Meditazione – Ritiro Clero Diocesi di Alessandria: la chiamata dei primi discepoli

Home / Meditazioni / Meditazione – Ritiro Clero Diocesi di Alessandria: la chiamata dei primi discepoli

Meditazione – Ritiro Clero Diocesi di Alessandria: la chiamata dei primi discepoli

Ritiro spirituale dei sacerdoti
Betania: 7 giugno, 2018

 

Per me è stata una gioia grande, nel mese di gennaio, avere l’opportunità, con alcuni di voi, di vivere i giorni di esercizi spirituali, ed è altrettanto una gioia grande oggi essere qui a condividere questa esperienza spirituale: sia un momento di condivisione e di partecipazione di quanto tutti noi cerchiamo ogni giorno di vivere con gioia, a volte con un po’ di fatica, ma sempre con un grande desiderio di appartenere al Signore e di servirlo nella sua Chiesa.

Dobbiamo partire dal desiderio di rendere queste ore, in cui abbiamo l’opportunità ancora una volta di ricentrare la nostra vita e di ricentrarla sul Signore, perché la quotidianità ci porta ad essere dispersi nelle attività e nelle cose che facciamo ma ancora di più dispersi per quanto riguarda il cuore. Queste soste sono per noi una grazia perché ci consentono di concentrarci di nuovo su ciò che è veramente essenziale, cioè su colui che è essenziale per noi e cioè il Signore Gesù.

Vorrei iniziare con un racconto molto semplice.

C’era un grande maestro di tiro con l’arco che aveva diversi discepoli sportivi al suo seguito e, per i quali, un giorno organizzò una gara anche per valutare meglio il grado di capacità che avevano raggiunto. Li portò su una grande radura e collocò, all’estremità della radura, l’obiettivo che avrebbero dovuto centrare; su un grande tronco pose un cerchio con al centro un cerchietto rosso. Poi con gli allievi si pose all’altra estremità della radura, ad una certa distanza. Erano presenti, come capita in queste circostanze, i genitori gli amici e i parenti per vedere i ragazzi in questa loro prima gara. Il maestro si rivolse ai giovani dicendo: “Chi vuole iniziare?”. Uno di questo disse: “Vengo io”. Si mise nel posto da cui avrebbe dovuto lanciare la sua freccia, tese l’arco pronto per il tiro. Prima che scagliasse la freccia il maestro gli chiese: “Lo vedi il tronco su cui è posto l’obiettivo che devi centrare?”. Il ragazzo, un po’ sorpreso da questa domanda che non si aspettava, rispose: “Sì, certo, lo vedo”. Il maestro gli rispose: “Guarda, non sei ancora pronto a tirare, torna al posto”. Si fece avanti un altro, si preparò anche lui con l’arco pronto al tiro, e anche a questi il maestro pose una domanda: “Tu vedi, in questo momento, gli uccelli che stanno volando sugli alberi in fondo alla radura?”. Ed anche questo giovane, un po’ sorpreso, disse: “Sì, li vedo”. Anche per lui il maestro disse: “Torna al tuo posto, non sei ancora pronto”. Ne arrivò un altro, pronto per il tiro, e anche a lui il maestro disse: “Tu mi vedi?”. Il ragazzo rispose: “Sì, ti vedo”. “Torna al posto perché non sei ancora pronto per tirare”. Quelli che erano presenti, genitori e parenti, rimasero un po’ sorpresi, cominciarono a rumoreggiare. Arrivò il quarto ragazzo, prese posizione e a lui il maestro chiese: “Tu li vedi quegli alberi in fondo alla radura?”. E questo ragazzo, a differenza degli altri, rispose: “No, non li vedo”. “Li vedi quegli uccelli che volano?”. “No, non li vedo”. Il maestro: “Mi vedi”, e il giovane: “No, non la vedo”. E allora il maestro gli domando: “Che cosa vedi?”. Il giovane rispose: “Io vedo un cerchio rosso”. Il maestro gli disse: “Bene, tira pure”, e fece centro.

Questo per dire che, tante volte, noi siamo con lo sguardo e soprattutto con il cuore non sull’obiettivo centrale, siamo distratti, siamo dispersi, siamo altrove e la vita non può fare centro. Abbiamo bisogno di concentrarci sull’obiettivo centrale, sull’obiettivo essenziale, sul Signore, e allora la vita fa centro, la vita in generale, ma soprattutto la nostra vita di ministri; il nostro ministero, il nostro sacerdozio non può fare centro se non siamo concentrati su colui che è il centro della nostra vita.

Queste ore vogliono essere una occasione bella per ritrovare il centro e dunque poter fare centro con la nostra vita.

Ci soffermiamo su un brano evangelico non con quella fretta con la quale riascoltiamo una pagina del vangelo dicendo: “L’ho già sentita tante volte”, ma con quella freschezza interiore che ci fa chiedere: “Che cosa vuoi dirmi oggi, Signore, con questa tua parola? Dove vuoi andare a toccare il cuore con questa parola che so essere sempre nuova?”.

Noi tutti quando abbiamo l’opportunità di proclamare il vangelo, ma anche quando lo ascoltiamo nella celebrazione liturgica, facciamo un triplice piccolo gesto sul quale purtroppo passiamo con una certa superficialità, ce lo ricordiamo tutti: un piccolo segno di croce sulla fronte, sulle labbra e sul cuore. Perché lo facciamo? Perché in quel momento noi esprimiamo una volontà e un desiderio: che quella parola entri nella nostra intelligenza e diventi il nuovo criterio del pensare; che quella parola entri nella nostra bocca e diventi il nostro nuovo criterio del parlare; che quella parola entri nel nostro cuore e divenga il criterio nuovo del nostro amare e del nostro vivere.

In questo momento noi desideriamo rifare spiritualmente questo triplice piccolo gesto chiedendo al Signore questa grazia: “La parola che oggi mi doni e che oggi ascolto, divenga principio nuovo del mio pensare, principio nuovo del mio parlare, principio nuovo del mio amare e vivere; in altri termini grazie a questa parola di nuovo tu Signore possa diventare il centro di tutta quanta la mia vita”.

Con questo animo mettiamoci in ascolto di un brano breve del vangelo di San Giovanni:
“Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio”.

Questo è il breve ma intenso brano che vogliamo far diventare oggi motivo della riflessione e della preghiera. Lo passiamo in rassegna per punti, facendo in modo che ciascuno di questi punti diventi altrettanto motivo di riflessione, preghiera e rilancio della nostra vita.

C’è una annotazione iniziale che potremmo prendere semplicemente come una indicazione, ma che in verità contiene in sé molto di più, ed è quella con la quale l’evangelista sottolinea che Giovanni, il Battista, l’indomani era ancora là: vuol dire che Giovanni fin dal giorno precedente era rimasto là nel luogo in cui lo trova e lo fotografa l’evangelista. L’intenzione che l’evangelista, sottolineando questo particolare sul quale noi potremmo passare senza fare grande caso, è che il Battista è lì fermo, fisso per un tempo lungo, ed è lì come una roccia che non si può scalfire. Ci viene subito il richiamo ad un’altra figura biblica, la figura di Elia; d’altronde il Battista è il nuovo Elia e non è strano che nel Battista si ripropongano alcune caratteristiche spirituali di Elia.

E qual è il tratto tipico di Elia? Colui che sta. Dove? Sta davanti a Dio. Elia è proprio colui che rimane fermo, fedele come una roccia davanti a Dio. Il Battista è nella stessa condizione e situazione spirituale.

Che cosa ha da dirci questo “stare fermo” di Giovanni, “lì” mentre Gesù passa e gli è vicino? Ci ricorda che la prima cosa a cui siamo chiamati, nella nostra vita di sacerdoti, presbiteri, è proprio questa: stare fedelmente, fermi, davanti a Dio. Questo per due motivi: primo, perché lui è il senso della nostra vita, è colui per il quale abbiamo lasciato tutto, e se non stiamo lì davanti a lui perdiamo il senso dei nostri giorni. Il secondo motivo che ci potrebbe sembrare un po’ più lontano nell’orizzonte è che il primo modo per raggiungere il cuore degli uomini, il primo modo perché il nostro ministero vada in profondità, il primo modo per essere fecondi dal punto di vista della nostra vita ministeriale è “stare davanti a Dio”.

Penso che non ci stancheremo mai di riascoltare le parole dei saggi pastori che ci ricordano come la prima pastorale è stare davanti a Dio, la prima forma di pastorale e di ministero è rimanere fedeli davanti a Dio.

Certo questo ci porta a verificare la nostra vita su come e quando, questo stare o rimanere, sia una realtà delle nostre giornate; quanto lo sia in relazione al nostro rapporto personale di amore con il Signore, e quanto lo sia in relazione al nostro ministero, al nostro apostolato, al nostro stare in mezzo alla gente. O stiamo o cadiamo, o stiamo o moriamo; non c’è un’altra strada. O stiamo davanti a Dio o moriamo come presbiteri, e moriamo perché diventiamo sterili dal punto di vista del ministero. Se “stiamo” viviamo, come presbiteri, perché il Signore è la nostra roccia, se “stiamo” viviamo come ministri perché diventa feconda la nostra opera.

Prima di passare ad un secondo momento del brano, volevo ricordare un momento della vita di San Francesco Saverio, il grande missionario e apostolo. In una sua biografia si dice così: Francesco ricorda un colloquio avuto con Ignazio e Lainez, due dei grandi della compagnia di Gesù: uno il fondatore e l’altro il compagno di Ignazio; in quell’incontro Ignazio disse ad Lainez: “Se tutto quello che ho pianificato fallisse, se tutti i miei desideri fossero frustrati e tutte le mie battaglie dovessero risultare vane, un quarto d’ora di preghiera mi riconcilierebbe e mi lascerebbe allegro come prima”. Questa è la risorsa della nostra preghiera, la risorsa dello stare davanti a Dio.

Veniamo al secondo momento che è un secondo dettaglio: l’evangelista non si accontenta di sottolineare che il Battista stava là fermo ma indugia e dice che “fissò lo sguardo su Gesù che passava”. Questo termine “fissare lo sguardo” è molto bello e anche molto pregnante, perché non dice semplicemente il guardare, il vedere, l’osservare, ma nella sua valenza originaria, questo fissare dice lo scrutare, l’entrare dentro, il guardare in modo tale da stabilire una intimità, una familiarità con colui che si guarda. Dunque si tratta di entrare dentro il mistero di Gesù da parte del Battista: lo fissa a tal punto che riesce ad entrare dentro l’intimità di quel Signore che gli sta passando vicino.

Potremmo dire che è un desiderio di intimità, un desiderio di stabilire una relazione profonda con quel Gesù che gli passa accanto e allora pensiamo un attimo che cosa ha da dirci quest’altro particolare del Battista. Consideriamo come noi posiamo il nostro sguardo su Gesù, il nostro sguardo com’è? Superficiale, frettoloso, oppure uno sguardo intenso, penetrante, che vuole stabilire una crescente intimità di amore e di appartenenza. Ma qual è quello sguardo che noi ogni giorno possiamo vivere? Possiamo fissare lo sguardo su Gesù come il Battista, quando ne ascoltiamo la parola, perché è la parola che rende Gesù lì presente per me, è la sua voce. Noi fissiamo lo sguardo su quella parola per entrare dentro l’intimità del Signore?

L’eucaristia celebrata, adorata: fissiamo lo sguardo sull’eucaristia perché davvero possiamo entrare dentro nell’intimità della vita del Signore? I fratelli nei quali il Signore si rende presente: fissiamo lo sguardo sul volto dei fratelli per poter, attraverso di loro, entrare in intimità con il Signore della nostra vita, e fissiamo lo sguardo sulla nostra vita dove il Signore viene a parlarci, in tutto, le gioie, i dolori, le cose previste e quelle impreviste, per entrare in intimità con il Signore? Il nostro sguardo è desideroso di incontrarsi con il volto del Signore sempre e in tutto, così da vivere una reale intimità di amore che ci scuote, cambia e riempie l’esistenza, l’attenzione al Signore.

Il grande Romano Guardini in una sua opera sulle parabole evangeliche, scrive: “Questo è il mistero della vita personale. Quanto più limpidamente ho nello sguardo il “tu”, tanto più pienamente faccio di me stesso l’io”. Consideriamolo in relazione alla nostra vita di presbiteri: tanto più limpidamente ho nello sguardo il ‘tu’, ho nello sguardo Gesù, tanto più pienamente faccio di me stesso l’io, cioè il presbitero che devo essere. Se non ho questo sguardo fisso, desideroso, amante, penetrante sul volto di Gesù, non potrò mai pienamente realizzare il mio essere presbitero del Signore.

Terzo momento: dopo essersi soffermato sul Battista, Giovanni viene a portare l’attenzione su Gesù, e su Gesù in una situazione particolare, perché lo fotografa mentre passa; Gesù passa. Noi sappiamo che Agostino commentando il Gesù che passa, si ferma e riflette e dice: “Io temo Gesù che passa, temo perché ho paura che passando io non me ne accorga di questo passaggio”. Ma il “temo” di cui parla Agostino non è il “temo” fatto di paura, è il “temo” del timor di Dio, cioè un “temo” abitato dall’amore: temo di perdere questo incontro di amore che mi è suggerito, promesso da questo passaggio; è il timore di colui che ama e che amando ha paura di perdere l’appuntamento con l’amato.

Anche noi, insieme ad Agostino, fermandoci a considerare Gesù che passa; vogliamo pensare alle volte nelle quali Gesù passa nella nostra vita, ricordando che Gesù passa sempre.

Però c’è un problema: spesso non passa come vogliamo noi o come pensiamo noi, perché il passaggio del Signore è sempre un passaggio sorprendente, ed è giusto che sia così perché è il passaggio di Dio. Il pensiero di Dio non sempre è il nostro. Questo forse ci porta a rivedere il nostro modo di pensare la presenza dell’opera di Dio nella nostra vita, perché può essere che noi abbiamo cristallizzato il modo della presenza dell’opera di Dio, per cui non ci accorgiamo più di quando lui realmente passa, perché questo suo passaggio non corrisponde ai nostri criteri, al nostro punto di vista. Se c’è una tentazione grande e ricorrente, che è di tutti noi e che è per chi è più avanti nel cammino della vita spirituale, è proprio quella di farci una immagine nostra di Dio, e quindi di imprigionare Dio dentro questa realtà.

Oggi nella messa Paolo, nella lettera a Timoteo, ci dice: “La parola di Dio non può essere incatenata”. Noi a volte la incateniamo, incateniamo il Signore alle nostre categorie, e allora non ci accorgiamo più del Signore che passa, perché passa in altro modo, passa per altre vie, passa per altri sentieri, e così siamo lì ad attenderlo, secondo i nostri criteri e le nostre vedute, secondo i nostri progetti, e non ci accorgiamo che il Signore sta passando in altro modo e altrove.

In fondo che cosa vuol dire quello che ci hanno insegnato, da giovani, durante il tempo del seminario, i nostri padri spirituali: vivere in modo straordinario l’ordinario; significava saper riconoscere, nell’ordinario, la presenza e l’opera del Signore. In quell’ordinario che tante volte noi consideriamo faticoso, inutile, banale, contrario a quello che pensiamo noi, al nostro modo di intendere la giornata, ai nostri progetti, proprio quell’ordinario è il luogo del passaggio del Signore per noi, adesso.

Questo momento del brano evangelico allora ci induce ad una grande invocazione, chiedere al Signore: “Aiutami a riconoscere lì dove davvero tu passi, e dove vuoi farti incontrare da me”. Mi pare debba risvegliare un grande desiderio che può mantenere la vita giovane, curiosa, gioiosa. Quando mi sveglio al mattino, dovrei dire: “O Signore, io oggi sono curioso di capire per dove passerai e per incontrarti là dove tu vorrai. Sono curioso, e tu aiutami ad avere gli occhi aperti per trovarti, per vederti, per gioire riconoscendoti lì presente ed operante nella mia vita”.

Un quarto momento: l’attenzione dell’evangelista torna su Giovanni che dice ai discepoli che ha accanto a sé –  con il punto esclamativo – con un entusiasmo nel cuore: “Ecco l’Agnello di Dio!”. Però quasi a spiegare il punto esclamativo l’evangelista aggiunge: “Sentendolo parlare così, lasciarono il loro maestro e andarono verso Gesù”. Questa è la spiegazione di quel punto esclamativo: l’evangelista non ci dice soltanto quello che il Battista ha detto: “Ecco Gesù. Ecco l’Agnello di Dio”, ma ci dice anche come l’ha detto; l’ha detto in modo tale che due dei suoi discepoli, che aveva accanto, hanno preso e sono andati da Gesù. Qui abbiamo di che riflettere, lo capiamo bene, perché non basta parlare di Gesù, e già qui forse dovremmo interrogarci se parliamo di Gesù o se parliamo di tante altre cose che distolgono l’attenzione sull’unico che veramente interessa il cuore dell’uomo che è Gesù; le altre cose interessano parzialmente, relativamente, non sono in grado di soddisfare o, se lo fanno, è perché sono in relazione con il Signore che è capace di riempire il cuore.

Di che cosa parliamo? Questo è l’interrogativo che dobbiamo porci; di che cosa e di chi parliamo. Ma non basta parlare di Gesù, questo brano evangelico viene a dirci perché dobbiamo interrogarci sul come dobbiamo parlare di Gesù. Questo punto esclamativo che dice un entusiasmo, una passione del cuore, un crederci davvero che si vede sul volto di chi parla, e che si ascolta nella sua voce, è quello che ha convinto.

Di San Mauro, uno dei primi discepoli del grande San Benedetto, molti dicevano: “Vedere Mauro significa vedere Benedetto”. Perché, a tal punto Mauro era entrato in sintonia col suo padre e maestro Benedetto, che chi ne vedeva il volto vedeva il volto di Benedetto; chi ne ascoltava la parola, ascoltava la parola di Benedetto.

Questa dovrebbe essere una verità per tutti noi, cioè chi ci vede, in qualche modo deve poter vedere Gesù, chi ci ascolta dovrebbe in qualche modo poter ascoltare Gesù. Questo è il punto esclamativo, ed è la sorgente di ogni autentica fecondità.

In una parrocchia, raccontava una catechista, nell’incontro con i suoi ragazzi che si stavano preparando alla cresima, un giorno volle fare un esperimento. C’era stata la messa e subito dopo i ragazzi si incontravano per il catechismo. Chiese: “Ragazzi, mi sapreste dire, oggi, nel tempo in cui siete stati in chiesa partecipando alla messa, dove voi avete vista la luce?”. Voleva aiutarli a mettere in relazione preghiera-luce, liturgia-luce. I ragazzi cominciarono dire la loro. Chi disse: “Io ho visto la luce sui candelieri dell’altare”, “Io ho visto la luce nella lampada del tabernacolo”, “Io ho visto la luce nei lampadari della chiesa”, un altro nelle vetrate. Era rimasto un solo bambino che, forse più timido, non si era espresso; la catechista lo interpellò: “Ma tu non hai visto niente?”.  E questo bambino, timidamente, disse: “In verità ho visto la luce negli occhi di coloro che erano in chiesa”. La risposta era molto bella e da lì la catechista partì per riflettere con i suoi ragazzi sul rapporto luce-fede. Evidentemente era una comunità fervorosa se questo ragazzo aveva potuto vedere una luce negli occhi di questa gente.

Ecco, nel Battista c’era questa luce capace di trasmettersi, di comunicarsi e di contagiare, ed è questa luce che dovrebbe essere presente nella nostra vita e nei nostri occhi, capaci di trasmettersi, contagiare, far capire quant’è bella la fede, e quanto val la pena vivere per quel Gesù per il quale noi stiamo vivendo.

San Francesco di Sales, grande vescovo, diceva così ai suoi sacerdoti, ci sembra quasi di sentir commentare questo brano evangelico: “Non parlare di Dio a chi non te lo chiede, ma vivi in modo tale che prima o poi te lo chieda”. Sul tuo volto ci deve essere quella bellezza che, a un certo punto, pone l’interrogativo, quell’entusiasmo che, ad un certo momento, pone la domanda.

Il momento successivo: l’attenzione dell’evangelista è passata prima dal Battista a Gesù, ora si ferma sui discepoli di Giovanni, che, avendo sentito parlare in quel modo il loro maestro, seguirono Gesù. In verità qui forse noi vorremmo soffermarci ancora sul Battista perché in questo dettaglio ne vediamo tutta la grandezza.

Dobbiamo partire dalla considerazione di che cosa fosse il legame tra il rabbì del tempo e i suoi discepoli, cioè la realtà di una condivisione di tutto, grazie alla quale, il rabbì diventava maestro, padre, mentore di questi ragazzi; era un po’ tutto per coloro che lo seguivano e Giovanni, senza battere ciglio, lascia che questi “suoi” ragazzi se ne vadano, lo lascino ed inizino a seguire un altro, quel Gesù del quale il Battista era e, con tutto il cuore, voleva esserne il precursore. Pensiamo lo strappo al cuore che questo Battista vive vedendo i suoi ragazzi dargli le spalle e allontanarsi da lui; vive questo perché non aveva voluto legarli a sé, ma portarli là dove avrebbero trovato il tutto della loro vita.

Qui certamente possiamo domandarci con quanta libertà viviamo le relazioni, cioè con quale capacità noi viviamo l’incontro con gli altri, desiderosi non di legarli a noi, non di portarli a noi; non di essere i protagonisti ultimi della nostra pastorale, ma di essere sempre intermediari, mediatori, ministri. “Ministri”: questa parola piace tanto, viverla è più difficile, perché vivere la realtà della ministerialità vuol dire vivere la realtà del nascondimento e del non essere protagonisti; essere realmente al servizio del Signore e della Chiesa.

Qui il Battista vive la sua ministerialità fino in fondo, lascia che vadano perché sa che il loro bene autentico è quello, non strumentalizza gli altri alla propria gioia, alla propria ricerca di gratificazione, al sentirsi appagato. Può capitare qualche volta che a noi succeda questo: strumentalizzare gli altri per essere appagati noi, per sopperire a qualche nostra mancanza anche affettiva. Siamo “ministri” e il nostro appagamento sta nel vedere gli altri che vanno, che trovano Gesù e che in Gesù realmente vedono il senso della loro vita.

Questo che abbiamo chiamato strappo al cuore di Giovanni ci porta a considerare un altro aspetto. Giovanni fa un atto di amore e dice: “Gesù, lo vedi quanto sei importante per me, sei così importante per me che sono disposto a lasciare che questi giovani se ne vadano, perché tu sei più importante dell’affetto di questi giovani, tu sei più decisivo per me dell’amore che questi giovani hanno per me”. Occorre considerare questo aspetto, ovvero di quali strappi al cuore noi siamo capaci per amore del Signore, perché il nostro amore per il Signore che, nell’ordinarietà della vita e della nostra fedeltà, si alimenta anche con piccoli e grandi eroismi di cui la nostra vita deve essere costellata; e i piccoli e grandi eroismi sono il dire: “Signore, per te io faccio questo che mi costa, per te lascio questo anche se mi costa; per te vivo questa realtà faticosa e difficile, per te, per amore tuo”. In questo modo cresce l’amore, altrimenti come può crescere? Abbiamo bisogno di infuocarlo, cementarlo, scaldarlo con questi piccoli e grandi eroismi del quotidiano che dobbiamo fare per amore del Signore, per dire: “Gesù lo vedi, io ti amo davvero”. Tutto questo fa bene a noi e quando possiamo dire: “Signore ti amo davvero” perché ci scalda il cuore.

Nel passo successivo, questi due ragazzi iniziarono a seguire Gesù. Il verbo “seguire” è un verbo importante, tante volte torna nei vangeli ed è proprio il verbo che identifica la sequela e, in qualche modo, ci dona l’identità perché noi ritroviamo la nostra identità nel seguire il Signore, non ce n’è un’altra più vera. Ed è così vero questo che nel momento in cui Pietro, il primo degli apostoli, pretende di non seguire, ma mettersi davanti il Signore, questi lo apostrofa in quel modo durissimo: “Vai dietro di me, Satana”.

Qual è la nostra riflessione: in Pietro siamo rappresentati tutti noi, in questa continua tentazione che proviamo di metterci davanti, con la pretesa di voler essere noi a dettare i tempi, i modi, i criteri, le forme. Sarebbe utile ogni tanto che le parole che Gesù ha rivolto a Pietro le sentissimo dentro le orecchie e il cuore: “Vai dietro Satana”. Perché in quel momento è Satana che ci sta suggerendo di essere noi a stare davanti, lui il nemico che viene a dirci: “Non ti fidare, cosa vai dietro, vai tu; fidati del tuo modo di ragionare e di pensare, fidati della tua intelligenza, della tua bravura, della tua esperienza, vai tu davanti”. In fondo qui ci incontriamo e scontriamo con la tentazione radicale che, fin dall’inizio, attraversa la storia umana e che, quindi, non può non riguardare anche noi sacerdoti e presbiteri vicini al Signore; quella voce insidiosa che viene a dirci: “Non ti fidare”. Perché non ci fidiamo? Perché abbiamo questa voce che continua a dirci: “Dio non ti ama davvero. Guarda quante cose non sono andare bene, non sono andate come volevi. Guarda come ti trovi a vivere. Non ti fidare, fai di testa tua”. Questo è quello che ci capita, ne siamo tutti consapevoli. Ed è lì che si gioca davvero la nostra identità e, alla fine, anche la nostra gioia.

In questa sequela dei due discepoli val la pena sottolineare un particolare: sempre Romano Guardini in questo suo piccolo testo sulle parabole dice in un passaggio: “Ciò che viene da Dio non è nulla di già fatto e pronto, ma un inizio”. Il verbo “seguire” vuol dire questo: noi con il Signore non abbiamo qualcosa di già fatto e pronto, siamo posti in cammino, un inizio, e dobbiamo andare, non c’è un momento nel quale possiamo considerarci tranquilli, ci sediamo, siamo a posto e abbiamo capito tutto; è un seguire continuo, un continuo rimettersi a camminare, andare dietro, se c’è un elemento sul quale dobbiamo stare molto attenti e che diventa come un campanello di allarme, per la nostra vita di presbiteri e ancora prima per quella spirituale dovrebbe essere questo non essere pronti, all’erta ad andare a metterci in questione, a rimetterci in cammino.

L’attenzione dell’evangelista torna di nuovo su Gesù e dice: “Gesù, si voltò”. Anche, qui come sempre, Giovanni usa modalità molto semplici nel raccontare, e nasconde dei simbolismi bellissimi e ricchissimi, perché certo Gesù si volta perché probabilmente ha sentito dei passi, forse anche delle voci. Questi due giovani che stanno andando dietro si avvicinano e stanno per raggiungerlo, quindi Gesù si volta, nulla di più facile. Però non possiamo capire questo voltarsi di Gesù che, quindi, mostra il volto ai discepoli, se non portiamo nel cuore ciò che abbiamo nella memoria riguardo al Dio dell’antico Testamento; quel Dio che non si mostra nel volto perché “chi vede il volto di Dio muore”. Questi due discepoli sapevano bene la verità del volto di Dio che non si può vedere, conoscevano bene l’esperienza di Mosè che pure aveva una familiarità straordinaria con Dio, ma anche lui mai aveva potuto vedere il volto di Dio. Dio gli aveva detto: “Il volto non lo vedrai”; vedrai le spalle ma non il volto, perché vedere Dio significa morire.

E ora Gesù compie questo gesto: voltarsi e mostrare il volto; in fondo è il gesto della condiscendenza di Dio; è il gesto dell’incarnazione, perché è il gesto dell’Emmanuele, il Dio con noi, il Dio vicino che ci accompagna e ci prende per mano. È il gesto commovente della bellezza del nostro Dio in Gesù. Qui per quanto riguarda noi vorrei sottolineare una cosa: questi due discepoli, che certamente sono rimasti meravigliati, commossi, scioccati al vedere il volto di Gesù in quanto avevano bene in mente quell’esperienza precedente del volto di Dio non visibile, hanno capito la bellezza di questo nuovo volto di Dio perché avevano in mente l’altro. Noi possiamo capire la bellezza di questo Dio che ci è vicino, che è con noi, l’Emmanuele, il Dio fatto uomo, il Dio che prende la nostra natura nel grembo di Maria e che diventa bambino, se abbiamo ben presente la maestà, la grandezza e la trascendenza di Dio. E questi due elementi devono rimanere compresenti perché, solo quando capisco che Dio mi schiaccia con la sua potenza, allora mi commuovo di fronte alla sua piccolezza: altrimenti dire che Dio si è fatto uomo diventa una banalità e non siamo più capaci di stupirci. La bellezza di Dio si conserva nella sua incarnazione tanto quanto rimane la sua maestà e trascendenza che ci schiaccia con la sua potenza. Questo deve essere presente anche nel modo di stare davanti a Dio, nel nostro modo di celebrare, di pregare, perché altrimenti la familiarità diventa banalità, mentre la familiarità deve essere commozione, deve muoverci il cuore perché è così bello Dio che, pur potendomi distruggere, è lì come un bambino che mi guarda con quegli occhi di amore.

La domanda che Gesù pone: “Che cosa cercate?”. Una domanda strana, perché accorgendosi che questi due ragazzi camminano dietro di lui sarebbe stato normale chiedere “chi cercate”, mentre invece chiede “che cosa cercate”. Perché questa domanda, questo interrogativo? Gesù attraverso questa domanda vuole indurre i due giovani a riflettere sulla propria vita, su se stessi, a capire in verità che cosa li sta muovendo, perché lo stanno seguendo, che cosa li ha messi in cammino, qual è la ragione vera di ciò che stanno facendo?

È domanda che noi dobbiamo sentirci rivolta perché, anche per noi oggi, vale l’interrogativo: che cosa sto cercando, che cosa mi sta muovendo? È proprio così sicuro che la risposta sia: “Sei tu Signore il movente della mia vita?”. È proprio così certo? Possiamo dire con la serenità del cuore: “Tu, Signore, io cerco”. Penso che tutti noi possiamo riascoltare questo interrogativo dicendo nell’umiltà, nella serenità di chi si sente amato: “Signore quello che tu sottendi con la domanda un po’ l’ho perso di vita e, comunque, insieme a te, ci sono altre realtà che sto cercando, ci sono altre realtà che sto cercando e che mi stanno riempiendo il cuore, che mi fanno da stampella per un cuore che si sente solo, non del tutto compreso, non amato, che non è capace d trovare in te il tutto della propria vita”. Io credo che non sia mai un problema trovare dei motivi nella nostra vita che richiedono conversione e cambiamento, non è un problema perché li troveremo fino all’ultimo giorno della nostra vita; il problema è non volerli chiamare per nome, non volerli riconoscere, mettere la testa sotto la sabbia per rimanere “tranquilli ma infelici” in una situazione di compromesso e di convivenza con ciò che non è il Signore della nostra vita.

Ora le soste sono un tempo piccolo ma importante di grazia anche per questo, per stare davanti al Signore e sentirci dire come soltanto lui sa dire: “Ma che cosa cerchi?”. E ce lo dice non per atterrarci, ma per sollevarci; non per umiliarci, ma per aiutarci a riprendere meglio il cammino e a ritrovare la sequela vera di lui. Quindi senza paura sentiamo l’interrogativo: “Che cosa cerchi?”.

I due discepoli, forse anche per ovviare a rispondere a questo interrogativo, come facciamo noi, rispondono con un’altra domanda: “Dove abiti?”. Una domanda alla quale Gesù con altrettanta astuzia spirituale non risponde, o meglio risponde senza rispondere: “Venite e vedrete”.  Entrambe le parole sono molto belle perché la prima, quella dei discepoli, può essere un modo per evitare la risposta, però dice un desiderio di andare a vedere il luogo della dimora di Gesù e quindi poterlo conoscere meglio, condividere con lui qualcosa della vita, entrare in familiarità con questo maestro che è stato loro indicato; dall’altro questo “Venite e vedrete del Signore”, che non è risposta, ma è la più grande e la più vera delle risposte.

Penso che tutti noi abbiamo presente quelle porte scorrevoli delle banche e dei magazzini, si aprono quando noi ci troviamo davanti, quando le andiamo contro, e se noi non andiamo contro queste porte non si aprono. La risposta di Gesù è come se ci dicesse: “Guarda che se tu non vai contro, non vedi che cosa c’è al di là; ci devi andare e quindi vieni e vedi. Non posso dirti prima dove abito, devi venire a vedere e a rendertene conto”.

Questa è sempre la logica della sequela di Gesù che noi stravolgiamo perché vogliamo sapere tutto per poi andare; il Signore prima ci chiede un atto di fede, “vieni”, e poi “vedrai e capirai”. La nostra logica, “vado quando so”, è capovolta, mentre invece “vado per sapere” “saprò andando” è la logica della fede, del fidarsi.

C’è un altro elemento sul quale possiamo sostare perché, in verità, Gesù non ha una abitazione, Gesù è l’abitazione, e questo è importante per noi, per il nostro modo di vivere anche il ministero del sacerdozio perché, dovunque Gesù sta lì è la nostra dimora. Questo è essenziale per noi: noi non cerchiamo una dimora stabile in questo mondo, la dimora stabile è dove è il Signore, quella è la nostra dimora stabile e il senso della vita. Non è importante per noi stare qua, là, in quel ruolo e in quell’altro; l’importante è stare dove Gesù abita, questo è l’essenziale.

Quanto è decisivo per la nostra gioia entrare dentro in questa logica spirituale per cui la gioia non me l’ha dà il ministero, il ruolo, la gioia non me la possono dare le condizioni esterne nelle quali vivo, la gioia me la dà la certezza di abitare dove sta il Signore: questa è la gioia. Come anche il senso del mio ministero non è vivere quell’esperienza, stare là o qua, essere in piena salute, giovane o anziano, la logica deve essere diversa perché là dove sono, sono con il Signore, sono nella pienezza del mio ministero: questo ci dà la gioia, la pace oltre che farci stare nella verità.

Se io continuo a domandarmi: “Gesù dove sei? Dove devo andare?” rimango un eterno pellegrino insoddisfatto; se non mi decido a riconoscere che dove è il Signore lì è la mia casa, rimango un pellegrino insoddisfatto per tutta la vita. E continuerò ad attribuire, al di fuori di me, le cause che in verità sono dentro di me, perché le cause delle nostre insoddisfazioni, delle nostre tristezze, delle nostre nostalgie, dei nostri sentimenti sono dentro, e finché ci intestardiamo a voler additare fuori di noi i motivi, non guariremo da queste nostre malattie.

L’evangelista, arrivando a concludere questo brano, annota l’orario di quanto avvenuto: “Era l’ora decima”. Anche questa, che ad un lettore superficiale potrebbe apparire come una annotazione di poco conto, in verità è una annotazione del cuore, perché ricorda la data e l’ora nella quale ha vissuto qualcosa di decisivo per la vita. L’ora decima, per Giovanni, significa ricordare un’ora decisiva per la vita, un’ora del cuore che rimarrà per sempre impressa nella memoria.

È importante che sappiamo rivivere la memoria delle cose belle vissute e del passaggio di Dio; siamo più propensi a fare memoria di ciò che ci ha rattristato, di ciò che ci ha avvilito e ci ha addolorato; ma la memoria grata invece di ciò che il Signore ha compiuto nella nostra vita attraverso di noi per gli altri, questo facciamo fatica a farlo. Invece è importante che lo facciamo nella nostra preghiera personale, nei momenti di ritiro; in alcuni momenti della giornata è bello andare indietro e dire: “Signore, io ti ringrazio perché riconosco che sei passato di lì, mi hai riempito quella volta, mi hai fatto toccare la tua opera in quello che ho vissuto, ti ho visto e ti ho sentito”. È bello, scalda il cuore e tenere viva questa memoria grata che ci aiuta a riconoscere i passaggi di Dio anche là dove umanamente ci è più difficile riconoscerli, e anche ci aiuta nel presente a vivere questo passaggio di Dio. Fare memoria grata del passato significa aprire di più gli occhi sul presente.

Questa annotazione che l’evangelista fa, dice un’altra cosa: come quel punto esclamativo che del Battista l’evangelista diceva un programma, così qui, l’ora decima, è come se dicesse: “Come sono contendo di avere incontrato il Signore, quell’ora mi ha cambiato la vita; come sono felice di quel Gesù che mi ha chiamato a seguirlo, ad essere suo, ad essere discepolo, presbitero”. Non so se oggi noi possiamo dire: “Sono contento di Gesù, sono contento perché in quell’ora della vita mi ha chiamato, si è fatto sentire. Sono tanto contento che ha fatto di me un suo discepolo; sono tanto contento perché mi ha fatto lasciare ogni cosa per essere suo; sono tanto contento perché sono un ministro della Chiesa, perché Gesù è tutto il senso della mia vita”.

Certo tante problematiche oggi ci colpiscono, ci appesantiscono e dobbiamo affrontarle, però rimane sempre vero che l’essere contenti di Dio e, quindi, essere contenti della propria vita, è il primo annuncio del Signore e del Vangelo, perché se non siamo contenti, di che cosa parliamo, cosa annunciamo, chi offriamo? Dobbiamo coltivare la gioia di Dio in noi, e la coltiviamo facendo memoria grata di quanto il Signore ha fatto, e riconoscendo che tutto nella vita è stato ed è grazia.

Concludiamo con alcune piccole suggestioni che possono esserci di aiuto.

Un santo ha detto così: “Chi solleva se stesso solleva il mondo”, come a dire che la prima forma dell’annuncio, di evangelizzazione e di missione è la nostra santificazione personale. Noi personalmente ci santifichiamo con la nostra vita, il nostro ministero? La nostra vita diventa sorgente di santificazione oppure battiamo l’aria? Potremmo avere le intuizioni migliori, essere brillanti predicatori, trovare le soluzioni tecniche più all’avanguardia da un punto di vista pastorale, non raggiungeremo nulla se non ci sarà questa nostra santificazione, perché solo chi è santo solleva il mondo a Dio.

In una biografia di San Francesco Saverio, un dialogo bellissimo con Ignazio poco prima che questi lo spedisse nelle Indie, Ignazio dice: “Senti Francesco, ho bisogno che qualcuno parta perché là dobbiamo annunciare il vangelo, e ho pensato a te, anche se qui mi sei prezioso”. Possiamo immaginare il cuore di Francesco, ma risponde: “Vado, sulla tua parola vado”. Ignazio conclude: “Va’, infiamma ogni cosa. Infiamma con l’ardore del tuo slancio, con l’entusiasmo della tua vita, con la passione del tuo cuore”.

Dobbiamo ritrovare sempre questa capacità di infiammare che passa attraverso uno slancio e un entusiasmo nel cuore: se siamo appassionati del vangelo, innamorati del vangelo, appassionati di Gesù infiammiamo così ogni cosa.

Terzo elemento sempre dalla vita di Francesco. “Si diceva che Francesco aveva chiesto ad un marinaio, di cui conosceva le abitudini marinaresche, di andare a confessarsi e che il marinaio aveva sputato una serie di bestemmie ripugnanti. Il santo non lo maledisse né si ritirò per il disgusto, continuò a camminare con lui finché raggiunsero un posto dove non potevano essere osservati, e là il santo si tolse la veste rozza e la cintura, e inginocchiatosi, iniziò a flagellarsi senza pietà chiedendo a Dio di perdonare i peccati del marinaio. Al terzo colpo il sangue iniziò a scorrere, il marinaio scoppiò a piangere e poi si confessò”.

Questo è il cuore di un pastore di anime che arriva a questo punto per l’anelito che ha di guadagnare al Signore e al vangelo quelli che gli ha affidato; qui passa la nostra evangelizzazione.

Ancora la vita di San Francesco: sempre sulla nave facendo una vita impossibile e, mentre in piena tempesta, andavano da una parte all’altra per annunciare il vangelo, uno che lo accompagnava disse: “Forse ne usciremo vivi, forse no; ma voi non ne uscirete a meno che diventiate un po’ più ragionevole e la smettiate di comportarvi come se foste il padre e la madre di ciascun uomo a bordo”. “Un prete – disse Francesco debolmente – è esattamente quello”, e poi svenne.

Un padre e una madre che senza riserve dona la vita: questo è il cuore di tutto e da cui viene il resto. Qualche giorno fa sono andato in una scuola di Carpi, ero stato invitato in una parrocchia per una meditazione e poi mi avevano fatto fare un giro in questa scuola. Ho detto una parola a questi bambini e ho raccontato questo episodio: C’era una mamma con il suo bambino, e la mamma voleva far riflettere il bambino su Dio. Gli ha parlato e alla fine il bambino ha chiesto: “Senti, mamma, Dio esiste davvero come tu dici?”. La mamma gli risponde: “Certo che esiste, te l’ho appena detto”. Il bambino soggiunge: “Com’è Dio?”. La mamma non rispose nulla ma lo prese tra le braccia e lo strinse forte forte al petto. Terminato questo lungo abbraccio il bambino disse alla mamma. “Adesso ho capito com’è Dio”.

Dopo che ho raccontato questo piccolo racconto, ho abbracciato uno di questi piccoli, poi non me l’aspettavo, tutti sono venuti e volevano farsi abbracciare.

Ho pensato: com’è vero, anche nella nostra vita e nel ministero manifestiamo questo abbraccio dell’amore del Signore; questo è trainante, non può non essere trainante, ma dobbiamo essere padri e madri che danno tutto. E noi attraverso questo nostro essere padri e madri che danno tutto, possiamo mostrare la bellezza del volto del Signore, e questo è il grande annuncio.

Questo piccolo brano evangelico ci ha fatto riflettere sulla nostra vita sacerdotale e anche sul nostro modo di essere, oggi, annunciatori e testimoni del Signore.

(Nostra trascrizione dal parlato non rivista dall’autore)