Omelia – Festa dei Santi Filippo e Giacomo

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Omelia – Festa dei Santi Filippo e Giacomo

Omelia – Santa Messa nella festa dei Santi Filippo e Giacomo.
Incontro con i catechisti della Diocesi

Il nostro ritrovarci in Cattedrale si incontra con una data liturgica che possiamo definire per noi provvidenziale, quella nella quale celebriamo la festa di due apostoli, Filippo e Giacomo. Perché è una data liturgica che possiamo definire provvidenziale? Perché ci offre una liturgia della Parola nella quale ritroviamo alcuni punti fermi, capisaldi del nostro ministero di catechiste e di catechisti. Vogliamo soffermarci proprio su questi punti fermi e questi capisaldi. Non esauriscono l’elenco dei punti fermi dell’impegno catechistico, ma certamente sono tra i più importanti per la nostra vita e per il nostro servizio.

San Paolo scrive alla comunità cristiana di Corinto e sottolinea: «Il Vangelo che io vi ho annunciato». Sono poche parole, ma in queste poche parole c’è davvero il cuore, il centro della vita cristiana. Perché? Paolo ha annunciato il Vangelo, vale a dire, ha annunciato una “buona notizia”, una notizia colma di gioia e pertanto capace di colmare di gioia il cuore di coloro che l’ascoltano e l’accolgono nella loro vita.

Siamo talmente abituati a usare la parola “Vangelo” che, a volte, rischiamo di dimenticarci il significato che essa ha. È una notizia bella, una notizia che porta gioia, una notizia che cambia la vita e le dà davvero pienezza e fecondità.

Perché è importante ricordare questo? Perché tutti noi viviamo una tentazione – è una tentazione di oggi, come lo è stata di ieri e come lo sarà di domani, perché è una tentazione di sempre –: quella del moralismo, che non è una buona notizia, non è una notizia che riempie di gioia e che trasforma la vita, rendendola davvero bella; è soltanto una sorta di peso che noi mettiamo sulle spalle di coloro che ci ascoltano.

Invece, non dimentichiamolo mai: Gesù non è venuto a dirci: «Tu devi!». Lo avevano già detto in molti e lo diranno in molti. Lui è venuto a dirci: «Tu puoi, perché in virtù del mio amore, del mio dare la vita per te, del mio sacrificio, il tuo cuore è cambiato, la tua vita è cambiata e tu puoi vivere in un modo nuovo e diverso secondo una misura alta della carità. Tu puoi!».

Per questo l’annuncio di Paolo è Vangelo, per questo il Vangelo è “buona notizia” e per questo quello che noi diciamo agli altri, ai ragazzi, ai bambini, ai giovani, agli adulti non può che essere una buona notizia, incontrando la quale il cuore si riempie, perché incontrando quel Vangelo il cuore incontra ciò che attendeva. Anzi, molto di più di ogni sua attesa.

In questo senso, questo primo punto fermo che la Parola di Dio ci ricorda ci interpella; non è forse vero, infatti, che a volte – spesso – rischiamo di presentare la fede come una sorta di dovere, come un moralismo, semplicemente come un insieme di precetti da osservare? Qual è la novità, allora, se questo è ciò che diciamo e trasmettiamo?

No! Noi possiamo vivere in un modo nuovo perché abbiamo incontrato un Vivente, Cristo Risorto, che ci ama e ci trasforma la vita. Chiediamo la grazia di saper comunicare, con le nostre parole, con la nostra vita, la gioia autentica del Vangelo, una novità straordinaria che non può non affascinare e che salva la nostra umanità.

Se coloro che ci ascoltano, a volte, rimangono appesantiti, annoiati, delusi non sarà anche perché trasmettiamo non una bella notizia, che è Cristo Salvatore, ma un moralismo pesante e sterile?

È ancora Paolo che ci ricorda un secondo punto fermo della catechesi. Egli scrive ai cristiani di Corinto e li esorta, preoccupato che si si attengano alle sue parole: «A voi, – dice Paolo – anzitutto, ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto.». E invita, poi, a restare saldi e a non cambiare quanto è stato ricevuto. Ciò che Paolo ha ricevuto non è suo, non gli appartiene, è la fede che la Chiesa ha ricevuto e che trasmette, di generazione in generazione, con fedeltà. Noi non annunciamo una fede che è la nostra, ma una fede che è della Chiesa e che, come tale, dobbiamo accogliere e, come tale, siamo chiamati a trasmettere.

Paolo è preoccupato di questa fedeltà nella trasmissione della fede, perché sa che c’è una tentazione: quella di modificare il contenuto della fede, di abbassare, di tradire il contenuto della fede, forse anche a seconda dei tempi nei quali viviamo; e allora raccomanda: «Io vi ho trasmesso quello che ho ricevuto, voi anche trasmettete quello che avete da me ricevuto, senza cambiarlo».

La fede della Chiesa è quel tesoro prezioso che ci è stato consegnato e che noi siamo chiamati, a nostra volta, a consegnare integro, in tutta la sua bellezza, alle generazioni che vengono dopo di noi.

Se è vero che viviamo la tentazione del moralismo, considerando questo secondo punto fermo è anche vero che noi viviamo una specie di ossessione. Mi perdonerete se la chiamo così. È l’ossessione del metodo. Il metodo è importante, va scoperto, va approfondito, va usato con saggezza; ma non è questo il centro della catechesi e di ciò che noi trasmettiamo. Il centro a cui dobbiamo appassionarci davvero, che dobbiamo rendere sempre più nostro, conoscere, approfondire, farlo diventare vita della nostra vita è il contenuto, ovvero il mistero di Cristo che “morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici”.

Questo è il centro! Non il metodo! Rischiamo, invece di rimanere ossessionati dal metodo perdendo di vista il contenuto e il suo centro. Paolo con queste parole ci riporta al centro e al cuore della catechesi. Non dimentichiamolo.

C’è poi un terzo punto fermo che ci è ricordato nel Vangelo appena ascoltato. È Gesù stesso che parla di sé: «Io sono la vita, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». Queste parole nessuno può cambiarle, nessuno. E significano che al Padre si va soltanto attraverso di Lui, Gesù; e che, dunque, Egli è l’unico autentico Salvatore del mondo e dell’uomo. È Lui la Via senza la quale ci perdiamo, la Verità senza la quale siamo nell’errore, la Vita senza la quale siamo nella morte.

Non ci capiti di fare della catechesi l’occasione per parlare d’altro senza parlare di Cristo, di parlare d’altro, senza partire da Cristo, di parlare d’altro senza arrivare a Cristo. Per questo noi, che trasmettiamo la fede, non possiamo non ripetere – e con partecipazione crescente – nel nostro cammino personale: «Cristo è tutto per noi!». E nella misura in cui diventa nostra questa parola, perché diventa carne della nostra carne e vita della nostra vita, allora diventiamo davvero capaci di trasmettere il Vangelo in tutta la sua debordante ricchezza a partire da Gesù Cristo, vivo, risorto da morte, nostro salvatore, nostra speranza e nostro tutto.

Questi sono i tre punti fermi che, oggi, la Parola del Signore ci ricorda, nella festa dei santi apostoli Filippo e Giacomo. Non dimentichiamoli mai!

Ma come possiamo realizzare questi punti fermi? Lo possiamo nella misura in cui la nostra è una vita di sequela autentica di Gesù, perché la catechesi la si può fare nella misura in cui noi siamo, ogni giorno, alla sequela del Signore, nella misura in cui la nostra comunione con Lui cresce quotidianamente, nella misura in cui avvertiamo che la santità è la chiamata che ci segue e che ci insegue ogni giorno, nella misura in cui lasciamo che il Signore entri nella nostra vita e la occupi tutta.

Se c’è, dunque, un primato che il catechista è chiamato a vivere, questo è il primato della vita spirituale, della vita di grazia, del rapporto con il Signore, della preghiera, dell’ascolto della Parola, della partecipazione alla Messa e ai sacramenti. Questo rende possibile a un catechista essere davvero colui che trasmette la fede con la certezza della fecondità.

Un’ultima parola. Tante volte ci è stato ripetuto che nella catechesi abbiamo bisogno di autentici testimoni. Già san Paolo VI diceva che la Chiesa ha bisogno più di testimoni che di maestri, e se ha bisogno di maestri ha bisogno di maestri che siano testimoni.

Un’attenzione, tuttavia, è d’obbligo per evitare fraintendimenti. Le due dimensioni – maestro e testimone – non si escludono; siamo, infatti, chiamati a trasmettere la fede con la vita e con la parola. Entrambe sono decisive ed entrambe devono essere testimonianza di un incontro che ha cambiato la vita a noi e a motivo del quale diciamo a tutti che la fede è il tesoro più prezioso e che il Signore è davvero Colui che ci salva.

Quando ero un bambino piccolo, mio papà mi portava sulla spiaggia di Genova, la città da cui vengo. A lui piaceva raccogliere conchiglie e mi aveva trasmesso la passione di raccoglierle e classificarle. Ricordo che, un giorno, mio papà trovò una conchiglia più grande e con mia sorpresa mi disse: «Mettila vicina all’orecchio». E io, seguendo le sue indicazioni, la misi vicino all’orecchio. Poi mi disse: «Senti qualcosa?». E io risposi che sentivo un rumore come un respiro. Mi disse, allora: «Quello che senti è il respiro del mare. Questa conchiglia, che è stata per anni dentro il mare, ormai ha in sé il respiro del mare, pur vivendone fuori».

Voi catechisti e catechiste siete chiamati a essere come conchiglie, la cui parola e la cui vita siano una testimonianza di Gesù Cristo. Nella vostra parola si possa sentire la parola di Gesù, nella vostra vita si possa vedere la presenza di Gesù. Perché Cristo è in voi ed è l’Amore del vostro cuore.

Ed ecco allora la mia preghiera per voi. Chiedo al Signore che non soltanto quei punti fermi, quei capisaldi rimangano impressi nel vostro cuore, ma anche che possiate diventare sempre più delle vere e proprie conchiglie che con la parola e con la vita testimoniano la bellezza della fede e la bellezza di Gesù.

Trascrizione da registrazione audio