Corso di aggiornamento: “L’accompagnamento spirituale: luogo di crescita umana alla luce dello Spirito”.
Castello di Perletto,
1.”Volontà di Dio, Paradiso mio”
“…quando sarai vecchio…” (Gv, 21, 18)
La tematica spirituale della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano è tematica centrale nella vita cristiana di tutti. Nessuno, infatti, può dirsi esente da questa lettura e da questa accoglienza: per un verso verrebbe meno la dimensione più propriamente religiosa dell’esistenza umana, dimensione religiosa che chiede adesione a Dio e alla sua volontà; per un altro verso verrebbe meno un aspetto centrale, tipico della fede cristiana, anzi quell’aspetto che è così centrale da essere spartiacque tra una fede adolescenziale e una fede matura. E’ la stessa Parola del Signore che, con grande chiarezza, ci pone di fronte a questa realtà. “In verità, in verità ti dico: – afferma Gesù rivolgendosi a Pietro dopo il triplice interrogativo sull’amore – quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18).
Lo sappiamo bene: qui Gesù non parla di un’età biologica, come a dire che il passare degli anni porterà con sé anche un progresso della fede nella vita di Pietro. Qui Gesù parla di un’età spirituale che si misura proprio sulla capacità di lettura e di accoglienza della volontà di Dio. Così – e questa è l’affermazione che ci introduce nel tema, ne costituirà lo sfondo di riferimento e, insieme, ci sfida in profondità – noi possiamo valutare il nostro personale cammino di fede esattamente a partire dalla grande tematica appena ricordata: la volontà di Dio, letta e accolta. Lasciamoci, allora, da subito interrogare: quale centralità ha la volontà di Dio nella nostra vita? La nostra giornata si qualifica per l’incessante ricerca di questa volontà? Siamo consapevoli che tutto di noi si gioca proprio attorno a questa volontà, dal profondo del cuore amata, desiderata e con entusiasmo abbracciata?
“…Dio è Amore…” (Gv 4, 8)
Quando ci si addentra nelle realtà della vita spirituale il punto di partenza di ogni discorso non può che essere Dio, contemplato nel mistero della sua intimità. E questo perché è solo il mistero di Dio che può fornirci gli esatti criteri del vivere umano, nei suoi contenuti e nelle sue modalità. Rimane sempre vero che l’uomo trova e ritrova se stesso in Dio e solo in Dio, riportando alla mente la felice e ricca espressione usata dal Concilio Vaticano II, secondo la quale “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Gaudium et Spes, 22). Dunque, è sempre a Dio che bisogna tornare ed è da Dio che bisogna ripartire quando intendiamo parlare correttamente dell’uomo e del mistero della sua vita.
Dio è amore! Quante volte abbiamo ascoltato questo annuncio gioioso! E quante volte ci siamo ritornati sopra con la nostra personale riflessione e nel momento della preghiera! Eppure non può che essere sempre nuova la gioia che proviamo all’udire questo annuncio che in profondità cambia la vita. Dicono che San Giovanni, ormai anziano, visitasse le comunità cristiane da lui fondate continuando a ripetere: “Dio è amore!”. Alla ripetitività delle sue parole qualcuno ebbe forse da ridire, ma Giovanni rispose semplicemente: “Io non faccio che ripetere ciò che il Signore ha detto, ciò che sta al cuore del Vangelo”. Con rinnovato stupore riascoltiamo oggi, ancora una volta: “Dio è amore!”.
Siamo forse così lontani dal tema che stiamo affrontando? Tutt’altro: ne siamo proprio al cuore. Perché? Il motivo è tutto sommato abbastanza semplice. Proprio nella misura in cui Dio è Amore è possibile parlare di lettura e accoglienza della sua volontà. E solo nella misura in cui cresce in noi la convinzione vissuta che Dio è amore è possibile coltivare uno stile di vita che sia di desiderosa lettura e accoglienza della sua volontà. Così, se vogliamo crescere nell’amore alla volontà di Dio dobbiamo assolutamente crescere nell’esperienza del suo amore. Dico assolutamente non a caso, ma per sottolineare l’importanza decisiva di questo fatto interiore: che non è solo frutto del nostro impegno personale, ma anche e soprattutto dono della grazia di Dio.
Che cosa ne consegue da questa affermazione? Che la lettura e l’accoglienza della volontà di Dio sono strettamente collegate all’intensità della vita spirituale: quella vita spirituale che significa comunione con il Signore e, dunque, esperienza del suo amore infinito. E qui ci poniamo un’altra domanda: quale è l’intensità della nostra vita spirituale? Quale la fedeltà alla preghiera e al cammino di crescita in questa arte dell’intrattenimento con Dio? E quale, ancora, il primato che diamo nella nostra vita all’incontro con il Signore, così come avviene nella celebrazione eucaristica, nella liturgia delle ore, nella celebrazione dei sacramenti (penso al sacramento della riconciliazione in particolare)? O la vita spirituale ha il primato, oppure l’amore di Dio è qualche cosa di astratto, forse mai realmente assaporata. Ma allora parlare della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio può anche diventare un esercizio accademico, non un fatto di vita e di maturità cristiana.
Il mistero dell’Amore nel Figlio di Dio
E’ necessario compiere un passo avanti nella nostra contemplazione dell’amore di Dio, dell’amore che è Dio. Infatti, questo mistero stupendo ci è stato rivelato in pienezza nella vita storica del Figlio di Dio fatto uomo. A questo proposito desidero soffermarmi su un duplice aspetto di questa rivelazione. Anzitutto sull’originalità dell’amore che ci viene rivelato in Gesù Cristo; poi su ciò che questa rivelazione significa per noi e per il nostro modo di vivere la relazione con Dio.
La rivelazione di un amore originale
Non si può parlare del mistero dell’amore di Dio senza parlare della croce. La croce, infatti, è piantata al centro della rivelazione dell’amore: la porta a compimento e, insieme, ne rivela i tratti inconfondibili e nuovi.
Andiamo per un momento con la mente e con il cuore alla scena evangelica del Calvario, secondo la narrazione che ne fa San Marco. L’avvenimento è descritto dall’evangelista attraverso alcuni quadri mostrati in successione. Al centro di questa, che potremmo chiamare “la grande pinacoteca della passione e morte del Signore”, sta la raffigurazione della derisione e dell’oltraggio subiti da Gesù crocifisso. “I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: ‘Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!’. Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: ‘Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo’. E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano” (15, 29-32).
Sappiamo bene come la drammatica sfida non sia stata raccolta da Gesù. E sappiamo bene come questo non abbia significato la sconfitta nella missione di Cristo, ma anzi ne abbia segnato la definitiva vittoria, ratificata dalla risurrezione gloriosa. Ne è eco, sempre nel vangelo di San Marco, il centurione che, vedendo morire il Signore, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”. Si realizza, così, l’intento dell’evangelista, un intento che percorre per intero il suo racconto evangelico: quello di mostrare che il volto di Dio non è quello di consueto immaginato dall’uomo. Il volto di Dio è il volto dell’amore, di un amore che si fa crocifiggere perché dà tutto fino al dono della vita; di un amore che è tale da non essere sempre compreso in tutte le sue articolazioni ed espressioni; di un amore che può anche accettare di essere sconfitto per risultare realmente vittorioso.
Ma tutto questo quale rilievo ha nella considerazione della lettura e della ricerca della volontà di Dio nel quotidiano? Un rilievo ce l’ha, eccome! Perché ci viene a dire che quell’amore di Dio nel quale noi crediamo è un amore che non sempre si manifesta secondo il nostro punto di vista; e neppure secondo i criteri dell’amore così come speso li coltiviamo nella nostra povera mente e nel nostro povero cuore. Dunque, aderire alla volontà di Dio significa anche aderire a un progetto di amore a volte non del tutto comprensibile o non comprensibile affatto nell’immediato. E’, dunque, inutile ripetere che non si dà lettura e accoglienza della volontà di Dio senza un’intensa vita spirituale? No, non è inutile: perché l’originalità dell’amore di Dio la coglie solo colui che di questo amore ha fatto esperienza viva nel proprio cuore e nella propria vita.
Gesù, Maestro della relazione con Dio
Veniamo ora al secondo aspetto della rivelazione dell’amore di Dio, così come avviene nella vita storica di Gesù.
Ci sono alcuni versetti di un bellissimo salmo, tante volte da noi ripetuto nella preghiera, che dicono così: “Sacrificio e offerta non gradisci, / gli orecchi mi hai aperto. / Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. / Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo. / Sul rotolo del libro di me è scritto / di compiere il tuo volere. / Mio Dio questo io desidero / la tua legge è nel profondo del mio cuore’” (Salmo 39). Sappiamo bene come questi versetti siano ripresi dall’autore della lettera agli Ebrei (10, 5-7) per identificare i sentimenti del Figlio di Dio, nel momento in cui lasciando l’eternità Trinitaria entra nella storia degli uomini. In questo modo ci raggiunge una tenue luce che illumina la nostra conoscenza circa il rapporto eterno che lega il Padre e il Figlio. Un rapporto che trova il suo contenuto centrale nell’adesione incondizionata e piena da parte del Figlio al Padre.
In questo senso le diverse espressioni con le quali Gesù, nel corso della sua missione terrena, manifesta la propria adesione al volere paterno altro non sono se non il riflesso temporale di una realtà che da sempre esiste nel mistero dell’amore di Dio. Ricordiamo solo qualcuna di queste espressioni evangeliche: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4, 34), dice Gesù ai suoi discepoli; “…bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14, 31), è ancora Gesù che parla così ai suoi alla vigilia della Passione; “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà” (Mt 26, 42), è ancora il Signore che così prega durante l’agonia del Getsemani.
Ci chiediamo: qual è la radice dell’adesione totale e perfetta di Cristo alla volontà del Padre? La radice è la figliolanza. Gesù è in tutto e per tutto una cosa sola con il Padre perché è Figlio: sa che il Padre lo ama, Egli ama il Padre e senza esitazioni ne acconsente ogni moto della volontà.
Non è difficile capire, di conseguenza, in quale senso Gesù è per noi Maestro della relazione che siamo chiamati a vivere con Dio. Egli, infatti, ci insegna a essere figli e ci ricorda che essere figli in pienezza si traduce in adesione fiduciosa e generosa alla volontà di Colui che è Padre premuroso. Tutto questo esprime, in altre parole, quanto il Signore ci insegna attraverso l’immagine sempre commovente dei bambini: “Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli’” (Mt 18, 3). E’ solo tornando a essere bambini che possiamo entrare nel Regno dei cieli e, dunque, vivere la vita della grazia, la vista stessa di Cristo. Nel testo evangelico si parla di conversione. In verità è esattamente questa la conversione radicale che ci porta a quell’età adulta della fede di cui già si è detto: la conversione nella logica del bambino, cioè del figlio che in tutto e per tutto vive l’abbandono fiducioso alla volontà del Padre.
D’altra parte è proprio la preghiera insegnata da Gesù che ancora una volta, e una volta per tutte, ci pone di fronte a questa esigenza insopprimibile e radicale. “Padre nostro”; dirlo e, soprattutto viverlo, significa affermare con la parola e con la vita che siamo bambini davanti a Dio e, dunque, che viviamo l’adesione piena alla sua volontà su di noi.
Proprio come il Signore Gesù. Ed eccoci a un altro punto fondamentale della nostra conversazione. La chiamata, che è scritta a chiare lettere nel nostro battesimo e che si è rinnovata in modo peculiare al momento della speciale consacrazione (nelle sua diverse forme di vita), è quella a essere per grazia “figli nel Figlio”. Per ciascuno di noi, cioè, vale quanto affermava di sé l’apostolo Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Non è difficile cogliere la relazione tra quanto affermato ora e il tema della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano. Cercare la volontà di Dio, aderire a questa volontà altro non è che il segno della presenza viva di Cristo in noi, il segno che la vita di Gesù, donata a noi nel sacramento del battesimo e al momento della speciale consacrazione, sta esprimendo progressivamente tutte le sue potenzialità.
Non vorrei essere ripetitivo. Ma come è possibile tutto questo senza una vita spirituale intensa? Come è possibile che la vita di Cristo si faccia spazio in noi se questa vita non la coltiviamo ogni giorno con fedeltà e passione? Aggiungo un particolare. C’è un momento della nostra giornata e della nostra esperienza spirituale che è privilegiato da questo punto di vista. Il momento è la celebrazione dell’Eucaristia. Lì, più che mai, entriamo in relazione viva con Colui che rinnova la sua donazione di amore al Padre e la sua incondizionata adesione alla sua volontà. Lì, più che mai, ci uniamo al Signore Gesù e alla sue disposizioni interiori, in virtù della Santa Comunione dove, per grazia, veniamo trasformati in Cristo. E allora interroghiamoci: è quello della Messa il momento nel quale con trasporto chiediamo la grazia di vivere nella volontà del Signore? E’ quello il momento nel quale ci impegniamo a mettere da parte in nostri progetti per fare nostri i progetti di Dio? E’ quello il momento nel quale assaporiamo la bellezza di poter dire a noi stessi. “Oggi, ancora una volta, Gesù è cresciuto in me e, dunque, è cresciuta in me la ‘fame’ della volontà di Dio?”
“Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38)
Parlando di lettura e accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano, certo non si può dimenticare la SS. Vergine Maria e la sua propria esperienza spirituale. Anche perché, e facciamo riferimento al versetto citato dell’Annunciazione, l’eccomi della Madonna rivela due elementi di fondamentale importanza per il tema che stiamo trattando.
La responsabilità di ogni “eccomi” umano
Il primo elemento lo propongo subito e brevemente: il piano di salvezza pensato da Dio fin dall’eternità è legato alla risposta di una donna. Non è questa una novità per noi. Ma che cosa significa ciò per la nostra vita? Che, in fondo, la salvezza di Dio è legata alla risposta che l’uomo dà alla sua chiamata e, dunque, alla nostra adesione alla sua volontà. Di conseguenza la tematica della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano ci porta a dire che grande, davvero grande è la nostra responsabilità: non solo per la nostra piccola storia personale e per la piccola storia delle nostre comunità e dei nostri ambienti; ma anche per la storia del mondo. E’ proprio così, e Dio ce lo ha rivelato in Maria, all’inizio della Redenzione: alle nostre risposte di amore è legato il destino di molti, di molto! Come può e deve cambiare, allora, il modo in cui ci confrontiamo con il tema della volontà del Signore nella nostra vita! Come deve cambiare il modo di vivere l’adesione a questa volontà! Perché ogni adesione è un mistero insondabile di luce e di vita, perché ogni risposta a Dio che interpella mette in moto un movimento di salvezza che nessuno di noi è capace neppure di immaginare. E questo non solo per le grandi decisioni dell’esistenza. Ma anche e, perché no, soprattutto (visto che sono le più abbondanti) per quelle piccole scelte della vita e per quelle apparentemente insignificanti adesioni a Dio che costituiscono la trama semplice ma misteriosamente ricca del nostro quotidiano.
Abbiamo giustamente parlato di responsabilità grande, grandissima affidata all’uomo. E’ bene, però, anche parlare di grazia stupenda che Dio regala all’esistenza di ognuno di noi. Non è e non deve essere ovvio che il Signore ci renda partecipi per grazia della sua opera di salvezza. Vogliamo e dobbiamo essere gioiosamente grati al Signore per averci voluti accanto a sé nella collaborazione al piano provvidenziale di salvezza del mondo.
Alla radice della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio
E’ ora tempo di venire a considerare il secondo elemento di riflessione che deriva dall’eccomi di Maria, elemento che va alla radice della tematica riguardante la lettura e l’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano. Infatti, l’eccomi di Maria, prima di essere una risposta data all’appello di Dio, è un atteggiamento di fondo che ha permeato tutta intera la sua vita. Che cosa voglio dire. Mi rifaccio al titolo della relazione che mi è stata affidata: “Signore cosa vuoi che io faccia?”. Quando parlo di atteggiamento di fondo che permea per intero la vita della Madre di Dio mi riferisco proprio a questa domanda, che rivela un atteggiamento di totale “abbandono”. Ed è di questo abbandono che voglio ora parlare. Perché è nell’abbandono la radice alla quale attingere il desiderio di leggere e accogliere la volontà di Dio. Questo desiderio non c’è, o non c’è con la dovuta autenticità, se viene a mancare quell’atteggiamento di abbandono che la domanda “Signore cosa vuoi che io faccia?” rivela.
Provo a illustrare questa affermazione con due immagini: la prima suggerita da Origene e la seconda da un episodio celebre della vita di San Francesco di Sales.
Origene, commentando da par suo l’episodio dell’annunciazione dell’angelo a Maria, dice: “Con questa sua risposta è come se Maria dicesse a Dio: ‘Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto’” (Commento al vangelo di Luca, frammento 18). Che cosa è, alla luce di questa esposizione di Origene, l’abbandono di cui parlo? E’ la libertà interiore di chi non vuole altro che non sia Dio, che non ha altri legami interiori diversi dall’amore di Dio, che non desidera più niente per sé se non Dio e la sua volontà. Abbandono, allora. Può essere ed è sinonimo di vuoto. Non di quel vuoto che è tenebra perché assenza di tutto; ma di quel vuoto che corrisponde a pienezza di amore e che non vuole lasciarsi riempire da nulla al di fuori di Dio. Non si dà, allora lettura e accoglienza della volontà di Dio al di fuori di un costante combattimento con se stessi e con i molti e diversi attaccamenti interiori che caratterizzano la vita di noi tutti.
Quanto affermato trova un’ulteriore e quanto mai significativa illustrazione nell’episodio della vita di San Francesco di Sales che di seguito riporto. Francesco incontra la Chantal, che da ormai qualche tempo è sua figlia spirituale. L’incontro è decisivo per la vita della donna e per la sua ricerca della volontà di Dio. Ascoltiamo: “L’incontro decisivo ebbe luogo tra i due santi il lunedì di Pentecoste del 1607. Francesco invitò la Chantal a colloquio dopo la Messa: ‘Ebbene, figlia, ho deciso che cosa voglio fare di voi’. Ed io, mio Signore e Padre, sono risoluta ad obbedirvi’. Si inginocchiò. Il santo le permise di rimanere così, e si trattenne in piedi, a distanza di due passi da lei: ‘Sta bene. Coraggio, bisogna entrare tra le Clarisse’. Padre mio, sono tutta pronta’. Una goccia di riflessione sospese il dialogo. ‘No, non siete abbastanza robusta’. Le parole scorrevano lente, penose: ‘Bisogna essere suora dell’ospedale di Beaune’. ‘Come vi piace’. E si ripeté un’interruzione carica di pensiero. ‘No, no, non è ancora questo che io voglio: sarete carmelitana’. La Chantal che, come sappiamo, aveva fatto il possibile in precedenza per essere carmelitana, disse: ‘Sono pronta a obbedire’. Allora il santo la fece sedere e disse, con voce pacata e come chi arrivi alla conclusione di un discorso: ‘Niente di questo è adatto a voi’. E parlò quietamente, limpidamente, di un progetto nuovo, che egli, in realtà maturava tra sé da un tempo assai lungo: descrisse la futura Visitazione” (da Come piace a Dio, di G. Papasogli, pp. 369-370).
Questo bellissimo episodio, che dice la disponibilità piena della Chantal alla volontà del Signore su di lei, illustra anche molto bene la saggia pedagogia del grande maestro di spirito Francesco di Sales, che progressivamente aveva portato la Chantal proprio all’atteggiamento di abbandono, cioè a quel vuoto tipico di un amore ormai disponibile a tutto, purché fosse da Dio.
Penso che così sia sufficientemente chiaro quanto ho inteso esprimere con il termine abbandono e, soprattutto, quanto ho inteso dire affermando che con l’atteggiamento di abbandono arriviamo alla radice del tema trattato. Le domande, allora, che è necessario porsi scaturiscono naturali e ci devono accompagnare ogni qualvolta ci disponiamo a ricercare la volontà del Signore: conservo dei legami al di fuori di Dio nel mio cuore? Vivo nella disponibilità a tutto ciò che il Signore può propormi? Sento in me delle resistenze di fronte a quella o a quell’altra prospettiva che manifesta il progetto di Dio su di me?
2.L’accompagnamento spirituale
La volontà di Dio significata
La citazione di un bel passo di San Francesco di Sales mi dà l’opportunità di entrare nella seconda parte del tema che stiamo affrontando: quella dell’accompagnamento spirituale. Ecco, di seguito, il brano: “Così l’anima che si è abbandonata, non ha altro fa fare che rimanere tra le braccia di Nostro Signore, come un bambino sul seno di sua madre, che, quando viene posato a terra per camminare, cammina fino a che sua madre lo riprenda, e quando lei vuole portarlo, la lascia fare. Non sa e non pensa dove va, ma si lascia portare o condurre dove vuole sua madre: tuttavia, tale anima, pur amando il beneplacito di Dio in tutto ciò che le accade e lasciandosi portare, nondimeno cammina, facendo con molta attenzione tutto ciò che è volontà di Dio significata” (Trattenimenti, Città Nuova, p. 65).
Con l’aiuto del santo vescovo di Ginevra, dopo avere rinnovato la contemplazione del mistero di Dio Amore, dopo averla rinnovata, questa contemplazione, nel mistero del Figlio di Dio che si fa uomo donando la propria vita sulla croce in adesione perfetta alla volontà del Padre, dopo essere andati alla radice della questione circa la lettura e l’accoglienza della volontà di Dio e cioè all’atteggiamento di abbandono, ora ci chiediamo: dove trovare i segni della volontà di Dio? Dove cercarla questa volontà amata e desiderata? Insomma: che cosa fare per leggere e accogliere la volontà del Signore nel quotidiano?
Proviamo a dare una qualche risposta a questi interrogativi così decisivi per la nostra vita. Non senza una premessa di fondamentale importanza. E questa premessa è il mistero dell’Incarnazione. Questa, e non altre, è stata la strada scelta da Dio per farsi incontro agli uomini e portare loro la parola di salvezza. Questa allora, e non altre, deve essere ancora oggi la via che Dio sceglie per raggiungere la mente e il cuore di ciascuno, manifestando la sua volontà di amore. Che cosa significa questo in altre parole? Significa che la volontà di Dio si manifesta ordinariamente in modo molto concreto, attraverso ciò che cade sotto la percezione della nostra umanità. Non c’è spazio per una ricerca della volontà di Dio disincarnata dalla realtà. Lo stesso termine “disincarnata” dice radicale contraddizione con la logica e la verità dell’Incarnazione. Ecco perché parlo di “volontà di Dio significata”: perché la volontà di Dio trova manifestazione nella concretezza della nostra vita.
Questo ci porta a fare un’ulteriore affermazione: nella lettura e nell’accoglienza della volontà di Dio un posto insostituibile è da riconoscere alla mediazione della Chiesa. Anzi, è proprio questa mediazione, in via ordinaria, a dare autenticazione a quanto noi, con la nostra sincera ricerca, abbiamo interpretato essere la volontà del Signore. Gli esempi di questa mediazione sono molteplici e li conosciamo. Ma qui voglio solo ricordarne una, quella per la quale siamo riuniti per questo corso di aggiornamento. E’ tra le più significative per la vita spirituale personale, anche perché adottarla con fedeltà significa aver capito e vivere con grande concretezza la logica dell’Incarnazione. Penso all’accompagnamento spirituale, quell’accompagnamento che non sostituisce la nostra responsabilità nella lettura e nell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano, ma che di quella responsabilità è misura e verifica periodica.
Lo sappiamo bene, e per esperienza diretta. C’è una grande tentazione nel cammino della vita cristiana, a volte quando si è giovani e si ama l’indipendenza, altre volte quando gli anni passano e ci pare di essere cresciuti nell’esperienza di Dio: la tentazione di “fare da soli”. Ma è proprio questo fare da soli che contraddice in modo radicale quanto fin qui affermato. Perché chi vuole fare da solo, diventerà incapace di cogliere il passaggio di Dio nei fatti quotidiani della vita, così come poco a poco non riuscirà ad ascoltare la voce del Signore che parla nella Sua Parola, nella Liturgia e nei Sacramenti, nella carità, nell’obbedienza, nelle ispirazioni interiori. E perché tutto questo? Perché chi vuol fare da solo finirà per non cercare più Dio ma se stesso; e, ciò che è più grave, neppure più se ne accorgerà. La prassi dell’accompagnamento spirituale è provvidenziale non solo perché ci è testimoniata come assai feconda dalla tradizione spirituale della Chiesa e dalla vita dei santi, ma anche perché ci mantiene in quell’atteggiamento di abbandono che abbiamo detto essere alla radice di una sincera lettura e accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano.
Non è forse il caso, allora, di domandarci se in questo momento della vita stiamo “facendo da soli”?
Addentrandomi nell’argomento dell’accompagnamento spirituale intendo procedere per affermazioni che spero logicamente collegate tra di loro, ma soprattutto capaci di sollevare interrogativi, promuovere riflessione, spingere alla decisione.
La relazione di accompagnamento
La scelta dell’accompagnatore spirituale non è dettata anzitutto dalla notorietà della persona, neppure dalla sua notorietà spirituale. Alla base della relazione tra accompagnato e accompagnatore sta un elemento umano molto semplice che è possibile chiamare “simpatia”, intesa come armonia di due cuori che si percepiscono intonati uno all’altro nella ricerca di Dio. E’ questo il punto di partenza fondamentale per garantire alla relazione di accompagnamento spirituale quell’apertura sincera del cuore, senza della quale non si dà vero progresso nella vita dello Spirito. Ma come individuare una tale “simpatia” e, dunque, operare la scelta del proprio accompagnatore? Il Signore non lascerà mancare il suo dono, nella misura in cui glielo si chiederà con vero desiderio. Il problema, in questo senso, non è la mancanza dell’accompagnatore spirituale; il problema è la mancanza del desiderio di un accompagnatore!
Il problema della mancanza del desiderio di un accompagnatore si fa più grave nel periodo giovanile del proprio cammino spirituale, soprattutto in particolari stati di vita come quelli di speciale consacrazione, o in concomitanza con quei periodi della storia personale che richiedono scelte decisive e impegnative per il proprio futuro. Questo lo affermo non solo in relazione alla necessità di dare un fondamento stabile e una solida struttura alla vita spirituale; lo affermo anche a motivo di quelle difficoltà che molto spesso si è chiamati ad affrontare agli inizi del cammino spirituale e per risolvere le quali è quanto mai importante avere familiarità e confidenza con una guida esperta nelle vie dello Spirito. Non sarà, infatti, nel pieno di una tempesta spirituale che la persona cercherà un accompagnatore. E se lo cercherà, proprio perché troppo recente, l’aiuto non potrà portare grandi frutti. Dunque, non si attenda eccessivamente nella scelta dell’accompagnatore spirituale: ponderazione sì, richiesta di luce al Signore pure; ma un eccesso di attesa no. Il pericolo potrebbe essere quello di non avvertirne più la necessità, di fare da soli, di illudersi circa le scelte compiute, di vanificare il proprio tempo.
E’ possibile definire la relazione di accompagnamento spirituale? Penso che un’immagine possa aiutare meglio di ogni altra astratta definizione. Immaginate un coro di persone chiamate a cantare ciascuna un particolare spartito. E immaginate il maestro di coro, con il compito di aiutare ciascuna di queste persone a cantare quel canto unico che è affidato a ciascuna. Ecco l’accompagnamento spirituale: un maestro di coro che Dio pone al nostro fianco per aiutarci ad esprimere quel canto unico che siamo noi. Noi non conosciamo ancora la bellezza della nostra voce! Sarà il maestro di coro ad aiutarci a conoscerla e a praticarla secondo tutte le nostre potenzialità.
Ho parlato, fino a questo momento, di accompagnatore spirituale. Dovremmo anche parlare di “padre spirituale”. Le due figure si richiamano a vicenda, possono essere entrambi presenti nella vita di una persona, ma certo sono tra di loro ben distinte. Mentre l’accompagnatore, infatti, è una guida nella via dello Spirito che è possibile, anzi a volte è necessario, cambiare nel corso della vita, il padre spirituale non potrà mai essere cambiato. Quella di un padre spirituale, infatti, è una grazia che difficilmente si rinnova nel corso dell’esistenza. E’ stato scritto che “ci sono delle grazie che non si ricevono due volte perché esigono un abbandono totale e sembra che l’uomo non possa fare due volte un tale dono nella propria vita”. Una di queste grazie è proprio quella del padre spirituale, la persona che Dio ci manda per radicarci in modo originale una volta per sempre nella via dello Spirito. Esemplare, da questo punto di vista, è la vicenda interiore di padre Charles de Foucauld: nessuno poté sostituire il suo padre spirituale l’Abbé Huvelin. Il padre Crozier, che divenne guida di padre de Foucauld dopo la morte dell’Abbé, non ne prese mai il posto come padre spirituale: rimase un accompagnatore prezioso, ma pur sempre un accompagnatore.
C’è un particolare interessante nella relazione di accompagnamento spirituale che è bene ricordare: su tratta delle modalità con le quali accompagnatore e accompagnato vivono in genere il loro rapporto. E’ chiaro che l’accompagnatore, nel suo modo di essere con la persona accompagnata, porterà sempre l’impronta con cui egli stesso è stato amato nella sua infanzia: perché si ama come si è stati amati. Ed è altrettanto chiaro che l’accompagnato, di fronte al suo accompagnatore e padre sarà sempre un po’ il bambino che è stato con i suoi genitori. Niente di strano, in questo. Anzi, un tratto di umanità molto suggestivo, dove i lineamenti umani presenti in noi concorrono ai disegni di Dio sulla nostra vita.
A questo punto, tre suggestioni semplici ma a mio avviso importanti. E’ stato detto: “La direzione spirituale se non tende regolarmente ad una disciplina di letture da controllare, finisce inevitabilmente per girare a vuoto”. Lo sa bene chi ne ha fatto l’esperienza: in positivo e in negativo. In positivo: i testi della lettura spirituale come anche quelli della meditazione sono uno strumento quanto mai utile per dare un indirizzo all’accompagnato. Ed è vero, allo stesso modo, che questi testi spesso costituiscono una vera e propria direzione spirituale quotidiana, soprattutto quando in certi periodi può essere più difficile l’incontro frequente tra accompagnatore e accompagnato. In negativo: la mancanza di un orientamento nelle letture spesso significa anche disorientamento nel cammino spirituale, che non procede più secondo un itinerario logico e pensato. Inoltre, la carenza di letture significa spesso un impoverimento grave della propria interiorità.
E’ stato ancora detto: “L’accompagnamento spirituale non ha peggior nemico della volontà di sedurre. Sterilità assicurata”. Non vorrei essere pessimista: però, quanti seduttori e pochi veri padri! Che cosa intendo per seduzione? Intendo quella sottile tentazione, fatta di gesti, parole, decisioni che tende ad avvicinare a sé più che a Dio la persona dell’accompagnato. Un accompagnatore vero, e tanto più un padre vero, lo si riconosce dalla libertà interiore con cui è capace di affrontare anche la ribellione della persona accompagnata. C’è un tempo per l’indicazione dolce e soave, ma c’è un tempo anche per la proposta audace e decisa di nuove mete da raggiungere. Quale vero padre per il bene dei figli non sarebbe disposto anche alla forza della sua guida e all’asprezza del rimprovero pur di orientare al bene? L’amore paterno conosce una molteplicità di sfumature: per chi è accompagnato è esperienza bellissima farne conoscenza, anche se a volte sofferta, e capire che si è in due non per guardarsi uno negli occhi dell’altro, ma per guardare insieme verso Dio, e a lui solo dare il proprio cuore.
L’ultima suggestione. Di che cosa parlare nella direzione spirituale’ Qualcuno ha risposto. “Di Amore e di amori”. E’ così ed è tanto bello! Al proprio padre si parla dell’Amore: di quello vissuto e di quello che si vorrebbe vivere, di quando gli si è stati fedeli e di quando gli si è stati infedeli. E al proprio padre spirituale si parla anche degli amori: di quei molti amori che distolgono il cuore dall’Unico necessario e che sgretolano le potenzialità della nostra vita interiore in mille rivoli senza senso e destinati al nulla.
Vivere l’accompagnamento
Mi pongo, adesso, dalla parte della persona accompagnata e ancora mi diffondo in qualche proposta di riflessione.
Charles de Foucauld, fin dai primi incontri con l’Abbé Huvelin, aveva capito che l’uomo di Dio gli sarebbe stato padre nelle vie dello Spirito. E avanti negli anni, ricordando il tempo della sua figliolanza spirituale, la considerava come una delle grazie più grandi che avesse ricevuto. Quella del padre spirituale è una vera grazia del Signore. E la si riconosce quando nel volto e nel cuore dell’accompagnatore si intuisce misteriosamente ma con certezza che quella è la persona che Dio ha destinato. Ci potranno essere stati altre guide, ma c’è un momento nella vita in cui si capisce che quella che si ha davanti è la guida, la guida della guide, il padre.
Nella relazione con il proprio padre c’è una sottile tentazione che può catturarci: quella di giudicare il proprio padre. Compiere questo significherebbe snaturare la relazione ponendosi al di sopra di colui che Dio ha posto al fianco per essere guida. La propria maturità spirituale si misura anche su questo: nel non aver timore degli errori del proprio padre spirituale. Perché “tutto concorre al bene” per coloro che amano Dio e Dio sa convertire anche gli errori del padre in profitto per i figli. Se vogliamo che l’incontro di direzione spirituale sia esperienza di Dio dobbiamo andare dal nostro padre spirituale come andassimo dal Signore. Non si può scherzare con l’accompagnamento spirituale, perché è Dio stesso che vi agisce e che vi vuole agire.
Molti si pongono il problema del legame tra confessione sacramentale e relazione di accompagnamento spirituale. Lo sappiamo bene: nulla vieta una distinzione tra i due momenti, ma la sapienza secolare della spiritualità cristiana suggerisce che quando l’accompagnatore è un sacerdote egli sia anche confessore, almeno in via ordinaria. E questo a garanzia di un’autentica trasparenza e apertura di cuore tra accompagnato e accompagnatore. Non può capitare, infatti, che per debolezza si sia tentati di confessarsi altrove per evitare di aprire il proprio cuore al padre spirituale in occasioni in cui questa apertura è più difficile e penosa? Ma allora di quale relazione di paternità-figliolanza è possibile parlare? In questo senso è abitudine molto lodevole che, nelle giuste occasioni in cui la confessione avviene con persona diversa dall’accompagnatore, l’accompagnato poi rinnovi l’accusa delle proprie colpe davanti al proprio padre. E’ questione di figliolanza vissuta in pienezza e non a metà.
La vita secondo lo Spirito è un quotidiano combattimento con se stessi e con le proprie povertà. Anche nel caso sopra accennato. Comporta fatica, ma è una fatica bella e amata se considerata nella meravigliosa avventura della storia di amore tra noi e il Signore. Da questo punto di vista si pensi anche a ciò che accade qualche volta: quando l’accompagnato vuole rendere complice l’accompagnatore delle proprie debolezze. Sembra quasi che si chieda una benedizione, con giri di parole, per cose che il Signore non può benedire: e questo lo si sa, ma non lo si vuole riconoscere. Ecco un altro momento del combattimento con se stessi: lasciamo che sia il nostro padre a fare discernimento su quanto stiamo vivendo e seguiamo con docilità quanto ci sarà indicato.
L’obbedienza a volte è dura, è una libertà che mette paura. Eppure è la via di Dio per noi e la nostra via per Dio. Anche nella relazione di accompagnamento spirituale. E’ vero che il padre spirituale non deve e non può sostituirsi all’accompagnato : egli illumina le sue scelte, ma le scelte rimangono sue. L’obbedienza, però, è una disposizione generale del cuore che il figlio ha verso il padre e che in certe circostanze è bene che sia richiesta dal padre in modo immediato e incondizionato, per non incorrere nel pericolo che l’accompagnamento si svuoti di forza e di incisività. Quante obbedienze faticose, ma benedette ciascuno di noi ricorda nel suo cammino di vita spirituale! Benedetto quel padre che, senza guardare troppo ai nostri capricci e alle nostre resistenze, a volte esige ed esige con dolce vigore per il nostro bene! Diceva San Giovanni Climaco che “l’obbedienza è una rinuncia al discernimento per pienezza di discernimento”.
Mi avvio a concludere queste tracce di riflessione con due ultime sottolineature, ancora semplici, ma non per questo di poco rilievo. Quante volte nella nostra esperienza di accompagnati, abbiamo vissuto l’atteggiamento interiore della negligenza nell’incontro con l’accompagnatore! Il tempo passava e non ci decidevamo a recarci dal padre. Se questo ci è capitato, avremo anche toccato con mano come la rarefazione dell’incontro abbia significato la crescente sensazione di non avere più niente da dire all’accompagnatore. A poco a poco si vive senza fare più riferimento alla figura paterna nella via dello Spirito. E quando si avvicina il momento dell’incontro altro non rimane che raccogliere in fretta e superficialmente qualche questione, quasi a sentirsi tranquilli con la propria coscienza. E la grazia della direzione spirituale inesorabilmente svanisce. Fedeltà, dunque, all’incontro. E più fedele è la frequenza più ricco sarà il dialogo e più abbondanti i frutti che se ne ricaveranno.
Ne conseguirà, poi, una bellissima esperienza. Qualche volta basterà evocare mentalmente la figura del proprio padre spirituale per trovare soluzione ai problemi che gli si vorrebbe porre in quel momento. E’ davvero una grazia questa, di essere accompagnati, in qualche modo istante per istante, dalla parola di colui che ormai è diventato così in profondità padre della nostra anima da essere presente ad ogni passaggio del cammino interiore.
Può capitare, di contro, che qualche volta si sia tentati di tacere un proprio comportamento o un proprio pensiero perché colpiscono troppo duramente l’immagine di noi stessi. Al riguardo mi piace ricordare un’altra bellissima affermazione di San Giovanni Climaco: “I pensieri che non si rivelano al padre spirituale diventano atti; mentre le piaghe che si scoprono, lungi dall’aprirsi di più, guariscono”. E’ possibile affermare forse il contrario? Quante volte abbiamo vissuto questa grazia stupenda che è la gioia di essere salvati: proprio in quella situazione vissuta che, se avessimo tenuto per noi stessi, sarebbe rimasta alimento velenoso di malattia sempre più grave.
Conclusione
Il punto zero
Quanto affermato per la relazione di accompagnamento spirituale non ci ha portato fuori dal tema da cui siamo partiti: quello della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano. Non c’è infatti momento più qualificato per tale lettura e tale accoglienza rispetto a quello della direzione spirituale e del dialogo in cui si vive di paternità e di figliolanza nella via dello Spirito.
E così, ora mi avvio a concludere. Concludere significa tirare le somme della affermazioni fatte, quasi riassumerle in un certo senso: in breve e facendo in modo di lasciare aperti spiragli per ulteriori approfondimenti personali e per eventuali risonanze.
Tutto questo me lo offre il salmo 45. Nel testo poetico ispirato la fidanzata, che non conosce ancora lo Sposo, cerca di farsi apprezzare da lui esprimendogli l’amore e lodando la sua bellezza: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia… il tuo trono dura per sempre… Dio ti ha consacrato con olio di letizia” (3-10). Il Beneamato non si lascia però incantare tanto facilmente dalle parole dell’amica. Egli le chiede una purificazione interiore, una sottomissione della volontà e il distacco da ogni bene e da ogni affetto: “Ascolta, figlia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre…” (11). Se l’amata accetterà di essere ridotta a un nulla, di essere condotta al “punto zero”, rinunciando a se stesa e al proprio passato, l’Amato la prenderà in sposa: “Allora al re piacerà la tua bellezza” (12). Spogliata di tutto, la sposa potrà onorare l’Amato nella verità.
L’abbandono di tutto il nostro essere al Signore diventa, per l’anima, la condizione per disporsi all’adorazione: “Egli è il tuo Signore: prostrati a lui!” (12). E, se sarà capace di volgersi allo Sposo con tutto lo slancio della sua verginità, la sposa riceverà una fecondità universale: “Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli, li farai capi di tutta la terra” (17). Così l’atteggiamento dell’abbandono è condizione indispensabile per entrare nella pace dell’adorazione e della contemplazione di Dio. Se l’amata, pur tremante ma con fiducia, si lascerà andare fra le braccia dell’Amato, lo Sposo la stringerà a sé e la renderà feconda. Proprio come l’anima che si abbandona nelle braccia di Dio. Ma la condizione è il “punto zero”.
Così concludiamo tornando alla radice della lettura e dell’accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano. “Vieni al largo!”, sentiamo gridare verso di noi dall’altra riva, ogni giorno della vita. Si tratta di abbandonare la banchina apparentemente sicura dei nostri ragionamenti e di salpare con fiducia nell’amore di Dio. E’ necessario lasciarsi andare alla deriva e scoprire una gioia nuova: quella che consegue dalla povertà assoluta dello spirito che si abbandona nelle mani del Signore. “Vieni e vedi”, ancora una volta dice Gesù a noi, come già un tempo ai primi discepoli che si ponevano la questione di quale fosse la volontà di Dio e di come aderirvi. “Vieni e vedi”. Ancora oggi per noi è e non può non essere che così: andare e vedere. Poche volte ci è dato di vedere e, successivamente di andare. In via ordinaria ci è chiesto di andare e poi di vedere. Ma è così bella la vista, così sorprendente l’orizzonte!
Chiediamo che questa nostra speranza di lettura e accoglienza della volontà di Dio nel quotidiano diventi realtà. Che lo possa diventare con l’aiuto di un accompagnatore o, se Dio vuole, di un padre che ci sia vicino con amore “fraternamente paterno”. Lo chiediamo con quella preghiera che santa Giovanna Francesca di Chantal aveva imparato a dire ogni giorno alla scuola del suo grande, impareggiabile maestro nell’arte del discernimento spirituale: “O mio Dio, tutto quello che tu vuoi, io lo voglio, tutto quello che tu fai io lo amo, tutto quello che tu permetti io lo adoro”.