Conferenza – Introduzione allo spirito della Liturgia

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Conferenza – Introduzione allo spirito della Liturgia

Corso per animatori musicali della liturgia

 

E’ per me una vera gioia essere qui oggi a inaugurare il “Corso per animatori musicali della liturgia”. Mi pare di poter dire che il motivo della mia gioia è duplice. Anzitutto – ecco il primo motivo – il mio essere a Genova. E’ vero che di tanto in tanto faccio rientro in questa nostra stupenda città, ma le mie visite sono per lo più rapide e familiari. Quest’oggi, invece, mi trovo qui, per un appuntamento diocesano, insieme a voi, che in buona parte mi siete conosciuti e cari. Inoltre, – e questo è il secondo motivo della mia gioia – ciò che mi riconduce a Genova in questa giornata è la liturgia, l’ambito della vita cristiana che al momento sta assorbendo il mio ministero sacerdotale e che tutti noi sappiamo essere fondamentale per lo sviluppo in Cristo della comunità ecclesiale e della nostra vita personale.

Mi è stato chiesto di introdurre, con questa riflessione, allo spirito della liturgia. Mi è stato chiesto molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger.

D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?

Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.

Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.

Quanto affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.

Nella misura in cui assimiliamo l’autentico spirito della liturgia, diventiamo anche capaci di capire quando una musica o un canto possono appartenere al patrimonio della musica liturgica o sacra, oppure no. Capaci, in altre parole, di riconoscere quella musica che sola ha diritto di cittadinanza all’interno del rito liturgico, perché coerente con il suo spirito autentico. Se parliamo, allora, all’inizio di questo corso, di spirito della liturgia, ne parliamo perché solo a partire da esso è possibile identificare quali siano la musica e il canto liturgico.

Riguardo al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.

E se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in tutta la sua bellezza e verità.

1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa

Come ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento, il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è “Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra liturgia.

E’ il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a “liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare forza al carattere sacro della liturgia.

Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere  in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)

Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività.

Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge  che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e  il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo.

Una forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia – l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).

Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede?

C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale  diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.

Mi dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” (40).

2. L’orientamento della preghiera liturgica

Al di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.

Che cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge”.

Studi molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente. Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia Eucaristica.

Senza entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda il dialogo introduttivo del Prefazio, al  momento della Liturgia Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda manifesto il corretto atteggiamento spirituale.

Ecco, allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore, orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

E non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione. La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.

Così si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.

Nel nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione “celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque – quello al Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile anche nel segno liturgico.

3. L’adorazione e l’unione con Dio

L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.

Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, – afferma Giovanni Paolo II nella Ecclesia de Eucharistia – una capienza davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica” (n. 5).

“Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” dello scorso anno, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.

Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.

Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)

4. La partecipazione attiva

Proprio loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa.

Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.

Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.

Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?

5. Quale musica per la liturgia?

Non compete a me addentrarmi direttamente in ciò che attiene la musica sacra o liturgica. Altri, con più competenza, tratteranno l’argomento nel corso dei prossimi incontri.

Ciò che, però, mi sta a cuore sottolineare è che la questione della musica liturgica non può essere considerata indipendentemente dall’autentico spirito della liturgia e, dunque, dalla teologia liturgica e della spiritualità che ne consegue. Quanto, allora, si è andato affermando – ovvero che la liturgia è un dono di Dio che a Lui ci orienta e che, mediante l’adorazione ci permette uscire da noi stessi per unirci a Lui e agli altri – non solo cerca di fornire alcuni elementi utili alla comprensione dello spirito liturgico, ma anche elementi necessari al riconoscimento di ciò che davvero può dirsi musica e canto per la liturgia della Chiesa.

Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.

Perché, dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?

La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali – nella loro santità, bontà e universalità – a tradurre in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico: indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, favorendo un’autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.

Mi sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L’uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l’altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all’uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la  sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l’essere dell’angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall’agire comune e ci restituisce la profondità e l’altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell’universo in attesa. E così essa redime la terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154).

Concludo. La nostra Diocesi, nel movimento liturgico del secolo scorso ha avuto un ruolo non secondario. L’amore per l’autentico spirito della liturgia fa parte del suo patrimonio di fede, in virtù anche di grandi pastori d’anime che hanno lasciato il segno in questa nostra terra. Sono certo che un analogo, se non più significativo, ruolo la nostra Chiesa potrà averlo anche in questo nostro tempo.