Conferenza – La Liturgia, culmine della vita della Chiesa

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Conferenza – La Liturgia, culmine della vita della Chiesa

USMI della Diocesi di Roma

 

Nel salutare tutte e ciascuna con affetto e rispetto, grato al Signore  per quello che fate e, soprattutto, per quello che siete nella Chiesa, desidero subito indicare i termini e i limiti di questa nostra conversazione. Non intendo dilungarmi in una dissertazione liturgica, scientifica e puntuale in ogni sua argomentazione. Non mi pare, infatti, che sia questo il senso del nostro incontro. E, d’altra parte, non vorrei avvallare il pensiero, a volte ricorrente, secondo cui la Liturgia è “cosa per specialisti”, rispetto ai quali la maggior parte dei fedeli non può che collocarsi in posizione subordinata di pura ricettività.

In realtà la Liturgia, che certo ha bisogno anche di specialisti, come ogni materia teologica d’altronde, è prima di tutto esperienza quotidiana dell’intera comunità cristiana che, sotto la guida dei pastori, vive nella storia l’incontro con il mistero della salvezza nella forma del rito liturgico. Di questo, dunque, intendo parlarvi: di quell’esperienza di fede, mia e vostra, di tutti, per la quale ogni giorno viviamo la grazia della celebrazione del mistero di Cristo, Signore e Salvatore, nella Chiesa e con la Chiesa. Desiderando sottolineare qui, con il termine Chiesa, quella comunione singolare che ci rende una sola famiglia anche con quanti ci hanno preceduto e con quanti, nostri contemporanei, vivono fisicamente distanti da noi.

Non si può intendere la Liturgia senza questo sguardo ampio, capace di abbracciare ogni tempo e ogni spazio, in quanto vissuti dalla Chiesa in cammino verso il suo Signore. In altre parole, la Liturgia non è nostra. Come il deposito della fede, che non è nostro ma lo abbiamo ricevuto, lo viviamo in comunione con il corpo ecclesiale e lo dobbiamo consegnare integro a chi verrà dopo di noi, così è per la Liturgia: lo ripeto, non è nostra, l’abbiamo ricevuta, la viviamo nella comunione del corpo ecclesiale e la dobbiamo consegnare integra a chi verrà dopo di noi.

Così, per ritornare al senso del nostro incontro, mi piace usare una celebre espressione: “cor ad cor loquitur”. Il nostro conversare sarà un parlare da cuore a cuore. E forse questo ci aiuterà a fare del nostro ritrovarci oggi non un’esercitazione intellettuale anche interessante, ma un rimanere insieme davanti al Signore, un aprirsi comune e con gioioso stupore alla contemplazione del mistero della salvezza celebrato nella Chiesa.

E’ inutile dirvi la gioia che provo nel parlarvi di questo. L’amore per la Liturgia mi accompagna fin dai tempi del Liceo, quando cominciavo ad ascoltare la voce del Signore che mi chiamava al sacerdozio. E ora, così la buona Provvidenza ha disposto, almeno in questo tempo della mia vita sacerdotale, la Liturgia sta al centro dei miei pensieri quotidiani, al cuore del mio ministero. Ma il motivo della gioia è anche un altro. Ritengo che sia una vera grazia parlare di Liturgia a delle religiose, a delle donne che hanno consacrato per intero e senza riserve la loro vita al Signore. E questo perché la persona consacrata, nella quale trova piena espressione la straordinaria ricchezza dell’animo femminile, porta in sé una tensione naturale e di grazia alla ricettività, al dono di sé gratuito, allo sguardo contemplativo… tutte caratteristiche che permettono di avere una particolare sintonia spirituale con la verità della celebrazione liturgica.

  1. Culmine o fonte?
    Mi sia consentita una piccola precisazione in merito al titolo che mi è stato affidato per questa conversazione: “La Liturgia, culmine della vita della Chiesa”. Tutti sappiamo che questa espressione fa riferimento al celebre testo della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II “Sacrosanctum Concilium”, in cui si dice: “La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (SC 10). Come si può osservare i termini usati sono due: culmine e fonte. E questo è un primo dato importante. 

    Se andiamo, poi, a ricercare gli altri documenti nei quali il Concilio Vaticano II ha ripreso questa espressione, ci accorgiamo di una piccola differenza. In effetti in “Lumen gentium” al n. 11 e in “Presbyterorum Ordinis” al n. 5 si dice, con riferimento all’Eucaristia, che questa è “la fonte e il culmine” della vita della Chiesa.

    Questa differenza nell’ordine dei termini usati la ritroviamo in genere nei documenti del recente magistero: si preferisce anteporre la parola “fonte” alla parola “culmine”. Potremmo dire, in conclusione, che c’è stata un’evoluzione nell’uso di questa terminologia.

    Di conseguenza, attenendomi al testo della “Sacrosanctum Concilium”, agli altri documenti conciliari e ai successivi interventi magisteriali, svilupperò la mia riflessione considerando la Liturgia, e in specie l’Eucaristia, quale “fonte e culmine” della vita della Chiesa.

    Potrebbe essere lecito chiedersi: “E’ proprio tanto importante ricordare l’esistenza di questi due termini e definirne con esattezza l’ordine di precedenza?”. La risposta è sì e il motivo è il seguente: solo a partire dalla compresenza di questi due termini è possibile accostarsi a tutta intera la stupenda ricchezza della Liturgia della Chiesa; e, d’altra parte, solo assicurando il loro esatto ordine di precedenza, ci è dato di gustare la verità della celebrazione liturgica.

    Se la Liturgia fosse soltanto “culmine” della vita della Chiesa vorrebbe dire che essa sarebbe semplicemente il punto di arrivo del nostro cammino, il termine più alto a cui tendere della nostra storia spirituale, il frutto del nostro impegno e delle nostre opere. In verità, la Liturgia è insieme e ancor prima “fonte” della vita della Chiesa, vale a dire grazia, dono che scende dall’alto e che rende possibile il nostro cammino cristiano, la nostra storia spirituale, il nostro impegno e le nostre opere di santità. E’, questa, la verità cattolica del primato della grazia.

    Ricordo quanto afferma in proposito, soffermandosi sull’Eucaristia, Papa Benedetto XVI nell’Esortazione Apostolica postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Poiché nell’Eucaristia si rende presente il sacrificio redentore di Cristo, si deve innanzitutto riconoscere che c’è un influsso causale dell’Eucaristia alle origini stesse della Chiesa. L’Eucaristia è Cristo che si dona a noi, edificandoci continuamente come suo corpo. Pertanto, nella suggestiva circolarità tra Eucaristia che edifica la Chiesa e Chiesa stessa che fa l’Eucaristia, la causalità primaria è quella espressa nella prima formula: la Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell’Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della croce. La possibilità per la Chiesa di fare l’Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso” (n. 14).

    Come a dire che l’Eucaristia, e con essa tutta la Liturgia, è prima fonte e poi culmine della vita della Chiesa.

    D’altra parte, non è questa anche la nostra personale esperienza nella vita della fede? Parlo per un istante di me; ma parlando di me, sono certo di dare voce anche a ciascuna di voi. Quando torno indietro con il pensiero e mi fermo a considerare la storia della mia vocazione, mi appare sempre nitidissimo l’intervento del Signore che, con la sua grazia, ha preceduto e reso possibile la mia risposta. Non sono io che ho amato Dio, è Dio che ha amato me per primo. Se talora mi accade di pensare di essere stato io in qualche momento l’artefice della ricerca di Dio, subito, a un esame più attento, mi accorgo che la mia ricerca è stata possibile perché Dio per primo ha cercato me. E questo mi accade ogni giorno, nello svolgersi di quella vocazione quotidiana che, lo sappiamo bene tutti, è la storia di ciascuno di noi con Dio. Così mi dico e vi dico: la mia, la nostra vocazione è stata una splendida Liturgia! La mia, la nostra quotidiana storia di fede è una splendida Liturgia! Gesù Cristo è il culmine della nostra vita, vale a dire la meta a cui tendiamo, perché anzitutto ne è stato e ne è la fonte.

    Ecco, dunque, perché è importante ricordare l’esistenza di questi due termini e definirne con esattezza l’ordine di precedenza. Ed è quello che abbiamo cercato in breve di fare.

  2. La Liturgia è fonte della vita della Chiesa
    Che cosa ne consegue dall’affermare che la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa? Non dimentichiamo che quando parliamo della Chiesa stiamo parlando anche di ciascuno di noi. Alla luce di questa precisazione, mi soffermo a considerare con voi alcune di queste conseguenze. 

    Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa ne consegue che la Chiesa, e in essa ciascuno di noi, ritrova nella Liturgia la propria vitalità spirituale.Senza la celebrazione liturgica la Chiesa non sarebbe più “vitale”.

    Non è difficile capire il perché di questa affermazione. La Liturgia è la ripresentazione nell’oggi del mistero di Cristo e la Chiesa vive di questo mistero. La Liturgia è la presenza del Signore nella Sua parola e nei sacramenti e la Chiesa vive della presenza del suo Signore. La Liturgia è la contemporaneità della salvezza in ogni tempo della storia e la Chiesa vive di questa contemporaneità. Ecco perché la Liturgia è tanto importante nella vita della Chiesa e di ogni comunità cristiana, nella nostra vita.

    Nella Chiesa tutto parte dalla Liturgia e dalla Liturgia prende forma, perché nella Chiesa tutto parte dal Signore e dal Signore prende forma.

    Non è casuale che il Concilio Vaticano II abbia iniziato i suoi lavori proprio a partire dalla Liturgia. Ecco la testimonianza che, al riguardo, lascia Benedetto XVI nella prefazione al primo volume della sua “Opera omnia”, tra poco edita anche in Italia, dedicato proprio alla Liturgia: “Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema “liturgia”, si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema “Dio”. Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina “Ergo nihil Operi Dei praeponatur” (43, 3: “Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio”) valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera”.

    Anche nella nostra vita, personale e comunitaria, tutto deve partire dalla Liturgia: perché tutto deve partire da Dio. Inevitabilmente ci sentiamo tutti interpellati: quale posto occupa la Liturgia nelle nostre giornate? Con quale intensità di amore viviamo le celebrazioni liturgiche? E’, la Liturgia, il luogo primo e privilegiato dell’incontro con il Signore che si dona a noi? Viviamo la celebrazione liturgica come la sorgente da cui sola può scaturire la storia della nostra santità?

    Se è vero che bisogna sempre ripartire da Dio per riformare autenticamente la propria vita, è altrettanto vero che per tale riforma dobbiamo sempre ripartire dalla Liturgia. Non illudiamoci: altre strade non portano da nessuna parte, perché solo da una rinnovata esperienza di grazia può scaturire una vera trasformazione nella logica della santità. Il resto è solo volontarismo che, oltre a essere inconcludente, neppure è autenticamente cristiano.

    Il discorso sulla Liturgia come “fonte” ci ricorda che la priorità all’ordine del giorno della nostra vita e della vita delle nostre comunità, come anche dei nostri progetti pastorali, deve essere Dio, e Dio solo. Tutto il resto verrà di conseguenza.

    Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa, ne consegue che la Chiesa, e in essa ciascuno di noi, non può che vivere nell’atteggiamento spirituale dell’adorazione.

    L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente.

    Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella Liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione.

    “Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si riparte, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

    Giustamente e, dovremmo dire, anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni. Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa la desidera e così come è bene che sia. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che ci è proprio; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. La nobiltà, la bellezza, l’armonia, la capacità di tratte fuori dall’ordinario per farci entrare nello spazio sacro di Dio: questi, e solo questi sono i criteri ecclesiali in base ai quali discernere ciò che può essere accolto o non accolto nelle nostre liturgie.

    Non mi dilungo nel dettaglio, ma ripeto che questi sono i criteri in base ai quali siamo chiamati a scendere nel dettaglio della celebrazione liturgica. E la Liturgia, non dimentichiamolo, è fatta di tanti dettagli che hanno bisogno della nostra attenzione di fede e di amore.

    Mi piace al riguardo citare un passaggio dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

    Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Tutto, nella Liturgia, e in specie nella Liturgia eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrate dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore, partecipando così davvero in modo attivo.

    Anche in questo caso, qualche domanda sorge spontanea. La Liturgia che viviamo ogni giorno tende davvero in ogni suo aspetto, piccolo o grande che sia, all’adorazione? Partecipare attivamente significa per noi entrare consapevolmente nel grande atto di adorazione che la Chiesa fa nei confronti del Suo Signore, morto e risorto? Quale centralità ha il crocifisso nelle nostre celebrazioni, a ricordarci che Lui è il motivo del nostro ritrovarci, che è il suo sacrifico d’amore a donarci la salvezza e che a Lui guardiamo per poter poi guardare con occhi nuovi chi sta attorno a noi? Non accade, forse, a volte che le nostre liturgie appaiono piuttosto un ritrovo tutto orizzontale, in cui ciò che più conta è l’attività delle persone che si incontrano, il banale ritrovarsi insieme, mentre viene meno l’attenzione che si deve a Dio?

    Considerare la Liturgia come luogo dell’adorazione non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna.

    Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa, ne consegue che non può esserci spazio per una male intesa creatività.

    A volte, nell’epoca comunemente detta “postconciliare”, con il pretesto della cosiddetta creatività si è arrivati a stravolgere in vario modo la Liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci sì è, in alcuni casi, appropriati del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività.

    Al di là della superficialità, certo non consona al sano sentire ecclesiale, presente in questo atteggiamento, è bene rintracciare le motivazioni profonde che devono disporci a un modo di verso di accostare la celebrazione liturgica.

    Ricorro, per illustrate queste motivazioni, a un brano del bellissimo testo, scritto dall’allora Card. Ratzinger, “Introduzione allo spirito della Liturgia”: “…la creatività non può essere mai una categoria autentica della realtà liturgica. Oltre tutto, questo termine è cresciuto nella visione del mondo propria del marxismo. Creatività significa che in un mondo, di per sé privo di senso, sviluppatosi per un’evoluzione cieca, l’uomo realizza finalmente un mondo nuovo e migliore, a partire dalle proprie forze. Nelle moderne teorie artistiche si intende con questo termine una forma nichilistica di creazione: l’arte non deve imitare nulla; la creatività artistica è il libero spaziare dell’uomo, che non si lega ad alcuna misura e ad alcuno scopo e che non può sottomettersi a nessuna domanda di significato…Questo modo di creare non è della liturgia. Essa non vive di trovate di qualche singolo o di qualche commissione. Essa è, al contrario, il venire di Dio, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo, ed opera davvero la liberazione…Quanto più sacerdoti e fedeli si affideranno umilmente a questo Suo farsi trovare, tanto più nuova diverrà la liturgia e tanto più essa sarà vera e personale. Sì, personale, vera e nuova la liturgia lo diviene non mediante banali invenzioni di parole o giochini, ma con il coraggio di mettersi in cammino verso qualcosa di grande, che per mezzo del rito ci precede sempre e di cui noi non possiamo mai impossessarci del tutto” (pp. 164-165).

    Mi pare una pagina piuttosto chiara e limpida. Eppure, non è forse vero che anche le nostre comunità, a volte, sembrano intendere la liturgia come il luogo di “trovate” sempre nuove, con la buona intenzione di catturare l’attenzione dei fedeli, distogliendola in verità dal suo centro che è Cristo Gesù?

    Certo, una forma di adattamento è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. E questo non per volere essere legati alle rubriche per le rubriche, ma per il fatto più profondo che la Liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani.

    Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso verrà citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la Liturgia come: “…il culto pubblico…il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella Liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni, così li chiamerebbe Romano Guardini, attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede?

    C’è da temere che, almeno in alcuni casi, la ricerca affannosa di segni, testi, gesti sempre nuovi e diversi sia la spia di una scarsa comprensione della realtà liturgica e anche, forse, si un malessere nella fede.

    Mi dilungo ancor un momento su questo tema, che reputo molto importante, facendo riferimento di nuovo a un passaggio di “Sacramentum caritatis”: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche. L’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arte e del luogo sacro. La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme…Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia. Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono” (40).

    Conoscenza dei libri liturgici e delle norme che lì si trovano, osservanza fedele del rito in ogni suo aspetto, considerazione attenta dei molti e ricchissimi segni che la Liturgia prevede senza inopportune aggiunte o manipolazioni…Sono, questi, solo alcuni richiami puntuali che il Papa rivolge a tutti noi e alla luce dei quali siamo chiamati a vivere l’esperienza liturgica. Forse, in sintesi, si potrebbe dire: la Liturgia non è nostra, non è nella nostra disponibilità e non soggiace alla nostra arbitrarietà; come tale, vale a dire come dono, dobbiamo avvicinarla, amarla e viverla.

  3. La Liturgia è culmine della vita della Chiesa
    Giunti quasi al termine della nostra conversazione, forse ci viene da chiedere: “Fino ad ora abbiamo parlato della Liturgia come fonte della vita della Chiesa. Ma che cosa significa affermare che la Liturgia ne è anche il culmine?”. 

    La domanda è legittima, più che legittima; tuttavia, alla luce di quanto abbiamo fin qui detto, penso che la risposta possa essere piuttosto breve. “Culmine” dice un punto di arrivo collocato in alto, la meta di un pellegrinaggio che dura nel tempo. La Liturgia è anche questo, proprio perché è la presenza nell’oggi del mistero di Cristo. La Chiesa, e in essa ciascuno di noi, è chiamata ad assimilarsi sempre di più al suo Signore, a imitarlo, a essere una sola cosa con lui. Nella celebrazione liturgica la Chiesa ritrova questa aspirazione, se mai l’avesse dimenticata, e noi con lei. Noi che spesso, invece, quell’aspirazione cristiana fondamentale la perdiamo di vista.

    La Liturgia che è culmine della nostra vita ci ricorda che siamo fatti per la santità e mette in movimento tutte le forze di cui disponiamo per tendervi senza mai stancarsi.

    Così è proprio vero: tutto parte dalla Liturgia, che è fonte; e tutto torna alla Liturgia che è culmine. E la Liturgia è culmine, vale a dire punto di arrivo del nostro cammino, proprio perché è anche fonte da cui scaturisce la possibilità di quel cammino. Se il mistero di Cristo non ci fosse donato al principio come salvezza, non potrebbe esserci in noi nessuna speranza di ritrovare il Signore al compimento della nostra vita. Ma siccome quel mistero di grazia ci precede e ci accompagna il Signore Gesù può essere anche il culmine del nostro impegno cristiano. Partecipiamo alla Liturgia-fonte per venire trasformati dal dono di grazia che è Cristo Salvatore. Partecipiamo alla Liturgia-culmine per non perdere di vista la meta per la quale quel dono di grazia ci ha resi capaci e impegnati.

    Quale splendore di grazia, di amore, di bellezza e di verità è la Liturgia! Quale splendore di grazia, di amore, di bellezza e di verità è l’Eucaristia! Davvero la Liturgia è il culmine della vita della Chiesa! E’ per questo che noi sacerdoti, ma con noi anche voi, carissime religiose e persone consacrate, e tutti i fedeli, non dovremmo mai dimenticare quanto la Chiesa, nella sua esperienza secolare, ricorda come ammonimento salutare a chi da poco ha ricevuto la sacra ordinazione: “Che la tua Messa sia sempre come la prima, come l’ultima e come l’unica”. Anch’io, il giorno della mia ordinazione, questa raccomandazione amorevole me la sono sentita rinnovare dal mio Arcivescovo. E giorno dopo giorno ne capisco sempre di più la profondissima verità. Non c’è nulla che sia più importante della Liturgia, dell’Eucaristia. Perché non c’è nulla che sia più importante del Signore, crocifisso e risorto, presente e operante oggi nella Sua Chiesa.

    Possa essere realtà quotidiana per ciascuno di noi che l’Eucaristia è la nostra vita e la vita è la nostra Eucaristia, così come la Liturgia è la nostra vita e la vita è la nostra Liturgia. Questo è anche il mio augurio a tutte voi per il cammino quaresimale.