giunta a quell’ora… Sono un fiore primaverile che il Giardiniere coglie a suo piacere. Tutti siamo fiori piantati su questa terra e che Dio coglie a suo tempo: un po’ prima, un po’ dopo. Un giorno ci ritroveremo in paradiso e godremo della vera felicità” (Lettera 219: Alle sue sorelle Madre Agnese di Gesù, Suor Maria del Sacro Cuore e Suor Genoveffa).
Poi, sant’Agostino: “O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria” (Discorso 256).
Infine, sant’Efrem il Siro: “Secondo quanto ciascuno quaggiù avrà purificato l’occhio, sarà in grado di vedere la gloria di Colui che è più grande di tutti. Secondo quanto quaggiù avrà aperto l’orecchio, sarà all’altezza della sua sapienza. Secondo quanto quaggiù si sarà fatto un grembo, sarà in grado di prendere dai suoi tesori… La visione del tuo Beneamato è la fonte della soavità, e colui che sarà degno di essere rapito di gioia disprezzerà il cibo, poiché chiunque ti contemplerà si impinguerà della tua bellezza. Lodi alla tua bellezza!” (Inni sul Paradiso, IX, 26.29).
Il pensiero del Cielo deve accompagnare il nostro pellegrinaggio terreno e rimanere saldo sullo sfondo della nostra vita. E’ per il Cielo che esistiamo! E’ dal Cielo che veniamo! E’ verso il Cielo che ci muoviamo! E’ a motivo del Cielo che ogni realtà umana assume consistenza e significato.
Vale la pena, al riguardo, ricordare un episodio della vita di santa Madre Teresa di Calcutta, così come raccontato dal Card. Angelo Comastri, nel suo libro Dio è amore: “La Madre era diretta a una parrocchia romana e io la stavo accompagnando insieme a due suore. Eravamo in piedi alla fermata lungo la Passeggiata Archeologica, dopo aver lasciato la casa delle Missionarie della Carità presso san Gregorio al Celio. Mentre aspettavamo, una macchina improvvisamente si ferma. Il conducente evidentemente aveva riconosciuto la Madre e, volendo compiere un gesto di cortesia, chiese: ‘Madre, che aspetta?’. La Madre, senza un attimo di esitazione, rispose: ‘Aspetto il Paradiso, mio caro!’. Tutti sorridemmo, ma, in verità, Madre Teresa ci aveva ricordato una fondamentale verità cristiana”.

Il Giudizio finale, i cieli nuovi e la terra nuova
Ci resta il tempo di una breve sosta su ciò che costituisce il compimento ultimo della storia. “Davanti a Cristo che è la Verità – leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica – sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. Il Giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena” (n. 1039).
Quindi, – leggiamo ancora nel Catechismo – “Alla fine dei tempi, il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il Giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato” (n. 1042). “Anche l’universo visibile, dunque, è destinato a essere trasformato, «affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti», partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo risorto” (n. 1047).
Qui la nostra contemplazione non può fare a meno di immergersi nella visione di san Giovanni al termine del libro dell’Apocalisse: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate»” (21, 1-4).

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Al termine di questo itinerario che, nella meditazione orante, ci ha condotto in quel tempo senza tempo che è l’eternità in Dio, donandoci alcune luci spirituali per la nostra vita presente, rimaniamo in ascolto di una bellissima pagina di san Cipriano, vescovo e martire. Non è un caso che la Chiesa la riproponga, nell’Ufficio delle Letture, nei giorni che segnano la conclusione dell’Anno liturgico. Anche questa pagina ci aiuti a vivere il tempo fugace dell’esistenza in cammino verso la Patria.
“Chi, trovandosi lontano dalla patria, non si affretterebbe a ritornarvi? La nostra patria non è che il paradiso. Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza. Vederli, abbracciarli tutti: che gioia comune per loro e per noi! Che delizia in quel regno celeste non temere mai più la morte; e che felicità vivere in eterno!” (Dal trattato Sulla morte, 18, 26).