Conferenza – Catechesi sul sacramento della Riconciliazione

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Conferenza – Catechesi sul sacramento della Riconciliazione

Conferenza – Catechesi sul sacramento della Riconciliazione

Santuario Beata Vergine del Castello, Parrocchia san Giovanni Battista
Fiorano Modenese, 5 settembre 2020

 


Un racconto
L’abbé Caffarel (sacerdote e mistico francese, fondatore delle Equipes Notre-Dame), in uno dei suoi quaderni sulla preghiera, riporta la seguente testimonianza di un papà.

«Egli aveva una bambina di 9 anni, che era un vero tesoro e si chiamava Monique. Una sera il papà le dice: “Monique, come va la tua lezione? E’ tutto pronto per domani?”. “Sì”, risponde Monique con un po’ di esitazione. Ma non era vero.

Alle undici di sera il papà era solito entrare pian piano nella stanza dei suoi ragazzi per dare un’occhiata, e vede vicino al letto di Monique la sua lavagna, con scritto un messaggio proprio per lui. Monique l’aveva fatto prima di mettersi a letto. C’era scritto: “Papà, ti chiedo perdono, perché ho mentito; non è vero che la lezione era pronta. Ti chiedo perdono di averlo fatto, e cercherò di non fare mai più così. Ho molta pena, avrei preferito dire la verità, ma non voglio dire ora tante cose per non farti soffrire. Svegliami pure se vuoi, per parlare insieme della cosa. Buona notte, papà. Monique”.

Il papà, dopo aver letto, cancella la lavagna e scrive la sua risposta; così: “Mia piccola cara Monique, io ti voglio tanto bene, perché mi hai scritto per chiedermi perdono. Io ti perdono con molta gioia e molto volentieri, perché ho capito che mi chiedi perdono perché mi ami. Certo non è bene dire le bugie, ma siccome tu lo confessi e mi domandi perdono, tutto è cancellato come se non l’avessi fatto. E sappi che tutte le volte che tu avrai pena di avermi dato una pena e me ne chiederai perdono, io ti perdonerò sempre, anche se succedesse molte volte. Il buon Dio fa così con noi, perché ci ama. Ho scritto questa lettera, perché tu la trovi subito appena ti svegli, e sappia subito che ti ho perdonato. Ti amo tanto, mia piccola Monique. Continua a fare molti sforzi. Ti abbraccio con tutte le mie forze. Papà”» (cf. A. Gasparino, Confessione festa del perdono, LDC, pp. 32-33).

In questo grazioso quadretto di vita familiare è, per così dire, concentrato il cuore del sacramento della Riconciliazione. Ho detto “cuore” non a caso. E’ il Cuore di Dio, infatti, il cuore di questo sacramento. Un cuore che batte al ritmo della misericordia e del perdono, un cuore che è tutto amore per noi e per la nostra salvezza. Ogni singolo sacramento, in realtà, è il segno dell’amore infinito di Dio per noi. Ma il sacramento della Riconciliazione lo è dal punto di vista di un amore che si fa misericordia e perdono. Una splendida preghiera, che rivolgiamo a Dio nella Messa della XXVI Domenica del Tempo Ordinario, inizia così. “O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono…”. Come è vero! Misericordia e perdono rivelano l’onnipotenza di Dio. Dio può tutto, anche perdonare, cancellare, distruggere, annientare il nostro peccato, per quanto grande possa essere. Questa splendida verità è parte essenziale della buona notizia del Vangelo.

La parabola evangelica del padre misericordioso
Il racconto annotato dall’abbé Caffarel, a ben vedere, è la riproposizione, nella vita di una famiglia e nella relazione tra papà e figlia, di quanto la parola di Dio ci ha rivelato in merito al volto di Dio, al nostro peccato, alla salvezza che è ci è donata nell’esperienza del perdono.

Proviamo a ripercorrere brevemente – penso che tutti abbiamo intuito il riferimento a questo racconto evangelico – la parabola cosiddetta e da tutti conosciuta come parabola del figliol prodigo, più esattamente definita “parabola del padre misericordioso”.

Il contesto della parabola è ancora un contesto familiare. Si parla, infatti di un padre e dei suoi due figli. Non ci attardiamo ora sull’assenza della madre. Si tratta di un particolare sul quale torneremo più avanti. La nostra attenzione si concentra sulla figura del padre e del figlio minore. Non prenderemo in considerazione il figlio maggiore. Il figlio minore, dunque, raggiunta una certa età, con grande dolore e stupore da parte del padre, decide di lasciare la casa paterna, facendo richiesta dei beni che gli spettano e deciso a intraprendere un viaggio che lo porterà assai lontano.

Fermiamoci un istante. Non è difficile scorgere nella decisione del ragazzo quello che noi chiamiamo “peccato”. Il peccato, in effetti, è sempre un abbandono della casa paterna, l’affrancarsi da un amore forse non più compreso, un prendere le distanze da chi ci ha dato la vita. Il peccato, dunque, è sempre da considerare all’interno di una relazione personale, viva, di reciproca appartenenza nell’amore quale è la nostra relazione con Dio. Al giovane una tale relazione sta stretta. Immagina che la vera vita possa essere altrove, lontano dal padre. Nel suo cuore si è fatta strada la convinzione che il padre è un nemico della sua gioia, della sua libertà, della pienezza di vita a cui tanto anela.

Se, dunque, questo primo quadro del racconto evangelico delinea l’identità dl peccato, esso riesce anche a presentare in modo nitidissimo la realtà della tentazione, quale insinuazione cattiva che si fa strada nel cuore del giovane: il padre – egli pensa – non mi ama davvero, non vuole il mio bene autentico, non mi è alleato nella ricerca della vita. Il peccato ha sempre la sua radice maligna nel dubbio sull’amore di Dio. Nel peccato e nella tentazione, così illustrati nella parabola evangelica, siamo tutti coinvolti.

Proseguiamo nel racconto evangelico. Il giovane prende dal padre quanto gli spetta e si mette in cammino. E il padre, che lo ama con tutto se stesso, lo rispetta nella sua libertà. Solo in una tale libertà, ovvero nella possibilità di dire sì o no all’altro, sta la possibilità di un vero amore. Il padre della parabola, che qui appare debole, in realtà, consentendo al figlio di lasciare la casa, custodisce anche la sua libertà e, dunque, la possibilità di amare in modo autentico.

Così fa Dio con noi. Donandoci la libertà ci dona la possibilità di amare davvero. Il peccato è l’altra faccia della libertà data all’uomo. Una libertà che, nel caso del peccato, noi usiamo male; ma, allo stesso tempo, una libertà che continua a custodire la nostra possibilità di amare e di sperimentare in Dio la pienezza della vita e della gioia.

La parabola, a questo punto, si concentra sul giovane e sul suo viaggio verso la terra lontana. Quella terra lontana, che aveva catturato i suoi sogni e i suoi desideri alla stregua di un paradiso che la casa paterna sembrava non offrirgli, si rivela un vero inferno: terra geograficamente lontana, certo, ma lontana soprattutto dalla vita vera, dalla felicità sperata, dalle attese più profonde della sua umanità in ricerca di pienezza. In quella terra, infatti, il giovane dilapida le sue sostanze, si ritrova in miseria ed è costretto a mettersi al servizio di un padrone straniero dando da mangiare ai porci.

Anche in questo caso sostiamo un istante. Un celebre convertito della mia terra di origine – la terra ligure -, corrispondente al nome di Cristoforo Bonavino, ci ha lasciato questa splendida e limpida testimonianza: “Dio spesso promette le spine e poi dona sempre le rose. Il mondo, invece, sempre promette le rose e sempre riserva le spine”. Bonavino era un sacerdote che, nel corso di una vita turbolenta, aveva abbandonato la fede e il sacerdozio, assumendo il nome di Ausonio Franchi. Poi si era ritrovato. E alla fine della vita, alla luce di quanto aveva vissuto, si era annotato nel suo diario quanto abbiamo ora ricordato.

Così è sempre. L’idea del peccato, dell’abbandono della casa paterna, ci affascina. Il tentatore rende assai desiderabile ai nostri occhi e al nostro cuore ciò che contraddice la nostra relazione di fedeltà a Dio nell’amore. Ma, nel momento in cui ciò che appariva desiderabile diviene esperienza concreta della vita, ci accorgiamo che siamo stati imbrogliati, che la promessa di felicità era una menzogna, che l’abbandono della casa paterna e la caduta nel peccato ci hanno introdotto in una solitudine oscura, in una miseria interiore che ci opprime e ci schiaccia. Proprio come il giovane del Vangelo.

Che cosa accade a questo punto del racconto evangelico? Il giovane ritorna in se stesso. L’esperienza della vita nella terra lontana gli ha fatto capire che solo nella casa paterna, e non altrove, è la dimora che custodisce il segreto di un’esistenza realmente riuscita e pienamente sensata. Non il peccato, il rifiuto del padre e del suo amore, è la risposta alle inquietudini del cuore. Il suo cuore inquieto potrà trovare vero ristoro e vera pace solo nelle braccia paterne. E’ proprio quel legame di amore nella libertà, che egli prima avvertiva come mortificante e insostenibile, l’approdo sicuro e sereno per il suo viaggio alla ricerca della vita vera.

Quello che compie il giovane, prima interiormente e poi mettendosi in cammino verso la casa del padre, è un itinerario di conversione. E corrisponde al nostro. Quell’itinerario che si rinnova tante volte nel corso della vita e per il quale abbiamo la grazia di passare dal mondo a Dio, dal peccato alla grazia, dalla schiavitù alla vera libertà, dal tormento alla pace, dalla tristezza alla gioia. Quell’itinerario che si chiama esperienza di salvezza e del quale Dio è il grande protagonista.

Sì, Dio ne è il grande protagonista. Infatti – e così ritorniamo ancora una volta alla parabola – il padre di cui parla Gesù sembra non essersi più mosso dal luogo in cui si trovava al momento della partenza del figlio. Tanto che al ritorno del giovane, egli lo può vedere quando ancora è lontano. In realtà – questo fa intendere il racconto – quel giovane il padre non lo aveva mai perso di vista. Nonostante la sua ribellione aveva continuato a guardarlo nel suo cuore, ad accompagnarlo con il suo amore, ad aspettarlo con tutta la tenerezza di cui era capace. E ora, al vederlo in lontananza, gli corre incontro. Non lo attende sulla porta di casa. Lo precede, a significare un’attesa che non è mai venuta meno, un perdono che è già stato accordato.

Il seguito lo conosciamo. Il padre quasi non permette al figlio neppure di aprire bocca. Il giovane, infatti, voleva scusarsi, aveva preparato parole di pentimento; ma non può dirle tutte. Il padre lo interrompe dimostrandogli, nelle parole e nei fatti, che la misericordia del suo cuore paterno è tanto più grande, infinitamente più grande della sua miseria. Così lo fa rivestire nel migliore dei modi, con i sandali ai piedi e l’anello al dito, e, per lui, prepara una festa solenne. Tutto, in tal modo, diviene segno di quella pienezza di vita che, solo nella casa del padre e nella relazione di amore che con lui ha ritrovato, il giovane può finalmente accogliere in dono.

Nel padre della parabola risplende il volto di Dio, del Dio che in Gesù si fa per noi misericordia, perdono, redenzione. Quel volto che è tutto amore per noi e che ci salva dal peccato e dalla morte, dal male e da ogni forma di oscurità e di non senso.

Il nostro percorso all’interno della parabola potrebbe qui anche concludersi. Ma, a ben vedere, è rimasto in sospeso un particolare sul quale si diceva che saremmo tornati più avanti. Questo è il momento di ritornarvi. Mi riferisco al particolare relativo a un’assenza significativa. Nella parabola si è parlato di un padre, di due figli, si parla anche di alcuni servi. Ma non si parla mai di una madre. E’, forse, motivata, voluta questa assenza? Si può pensare di sì.

Nel dare risposta alla domanda ci viene in aiuto una splendida opera d’arte conservata nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. Si tratta del quadro che rappresenta il “Ritorno del figliol prodigo”, dipinto dal pittore Rembrandt. Si può osservare, con una vera commozione spirituale, il frutto di un’intuizione di fede del grande artista. Il giovane della parabola è ritratto in ginocchio davanti al padre. Il padre è nell’atto di abbracciarlo. E fin qui nulla di originale. Ma, ecco, il tratto del genio: le mani del padre che avvolgono il figlio in un abbraccio tenerissimo sono tra loro diverse: una, infatti, ha sembianze maschili, ma l’altra ha sembianze femminili. Che cosa ha voluto comunicare Rembrandt? Che nel padre della parabola evangelica è presente, in qualche modo, anche la madre e che il volto di Dio rivelato in Gesù ha insieme la potenza e la dolcezza di un amore paterno e materno. La madre non è ricordata nella parabola, non perché non ci sia, ma perché nel padre, che rimanda a Dio, vi è sia il cuore del padre che il cuore della madre.

Il sacramento  della Riconciliazione nella vita della Chiesa
Ritorniamo, ora, in modo più diretto al sacramento della Riconciliazione. In realtà la parabola evangelica ce lo ha illustrato nelle sue molteplici componenti. La celebrazione di questo sacramento, infatti, significa per tutti noi una pregressa esperienza della tentazione che vuole condurci lontano da Dio, la caduta nel peccato che ci immiserisce e ci introduce nella notte disperante del male, l’ispirazione interiore per la quale riapriamo gli occhi provando nostalgia per l’amore di Dio dal quale ci siamo affrancati, il pentimento per quanto abbiamo commesso, lo stupore e la gioia per un abbraccio tenerissimo che dona il perdono e che rigenera a nuova vita e alla giovinezza spirituale della grazia.

Questo è il sacramento della Riconciliazione! Ed è a motivo della bellezza divina di questo sacramento che, nel presente contesto, mi permetto di dire: dobbiamo viverlo spesso, dobbiamo viverlo più spesso, dobbiamo fare in modo che divenga abitudine frequente nel nostro cammino cristiano. E non tanto e soprattutto come dovere da assolvere, ma anzitutto come grazia da non perdere, come gioia da rinnovare, come abbraccio di amore dal quale sempre ripartire, come appuntamento decisivo per una vita di santità.

Il sacramento della Riconciliazione è la forma mediante la quale il Signore ha voluto che fosse disponibile per noi, nel tempo della storia, il Suo amore di misericordia, la forma in virtù della quale la parabola del figliol prodigo non è un semplice racconto del passato ma un’esperienza reale che si rinnova nel presente della nostra vita.

Facciamo memoria delle parole di Gesù, rivolte agli apostoli all’indomani della Pasqua di risurrezione: “Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»” (Gv 21, 21-23). In tal modo il Signore ha affidato alla Sua Chiesa il compito di rinnovare la parola, il gesto, la grazia del Suo perdono. E la Chiesa a questo compito non è venuta mai meno. Non dimentichiamolo: la Chiesa è la presenza di Cristo nell’oggi della storia. Mediante il sacramento della Riconciliazione, la Chiesa è la presenza della misericordia del cuore di Cristo nell’oggi della storia.

“Nel corso dei secoli la forma concreta, secondo la quale la Chiesa ha esercitato questo potere ricevuto dal Signore, ha subito molte variazioni” (CCC 1447). Non è questo il luogo nel quale passare in rassegna tali variazioni. La struttura fondamentale di questo sacramento, però, è rimasta sempre la medesima. Ed è a questa struttura che rivolgiamo ora l’attenzione. Anche perché in questa struttura ritroveremo i passaggi salienti della parabola del figliol prodigo.

“Essa comporta due elementi ugualmente essenziali: da una parte, gli atti dell’uomo che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione; dall’altra parte, l’azione di Dio attraverso l’intervento della Chiesa”(CCC 1448).

Consideriamo, anzitutto, gli atti dell’uomo, cioè del penitente. Primo fra tutti vi è quello della contrizione, che possiamo definire “il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire” (Concilio di Trento: Denz.-Schönm., 1676). Non è forse questo ciò che ha vissuto il giovane della parabola quando, ritrovata la luce interiore, si è rimesso in cammino verso la casa paterna con il desiderio di domandare perdono al padre che aveva abbandonato? Ed è ciò che viviamo tutti noi ogniqualvolta, accostandoci al sacramento, portiamo nel cuore il pentimento della nostra colpa e il desiderio di non ricadervi.

Al riguardo la Chiesa ci ha insegnato a distinguere tra la contrizione perfetta o di carità e la contrizione imperfetta o attrizione. Abbiamo la prima quando essa proviene da Dio amato sopra ogni cosa. Nel qual caso la contrizione rimette le colpe veniali e ottiene anche il perdono dei peccati mortali, quando si accompagna alla risoluzione decisa di ricorrere appena possibile al sacramento della Riconciliazione. Abbiamo, invece, la seconda quando il pentimento nasce dalla considerazione del peccato e dal timore della dannazione che ne può derivare. In questo caso la contrizione non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a riceverlo nel sacramento della Riconciliazione.

Veniamo, ora, al secondo atto del penitente: la confessione dei peccati. Un tale atto, nella parabola, lo osserviamo nell’ammissione del giovane: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te”. Nel sacramento della Riconciliazione siamo chiamati a enumerare tutti i peccati mortali di cui si è consapevoli dopo un opportuno esame di coscienza. La confessione dei peccati veniali, pur non essendo necessaria, è assai raccomandata dal momento che ci aiuta “a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito” (CCC 1458). Scrive sant’Agostino: “Chi riconosce i propri peccati e li condanna, è già d’accordo con Dio. Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio” (Commento al Vangelo di san Giovanni, 12, 13).

Diciamo una parola, infine, sul terzo atto del penitente: la soddisfazione. Di che cosa si tratta? Ascoltiamo al riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Molti peccati recano offesa al prossimo: Bisogna fare il possibile per riparare (ad esempio restituire cose rubate, ristabilire la reputazione di chi è stato calunniato, risanare le ferite). La semplice giustizia lo esige. Ma, in più, il peccato ferisce e indebolisce il peccatore stesso, come anche le sue relazioni con Dio e con il prossimo. L’assoluzione toglie il peccato, ma non porta rimedio a tutti i disordini che il peccato ha causato. Risollevato dal peccato, il peccatore deve ancora recuperare la piena salute spirituale. Deve dunque fare qualcosa di più per riparare le proprie colpe: deve soddisfare in maniera adeguata o espiare i suoi peccati. Questa soddisfazione si chiama anche penitenza” (1459).

Abbiamo così completato la considerazione del primo elemento essenziale nella struttura del sacramento. Veniamo ora al secondo elemento essenziale di tale struttura: l’azione di Dio attraverso l’intervento della Chiesa. Ritorniamo ad ascoltare il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Poiché Cristo ha affidato ai suoi Apostoli il ministero della riconciliazione, i vescovi, loro successori, e i presbiteri, collaboratori dei vescovi, continuano a esercitare questo ministero. Infatti sono i vescovi e i presbiteri che hanno, in virtù del sacramento dell’Ordine, il potere di perdonare tutti i peccati «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»” (1461).

Al riguardo, essendo l’argomento molto ampio, mi limito a sottolineare una dimensione particolarmente bella di quanto affermato. Il ministro, che in virtù dell’ordinazione, diviene capace di donare la misericordia di Dio nel sacramento, è appunto “capace” non in quanto santo o degno a livello personale, ma in quanto il Signore opera in Lui e attraverso di lui. Non è l’uomo, se pure, ministro sacro, a donare il perdono dei peccati, ma è sempre e solo il Signore che, attraverso il Suo ministro, continua nel tempo a dispensare la misericordia infinita che fuoriesce dal Suo Cuore trafitto sulla croce. Ecco la bellezza del sacramento di cui si diceva poc’anzi. Il Signore ha voluto come assicurarci il suo amore misericordioso, slegandone il dono dalla dignità personale di colui che è chiamato ad amministrarlo.

D’altra parte un legame al ministro sacro rimane ed è chiaro. A lui, infatti, è affidato il potere di legare e di sciogliere. E’ a lui che il peccato va confessato perché su noi possa scendere la misericordia del Signore. Quali i motivi di questa delega ricevuta dalla Chiesa? Quali le ragioni per le quali il Signore ha affidato la grazia e l’esperienza del perdono ai Suoi ministri?

Proviamo a rispondere. Anzitutto abbiamo bisogno di sicurezza. Sì, abbiamo bisogno di sentirle con le nostre orecchie le parole del perdono, così che possano entrare anche nel cuore. La pace vera la otteniamo solo quando siamo assicurati che Dio ci ha perdonato: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”. Non è il nostro perdono che mette pace nella vita, neppure il perdono degli altri spesso è sufficiente. Abbiamo bisogno del perdono di Cristo e che questo perdono ci venga assicurato.

In secondo luogo non dobbiamo dimenticare che ogni peccato è, sì, offesa a Dio, ma anche una ferita inferta ai fratelli. Nella Chiesa, infatti, siamo un corpo solo, siamo membra gli uni degli altri. E quando uno di noi commette il peccato colpisce tutto il corpo della Chiesa, colpisce anche gli altri. Se mi ferisco un arto, tutto il mio corpo ne soffre. Allo stesso modo, un po’ di veleno derivante dalla mia colpa intossica tutta la Chiesa. E’, pertanto, giusto che per ottenere il perdono di Dio io chieda perdono anche a tutta la Chiesa, rappresentata dal ministro sacro al quale confesso i miei peccati. Quel ministro, che è un mio fratello, rappresenta tutti i fratelli che ho colpito con il male che ho commesso.

Afferma san Bonaventura: “La confessione è stata istituita propriamente perché l’uomo si riconcili con la Chiesa e così renda visibile la sua riconciliazione con Dio”.

Un suggerimento e un racconto conclusivo
Parlando del sacramento della Riconciliazione mi pare opportuno lasciare un suggerimento molto pratico, che giunge a noi dall’esperienza spirituale secolare della Chiesa. Mi riferisco all’esame di coscienza. Tutti noi, forse, lo facciamo; almeno ne abbiamo sentito parlare. Ma, propriamente, di che cosa si tratta?

Ritorniamo ancora una volta alla parabola del Vangelo. Il giovane, da tempo lontano da casa, “ritornò in sé”, afferma il testo di san Luca. Ecco, questo ritornare in sé è esattamente l’esame di coscienza. Un ritornare in sé che non si risolve nello sterile ripiegamento sul peccato commesso, quasi che l’esame di coscienza consistesse nel mettere semplicemente in relazione la propria vita con un codice di comportamento. No, l’esame di coscienza è qualcosa di più e di più profondo. Consiste nel rimanere davanti al Signore e alla Sua Parola al fine di considerare come abbiamo vissuto la relazione di amore con lui. Il peccato, allora, non appare al nostro sguardo come l’inosservanza di una norma, ma anzitutto come un tradimento dell’alleanza, un no all’amore di Dio, una ferita inferta al cuore del Signore. Nel primo caso corriamo il grave rischio di sperimentare semplicemente il senso di colpa, che ci affligge perché ci addita come non all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi stessi, ci accusa senza pietà. Nel secondo caso, invece, sperimentiamo il dolore vero per un amore che abbiamo tradito; e sempre nel contesto di uno sguardo d’amore, quello di Dio, che mai viene meno. A questo esame di coscienza è importante essere fedeli per poter vivere con vero frutto spirituale il sacramento della Riconciliazione.

Aggiungo, molto brevemente, che sarebbe bene periodicamente fare anche “l’esame alla coscienza”, verificando se il nostro cuore è dalla parte di Dio oppure no. Può capitare, infatti, che cammin facendo la coscienza rimanga annebbiata, che la nostra volontà non sia più protesa a vivere nella volontà di Dio, che i nostri desideri più profondi non siano più in sintonia con il Vangelo. Di questo ci accorgiamo, ad esempio, quando diveniamo incapaci di riconoscere il nostro peccato, quando ci sembra che non commettiamo nulla di male. Spesso, in questo, è il segno di una vita che non tende più alla pienezza della carità, a un cammino di santità. Di questo dovremo confessarci, da questa situazione di mediocrità e mondanità spirituale dovremo chiedere al Signore la grazia di rialzarci e rialzarci prontamente.

Termino con un breve racconto, che ancora una volta ci conduce al cuore del sacramento della Riconciliazione e, così facendo, ci aiuta ad amarlo e a viverlo con frequenza e nella gioia. Si tratta di un’antica storia di monaci del deserto. Vi si narra di un vecchio brigante che si sentì male e che, percependo la morte ormai vicina, bussò alla porta di un monastero per chiedere di rimanervi fino al suo ultimo giorno: “Dio avrà misericordia di me”, disse il brigante al monaco che era venuto a soccorrerlo. “Come fai a esserne così sicuro?”, reagì tra l’ironico e il diffidente il monaco, certo di saperla più lunga al riguardo rispetto all’ignorante brigante. “Perché è il suo mestiere”, ribatté con sicurezza quest’ultimo” (cf. A. Cencini, Ladrone graziato, EDB, 2016, p. 87).

E’ proprio così, come disse quel brigante. Avere misericordia è il mestiere di Dio. E per questo è anche il mestiere della Chiesa.