Santuario Beata Vergine del Castello, Parrocchia san Giovanni Battista
Fiorano Modenese, 3 gennaio 2021
Catechesi on line
Il motivo della speranza in un racconto
Nel volume “Indivisibile amore. Pensieri di una cristiana controcorrente”, la serva di Dio Madeleine Delbrel scrive: “Sperare è attendere con illimitata fiducia qualcosa che non si conosce, ma da parte di colui del quale si conosce l’amore” (p. 77).
Si tratta, già di per sé, di un’espressione molto chiara. Individua, infatti, nell’esperienza dell’amore di Dio, la ragione vera e certa della speranza. Cercherò, comunque, con un racconto natalizio, di rendere ancora più immediata la comprensione di questa consolante verità della nostra fede.
Correva l’anno 1431. In un paesino di campagna era stata edificata una chiesa dedicata a Maria Madre di Dio. Proprio in quell’anno, infatti, ricorreva il decimo centenario del Concilio di Efeso, nel quale venne solennemente proclamata la divina maternità di Maria. Era una chiesa piccola ma graziosa. Solo una cosa le mancava: la grande pala dell’altare maggiore.
Il parroco don Bartolomeo, che tutti chiamavano don Meo, riuscì a commissionare a uno stimato artista della vicina città la tela che doveva rappresentare la Natività. Il pittore terminò l’opera giusto in tempo per farla collocare in fondo all’abside e così benedirla la notte di Natale.
“E’ davvero una meraviglia – pensava gongolandosi tutto soddisfatto e orgoglioso don Meo -, attira subito l’attenzione di chi entra in chiesa, invita alla preghiera, infonde una pace e una serenità straordinarie”. A tutti, poi, ripeteva: “Che tenerezza lo sguardo di Maria! E gli occhi del bambino Gesù? Non vi pare che siano divini? E il suo volto? E’ talmente splendente e perfetto che neanche quello degli angeli è così bello!”.
Passarono esattamente trent’anni dalla dedicazione della chiesa e, sebbene i fedeli fossero particolarmente affezionati alla loro Natività, il vecchio parroco – sempre don Meo – decise di rimettere mano al quadro. Un pensiero, infatti, lo tormentava da tempo: “Manca un personaggio importante perché una rappresentazione del Natale sia completa”; e, una sera di dicembre, disse: “No, non può più mancare! Occorre farlo, e in fretta!”.
La mattina seguente, alle prime luci dell’alba, andò in città e con molta fatica ritrovò l’autore della pittura. Il famoso artista era ormai anziano ma ancora in attività. “Caro amico – gli disse – vorrei che tu completassi la pala dell’altare aggiungendo un personaggio”.
“Mi sono dimenticato di qualcuno?” rispose stupito e incredulo l’artista. “Eppure ho messo tutti: Maria, Giuseppe, il Bambino Gesù; e sullo sfondo pure un gruppo di pastori e i tre Re Magi”.
“No, è perfetto. Ma… mi piacerebbe che aggiungessi un’altra figura: Re Erode nel suo castello”, disse don Meo.
“E perché Erode?” replicò un po’ stizzito l’artista.
Perché vorrei – rispose il parroco – che accanto ai pastori e ai Magi che accolgono il Figlio di Dio ci fosse anche colui che, pieno di sé e delle sue ricchezze, rifiuta Dio e finisce per rifiutare anche gli uomini, uccidendo bambini innocenti. Ci ricorderebbe la storia del mondo e di ogni uomo: si può scegliere di accogliere Dio nella propria vita oppure di rifiutarlo, avere il cuore dei pastori e dei Magi o quello di Erode”.
A queste parole il pittore divenne rosso fuoco in viso e sbottò: “Non se ne parla neppure! Io non tocco la tela! E’ perfetta così e non vi rimetterò certo mano per i capricci di un vecchio prete!”. Aprì la porta e lo cacciò fuori dalla bottega.
Il nostro parroco, però, non si diede per vinto. Cocciuto qual era, voleva aggiungere ugualmente Erode alla Natività della sua chiesa. A Natale mancava davvero poco e, pure questa volta, come trent’anni prima, il quadro doveva essere completato entro quel giorno.
Non ci mise molto a trovare un altro pittore, senza scrupoli e a cui poco interessava manomettere l’opera altrui. “Tu prepara la scena di Erode nel suo castello, ma il modello per la figura del re cattivo, te lo trovo io!”, disse don Meo concludendo l’affare.
Si travestì da viandante ed entrò in un’osteria nel quartiere più malfamato della città, pieno di farabutti e di briganti di ogni specie: “Qui certamente troverò il volto giusto di Erode!”, disse tra sé il sacerdote. Si guardò intorno, e in un tavolo, dove un gruppo di ubriachi giocava a dadi tra urla e bestemmie, vide un tale che subito lo colpì. E pensò: “Ecco l’uomo che cercavo!”. Aveva una faccia inquietante, tanto era cupa, sporca e con la barba incolta. Gli occhi erano incavati, i capelli ispidi e la fronte piena di rughe, che lo rendevano triste e con un aspetto da delinquente. “Sgrinfio – gli gridavano – bevi un altro boccale e spacca tutto!”. Don Meo, un po’ intimorito, si avvicinò piano piano, lo invitò da parte e gli propose di fare da modello per un quadro, promettendogli una lauta ricompensa: “Per un paio di giorni – gli disse – ti darò la paga di un intero mese di lavoro!”.
Solo una settimana più tardi, la vigilia di Natale, il parroco guardava compiaciuto la tela ormai pronta e rinnovata. Il pittore stava completando gli ultimi piccoli dettagli del volto di Erode, quando il modello scoppiò improvvisamente a piangere.
“Che cosa ti succede?”, disse sorpreso il parroco, vedendo le lacrime scendere abbondanti sul volto di quel brigante. “Sgrinfio, stai forse male? Ti serve qualcosa?”.
“No”, rispose egli singhiozzando.
“E allora, che cosa hai?”, replicò don Meo.
“Stando qui – continuò il brigante con un filo di voce – guardavo questa pittura, i volti di Gesù e di Erode; e mi hanno fatto pensare alla mia vita. Questa è la chiesa in cui sono stato battezzato e solo ora mi sono ricordato che mia madre, quando ero piccolo, spesso mi raccontava che, proprio io, fui scelto per fare da modello a Gesù Bambino che sta in braccio a Maria. Oggi, dopo trent’anni, mi ritrovo qui allo stesso posto. E lei, non so per quale disegno divino, mi ha scelto per una seconda volta a fare da modello per lo stesso quadro: questa volta, però, per dipingere non più il volto di Gesù ma quello di Erode! Piango, perché guardo il mio viso appena dipinto: il mio peccato e il mio allontanarmi da Dio, capisco quanto mi hanno abbruttito da ridurmi così!”.
Quell’anno fu un Natale speciale per Sgrinfio, il più bello della sua vita. Rimase tutta la notte con gli occhi fissi sulla “nuova” Natività: sentiva che quel Bambino stava guardando proprio lui e gli sussurrava nel cuore: “Oggi sto dipingendo di nuovo il tuo volto, con i colori di Dio!”.
Il buon parroco, che pure lui si era messo a piangere con Sgrinfio dalla commozione, decise di non toccare più il quadro. Anzi volle lasciare – e tuttora si trova lì – la tavolozza del pittore ai piedi della pala dell’altare maggiore.
Ancora oggi, a quanti domandano che cosa significhi, tutti in quel paese sanno rispondere: “Se permettiamo al Figlio di Dio di nascere nel nostro cuore, Egli saprà dipingere il nostro volto e la nostra vita con i colori meravigliosi del Suo amore!”.
Ecco, dunque, per il tramite di questo semplice e commovente racconto, che forse narra una storia vera, sottolineato e ulteriormente illustrato il motivo della nostra speranza: la misericordia di Dio e del Suo amore senza limiti che mai ci abbandona e, in un certo senso, insegue senza posa i passi della nostra vita, per farsi riconoscere e accogliere. “Colui del quale si conosce l’amore”, per tornare alle parole della Delbrel, è la sorgente della nostra speranza.
A Natale, nel mistero di Dio fatto bambino per la nostra salvezza, volto della misericordia del Padre, le note gioiose della speranza risuonano in un modo del tutto singolare. E, forse, anche per questo motivo, nel “Te Deum” di ringraziamento alla fine di un anno, in pieno clima natalizio, cantiamo: “Sia sempre con noi la tua misericordia, in te abbiamo sperato… Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”. Sì, in Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo per noi, è la nostra speranza! Gesù, il Redentore dell’uomo e del mondo, è la nostra Speranza!
Il contenuto della speranza
Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove si presentano le virtù teologali, a proposito della speranza si afferma: “La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (n. 1817).
Per inciso, potrebbe essere molto utile, a sostegno della nostra vita spirituale, ripassare l’atto di speranza che abbiamo imparato quando eravamo bambini. Sarebbe un modo semplice, in un contesto di preghiera, di tenere a mente e vivo nel cuore l’oggetto del nostro sperare nella fede.
Ma andiamo oltre, al fine di identificare, anche in virtù di quanto il Catechismo ci ha ricordato, l’oggetto della nostra speranza.
In realtà, dovremmo più esattamente parlare di un unico oggetto, che ha una duplice ricaduta sulla nostra esistenza. L’unico oggetto è anche Colui che abbiamo identificato quale la ragione del nostro sperare: Cristo Salvatore. Sant’Agostino ce lo ricorda con la sua consueta abilità oratoria: “Sia la nostra una speranza che non inganna, ma che sazia, e con qualcosa di così buono, che più appagati non si potrebbe essere. Che cos’è dunque che speriamo e che quando giungerà cesserà la speranza, lasciando il posto alla realtà? Che cosa è mai? Forse la terra? No. Qualcosa di ciò che nasce sulla terra, come l’oro, l’argento, gli alberi, le messi, l’acqua? Niente di tutto questo. Forse qualcosa che volteggi nell’aria? L’anima lo disdegna. Allora forse il cielo, così bello e ornato di astri luminosi? Che cosa c’è tra tutte le realtà visibili di più dilettevole e bello? Eppure non è neanche questo. E allora cos’è? Sono tutte cose dilettevoli, tutte cose belle, tutte cose buone: cerca colui che le ha fatte, è lui la tua speranza. Egli ora è la tua speranza, un giorno sarà la tua realtà. E’ la speranza di chi crede, sarà la realtà di chi vede… Quella che ora è la tua speranza, un giorno sarà la tua porzione. Sia egli la tua speranza nella terra dei morenti e sarà la tua porzione nella terra dei viventi” (Discorso 313/F).
Il grande vescovo di Ippona, nel momento in cui identifica con Cristo il contenuto della speranza cristiana, apre la porta alla considerazione della prima ricaduta che questo ha sulla nostra vita. Se la speranza è Cristo, infatti, allora la nostra “prima speranza” riguarda le realtà future.
Non dimentichiamolo mai, soprattutto in questo nostro tempo nel quale tutti siamo tentati di secolarizzare la speranza, riducendola a una vaga quanto vana attesa di tempi migliori, dentro le sole coordinate del mondo presente e della storia futura. No, la speranza cristiana è altro, e per questo “non delude” (cf Rm 5, 5). Essa ci conduce al di là delle cose di questa vita fugace e ci consente di affondare le radici nelle cose che non passano, in ciò che è eterno: quel Regno dei cieli del quale invochiamo incessantemente la venuta con la preghiera del “Padre nostro”.
“Cieli nuovi e terra nuova” (cf Ap 21, 1) costituiscono il panorama che si staglia sullo sfondo della vita presente e nel quale proiettiamo lo sguardo per affrontare nella speranza il pellegrinaggio terreno. E’ ancora sant’Agostino a illuminarci: “La speranza ci esorta a disprezzare le cose presenti e aspettare le future. Dimenticando le cose che ci stanno alle spalle, slanciamoci con l’Apostolo verso le cose che ci stanno davanti… Nulla è tanto contrario alla speranza quanto il guardare indietro, cioè riporre la speranza nelle cose che scorrono via e passano… Protenditi, slanciati verso ciò che ti sta avanti, dimentica il passato. Non voltarti indietro… Quante cose ti dice il mondo, quanto schiamazzo fa alle tue spalle, perché tu ti rivolga a guardare indietro” (Dialoghi 105, 5.7).
Ritengo sempre molto suggestivo e istruttivo quanto leggiamo nei Promessi sposi, il celebre romanzo di Alessandro Manzoni. Tutti, probabilmente, ricordiamo le pagine nelle quali Renzo si trova nel lazzaretto degli appestati ed è alla ricerca di padre Cristoforo. L’incontro tra i due è emozionante in ogni particolare. Vi è un momento, però, ed è quello che segna la fine del dialogo tra i due protagonisti, nel quale Manzoni dà espressione stupenda alla sua fede. Renzo, rendendosi conto che quell’incontro potrà essere anche l’ultimo, rattristato e commosso domanda al frate: “Oh caro padre…! Ci rivedremo? Ci rivedremo?”. E padre Cristoforo risponde: “Lassù, spero”. In due parole, il frate dice tutto. Soprattutto dice tutto della speranza cristiana: “Lassù, spero”.
Sia sempre questa la nostra speranza! E le parole splendide del Cappuccino di manzoniana memoria risuonino sulle nostre labbra, rimangano custodite nel nostro cuore. Se la speranza è Cristo, allora la prima ricaduta di questa sulla nostra vita è proprio una vita che “lassù, spera!”, a motivo della misericordia del Signore. Non temiamo di affermare che speriamo nel Paradiso! Che cosa di più bello e di più vero possiamo sperare? Che cosa di più sicuro? Cristo è il nostro Paradiso e, come scrive san Gregorio di Nissa, padre della Chiesa di Oriente: “Il cristiano deve ricordarsi di ciò che avverrà”. Diversamente la nostra fede ne risulterebbe gravemente menomata. E, con essa, anche la speranza.
D’altra parte, e questa è la seconda ricaduta sulla nostra esistenza, in Cristo unico oggetto della nostra speranza noi speriamo anche nella vita presente e per la vita presente. San Tommaso d’Aquino ha un’immagine molto suggestiva, al riguardo: “La speranza è come fumo che sale dalla strada e che, prodotta dal fuoco dell’amore, va a disperdersi nella gloria” (In Efesini, prologo).
Il fumo, di cui parla Tommaso, “va a disperdersi nella gloria”; quindi ha a che vedere con le cose future. Ma quello stesso fumo “sale dalla strada” e, pertanto, è anche immagine di una virtù che già illumina le realtà di questo mondo, il cammino terreno della nostra vita. La speranza, infatti, non è soltanto l’attesa di un bene futuro che si perde nell’eternità di Dio; è anche l’anticipazione delle cose future promesse e donate dal Signore, il terreno dove il domani di Dio viene a prendere corpo nel presente degli uomini. Nella speranza l’oggi si apre all’orizzonte dell’eternità e l’eternità viene a mettere le sue tende nell’oggi; grazie alla speranza il tempo quantificato – che non ci basta mai e che è sempre troppo poco – diviene tempo qualificato, ora della grazia, tempo favorevole, oggi della salvezza, momento gustato nella pace. Il già, accolto dalla fede e vissuto nell’amore, si proietta verso il non ancora della promessa grazie alla speranza.
In tal modo, la vita presente non viene depauperata per l’attesa delle realtà future, ma una tale attesa ricca di speranza è forza di rinnovamento nell’oggi, spinta a migliorare il mondo secondo il progetto di Dio, ispirazione capace di anticipare fin da ora, in qualche modo, i cieli nuovi e la terra nuova verso cui si è incamminati.
Così il Signore, che è la nostra speranza, dona linfa nuova alla vita nel secolo presente, redime il tempo dall’assenza di significato, imprime orientamento sicuro ai giorni che passano, illumina con uno splendore nuovo le oscurità della città terrena. Solo in virtù della speranza che è Cristo, Dio ricco di misericordia, è pensabile come possibile una civiltà dell’amore.
In questa luce è interessante considerare l’esperienza fatta dai Magi a Betlemme, dal momento che siamo ormai in prossimità della solennità dell’Epifania. Il testo evangelico che riferisce quell’esperienza, infatti, racconta che alcuni saggi provenienti dall’Oriente, dopo aver offerto i loro doni preziosi al Bambino Gesù, “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (Mt 2, 12). Sappiamo che il cambiamento della strada fu deciso, probabilmente, al fine di evitare un possibile e pericoloso incontro con il Re Erode. Ma è anche legittimo dare, di questo cambiamento di percorso, un’interpretazione più spirituale. I Magi, una volta incontrato il Bambino di Betlemme, cambiarono itinerario anche nel senso che cambiarono la loro vita: nulla poteva essere ormai come era stato prima. La speranza nuova che avevano ricevuto dal Salvatore era ora in grado di determinare in modo nuovo anche il percorso della loro esistenza terrena.
Cristo, pertanto, è la nostra speranza anche nell’oggi della nostra vita. Nulla Egli toglie a questa vita. Al contrario, le dona una bellezza altrimenti impensabile e sorprendente. E’ anche per questo che, in fondo, solo chi ha la fede e, pertanto, è animato dalla speranza in Cristo, all’inizio di un nuovo anno, può scambiarsi con pienezza di significato l’augurio di buon anno nuovo. Solo Cristo, infatti, è la vera novità possibile per il mondo: più Lui è accolto nella vita degli uomini e più il mondo si rinnova nella verità, nell’amore, nella giustizia, nella gioia e nella pace.
Testimoni della speranza
La speranza, che è Cristo Salvatore e che apre davanti a noi orizzonti di eternità felice insieme a inaspettate possibilità di vita rinnovata e buona per il presente, ci viene affidata anche perché ne diamo testimonianza al mondo.
Un altro racconto natalizio, che ha ancora come protagonisti i Magi, potrà aiutarci a non dimenticare una chiamata, quella a essere testimoni di Cristo nostra speranza, che ci riguarda tutti e di cui siamo debitori al mondo, se davvero questo mondo lo amiamo con il cuore del Signore e, dunque, nella vera carità.
Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all’asino. Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.
“La nostra missione è compiuta!”, disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. “Torniamo a casa!”, esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco. “Guardate! La stella continua a guidarci”, annunciò Baldassarre.
La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente. La corte dei Magi, a sua volta, si avviò serpeggiando attraverso il deserto della Giudea. La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri. Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile. Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.
Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo. Era scomparsa. “La nostra stella non c’è più”, si lamentò Melchiorre. “Non l’abbiamo nemmeno salutata”. C’era una sfumatura di pianto nella sua voce. “Pazienza!”, ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico. “Adesso possiamo cavarcela da soli. Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio”.
Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella. Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c’era proprio più. “Dove sarà andata?”, domandò, deluso. Nessuno rispose. In silenzio, ripresero la marcia verso Oriente.
La silenziosa carovana si trovò presto a un incrocio di piste. Qual era quella giusta? Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore. Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera. Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire; poi, con semplicità, offrì a tutti latte e formaggio. In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.
I Magi ripartirono pensierosi. Dopo un po’, incontrarono un villaggio. Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino. Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise. Cominciava a capire.
Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno a uno dei suoi dromedari, che era caduto e aveva disperso il carico all’intorno. Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia. Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.
“Adesso so dov’è finita la nostra stella!”, esclamò Baldassarre in tono acceso. “È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c’è un cuore buono e generoso!”. Melchiorre approvò: “La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino: ciò che conta è l’amore”. “I gesti concreti dell’amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa”, concluse Gaspare. E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d’avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.
A questo punto, non ci resta che domandare una grazia: quella di essere, con la nostra vita e con la nostra parola, una luce dorata di speranza per il mondo, un annuncio di Cristo, misericordia infinita, unica vera speranza dell’uomo. Molti, tutti possano vedere in noi quella luminosità, che viene a noi dall’incontro con il Signore e che porta speranza a cuori altrimenti disperati.
Sperare con Maria e come Maria
Il nostro nuovo anno, in virtù della solennità liturgica mariana, inizia sempre nel segno di Maria, la Madre di Dio, che ci dona il suo esempio e il suo aiuto anche per vivere la speranza cristiana. Abbiamo, penso, ben presente il testo evangelico che ascoltiamo durante la Messa di quel giorno, nella Divina Maternità della Madonna. Il testo è di san Luca, e descrive ciò che accade attorno al Bambino Gesù, che da poco è nato e giace nella mangiatoia.
Ciò che, però, in questo contesto, a noi interessa più di altro, è portare l’attenzione sulla descrizione che l’evangelista riesce a fare dell’animo di Maria: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19). Luca desidera che noi entriamo nell’intimità della Madonna, per considerare da vicino l’atto interiore del suo cuore. Ella vede, ascolta, e tutto custodisce con fede e amore nel proprio cuore. Non tutto le è chiaro, non ogni parola le è comprensibile fino in fondo, non ogni cosa che accade le appare limpida nel suo significato. Ma, nonostante ciò, la Madre di Dio custodisce tutto nel proprio cuore: lo custodisce con speranza e nella speranza. Sa che vi sarà un giorno in cui tutto si renderà chiaro nel suo significato, perché Dio è Amore e ogni Sua parola come anche ogni Sua opera è segnata dall’amore, da un progetto di amore per la Sua vita.
Sperare, pertanto, alla scuola di Maria, significa anche saper custodire nel cuore. Custodire tutto, perché in tutto è presente l’amore di Dio per noi. Custodire tutto, perché attraverso tutto il Signore realizza e porta a compimento il Suo disegno di salvezza sulla nostra vita. Chi custodisce nel proprio cuore, spera. Spera perché ha incontrato colui del quale conosce l’amore. Spera Cristo, ora e nel tempo che verrà. Spera Cristo, per un presente migliore e per un’eternità felice. Spera Cristo, il “già e non ancora” della vita.
L’atto della custodia assomiglia, in un certo senso, alla realizzazione paziente di un mosaico. Tassello dopo tassello, il mosaico prende forma in tutta la sua bellezza e completezza. Artefice del nostro mosaico è il Signore e ogni tassello è opera Sua. Custodire pazientemente i singoli tasselli nel proprio cuore, come Maria, significa riporre la propria speranza nell’Artefice del mosaico, certi che il mosaico è sempre meraviglioso, anche quando a volte così non ci appare. E’ sempre meraviglioso perché è opera di Dio e del Suo amore di misericordia. Speriamo, pertanto. Speriamo sempre. Speriamo Cristo in tutto. Speriamo, a motivo della Sua misericordia.